Siria, 260 d.C. L’assedio dei Persiani ha stremato la resistenza della città romana di Edessa, l’imperatore Valeriano è stato catturato insieme al capo della sua guardia personale, Marco Metello Aquila, eroe dell’impero e leggenda vivente, e ad altri dieci dei suoi uomini più valorosi. Marciranno ai lavori forzati, in una miniera da cui nessuno è mai riuscito a evadere. Ma c’è chi conosce quei cunicoli bui: Metello e i suoi fuggono e trovano rifugio in un’oasi dove è atteso un misterioso personaggio braccato dai Persiani. I Romani ne diventano la milizia privata con il compito di scortarlo nel mitico regno della seta, la Cina. Ha inizio così un’epopea straordinaria attraverso le foreste dell’India, le montagne dell’Himalaya, i deserti dell’Asia centrale: un viaggio favoloso al termine del quale Marco Metello scoprirà di non essere il primo Romano ad aver raggiunto quel mondo remoto…
Di Manfredi avevo già letto molti romanzi: fra i migliori L’ultima legione, Il tiranno, la serie Alexander, ma anche altri un po’ meno riusciti (penso a Palladion, L’armata perduta, Le idi di marzo). Manfredi lo seguivo quando aveva il suo programma su La7. Confesso che come divulgatore lo preferivo agli Angela. Mi ha sempre ispirato simpatia con quella sua aria molto “greca” e “mediterranea”, da persona che sembra venire dalle epoche di cui racconta, e mai troppo piaciona.
Romani in Cina, dunque. Questo è il genere di parole che fa accendere la lampadina sopra la mia testa. Manfredi avrà scritto un romanzo che possiede sense of wonder come fu per L’ultima legione? La risposta è sì. Mi spiego. Manfredi ha un grande pregio. Sa raccontare una storia (le avventure di un personaggio) ben inserita nella Storia (l’ambientazione e gli eventi in cui si trova calato il personaggio). E’ un equilibrio molto difficile, ci vuole un niente perché uno dei due aspetti prevalga oscurando l’altro. Se la Storia prevale, allora la sensazione sarà di leggere un saggio storico (capita a molte biografie romanzate); se la storia prevale, allora si perderà la particolarità di ogni epoca (l’antica Roma non è la Parigi di d’Artagnan) e non si avrà la sensazione di immersione in una certa epoca storica. Manfredi riesce solitamente a bilanciare i due aspetti e, cosa ancora più importante, a trasmettere sempre un minimo di sense of wonder. Romani in Cina. Basta dirlo per evocare una miriade di suggestioni.
Analizziamo la trama. Il nostro protagonista è un ufficiale romano, dotato di forte senso dell’onore, virtuoso. Una caratterizzazione tutto sommato standard per il genere storico; quello che ho apprezzato è la coerenza con cui Manfredi descrive e fa agire il nostro: all’inizio, Aquila deve assistere impotente al tradimento, alla sconfitta e all’umiliazione del suo imperatore, Valeriano; in seguito, quando incontra il principe cinese (non aggiungo altro) decide di sostenerlo e di aiutarlo. Il protagonista, insomma, è coerente con i suoi ideali, che non sono messi là “tanto per”. Il rapporto tra Aquila e il principe cinese è molto interessante, perché è tra loro due che avviene il principale confronto tra le due culture (lingue, sistemi di governo, lotta per il potere eccetera). Interessante anche la figura del mercante Daruma, che fa da contraltare ai “grandi ideali” degli altri due. In Cina, Aquila svilupperà anche una storia d’amore, onestamente un po’ scontata, che però ha dei risvolti interessanti sul nostro principe cinese…


Non ho le competenze per dire se la rappresentazione della Cina che fa Manfredi sia esatta storicamente. Ho l’impressione che Manfredi abbia anche fatto riferimento alla letteratura (e al cinema) wuxia, il famoso genere narrativo cinese che mescoli arti marziali e…qualsiasi cosa. Sì, abbiamo quindi scontri tra legionari e pseudo-ninja e donne toste che combattono. A me è piaciuto, magari qualcuno storcerà il naso ritenendolo trash.
La parte di descrizione del viaggio e della diversità (dal punto di vista romano) della Cina è una delle qualità del romanzo. Paesaggi, geografia, monumenti, usi e costumi, commercio, nel romanzo c’è tutto.
La parte finale, forse, è un po’ troppo veloce e “tirata”. Si poteva dedicare più spazio ad alcune vicende. Sempre in questa parte abbiamo qualche scivolamento nel fantasy. Niente di tragico, intendiamoci, però appunto è questione di gusti. Il finale è soddisfacente: tutto viene risolto e ha una risposta.

Passiamo allo stile. Manfredi ha una scrittura semplice, lineare senza bassi ma anche senza alti. La telecamere è saldamente dietro le spalle di un personaggio, e non vi sono errori gravi come salti di punto di vista improvviso o interventi pesanti del narratore onnisciente. La descrizione delle battaglie non è ai livelli di un Simon Scarrow, ma è più che buona. Punto di forza, secondo me, sono la descrizione dei paesaggi e del mondo nuovo che i romani si trovano ad attraversare.
In definitiva, il voto è molto positivo con qualche leggera sbavatura. E’ consigliato a chiunque ami la storia declinata nel senso avventuroso del termine.
VOTO: 4/5