Con il sole negli occhi – Racconto breve

Di Carlo Cavazzuti


 Come sarò bello nella divisa nuova quando finalmente avrò le aquile d’oro ricamate sulle braccia!
 Ma prima mi appresterò all’istruttore, mi fermerò con lui ogni volta che posso, ad ascoltarlo, lui sarà ferito, è vero, ma avrà combattuto e abbattuto da solo due biposto a Tolmezzo.
Qui, al battaglione scuole aviatori, sarà una leggenda: uno dei primi a essere tornato da uno scontro aereo, ad aver sparato a un altro velivolo in questa guerra che abbiamo atteso forse troppo.
 Già mi vedo. Entrerò per l’ultima volta nella carlinga del Nieuport, tutto di legno e tela rinforzata: una culla da bambini troppo cresciuti. Niente ammennicoli da donnicciole, solo la leva del motore, piccola e a corsa tonda, la cloche di ferro con la presa in gomma rossa, i pedali e il vetrino del livello carburante. Il resto sarà in me.
 Farò il mio primo volo, solo. Io, l’aria, il motore. Non ci sarà l’istruttore seduto dietro di me, il suo sedile traforato mi guarderà la nuca facendo fischiare il vento. Zufolerà alle mie spalle e canterà la mia impresa! Oh madre mia quanto sarà superbo lanciarsi in picchiata con il rombo del motore nelle orecchie! Sbucherò dai nembi, sul campo, seguito dal flauto del vento nel sedile vuoto dietro di me. Mi applaudiranno? Sarà un bel concerto? Lo dirigerò bene?
 Sicuramente sì, ma mi tremeranno comunque i polsi. Viaggerò più veloce della maggior parte delle creature che sono esistite dalla creazione a ora. Volerò più alto delle montagne dove solo i vecchi Dei hanno osato buttare lo sguardo. Eolo sarà con me questa volta? Sporco Dio bastardo che mi soffia in faccia quando non deve. Soffierà, ne sono certo, mi butterà addosso tutto il suo alito gelido appena salirò in quota, mi farà sbandare con la cloche impazzita tra le mani e i pedali a sbattermi sulle piante dei piedi come un terremoto dove terra non ce n’è.
 Oh, ma avrò studiato, avrò appreso, avrò guardato e non sarò una sua vittima. Se Dio vorrà che io muoia nell’aria sarà un proiettile austriaco a fermare il mio cuore, non certo il gioco del vento.
 Quando avrò posato il carrello sulla nuda terra e spento il motore arriveranno gli urrà dei compagni e la stretta di mano dell’istruttore:  
 «Congratulazioni allievo. Venga più tardi nel mio ufficio per fare rapporto di volo e le farò avere il suo brevetto e una piccola licenza prima che sia assegnato.»
 Andrò in giro per il paese con la divisa grigio verde e le aquile, sarò l’invidia degli imboscati che si son dati invalidi: loro soli a chiacchierare e giocare a briscola e io attorniato dalle più belle figliole sulla piazza. Si pentiranno della loro scelta da disertori. 
 Dovrò stare attento, al rientro, ma ho intenzione di portare la Gina a fare un giro, una notte. Quando sarò tornato a Cascina Costa me la voglio imbucare a scuola. Me la porterò sulla pista e anche se non potrò certo decollare con lei a bordo, la farò salire sul sedile dell’istruttore e poi…
 Chissà in che squadra mi assegnerà il comandante istruttore?
 Sarà Cerutti ad avermi come compagno d’ala, forse non sarò ancora degno di Baracca, Scaroni e Ruffo che son già leggenda, ma Dio piacendo entro la fine dell’anno sarò un asso anche io, con le mie cinque tacche sulla carlinga e sarò promosso a ufficiale per le mie imprese aeree.
 La Settantanovesima non è un brutto posto, è solo brutto l’acquartieramento e la zona intorno: il paesino di Istrana è poco più di un borgo freddo qui a ovest di Treviso che per arrivarci ci vogliono trenta minuti di camionetta, sempre che la strada non sia allagata.
 Prima mi andava peggio, ero con la dodicesima ad Asiago. Se qui la guazza regna sovrana là si moriva di freddo tanto che molti piloti si tenevano il giaccone anche a terra. 
 Poi si stava a far caccia su quegli scassoni dei Farman che erano vecchi prima dell’inizio della guerra: tutti tela e legnetti con quei pattini che quando atterri se non cappotti devi ringraziare l’Altissimo.
 Adesso il capitano Chimirri ci tiene a terra più che può, l’inverno non è mai il massimo per volare, ma quando si deve si sale su a cercare i bombardieri che vengono a malpestare i nostri fanti in trincea. Mai visti se non da lontano: loro stanno troppo su rispetto a noi dei caccia.
 Spero di essere di quelli scelti per il trasferimento a Padova. Almeno lì non dormo in baracca e vado dallo zio Alfonso quando sono in libertà.
 Non sono mai stato bravo come lattoniere, ma sicuro che una mano gliela posso dare e lui ne sarà felice con la carenza di braccia giovani che c’è adesso.
 Si parla che presto il Cadorna voglia spingersi di nuovo verso Trieste e son sincero a dire che non vorrei proprio essere laggiù quando succederà.
 Noi siamo aquile nel cielo e v’è onore tra rapaci.
 Noi si abbatte l’aereo non l’uomo che lo pilota.
 Oggi uno dei nuovi rincalzi è riuscito a tirare giù un Albatros tedesco frastagliandoli un’ala con un paio di raffiche.
 Il poveretto è atterrato in un campo e lo stupido ha pensato bene di scendere e mitragliarlo a terra facendo secco il povero pilota.
Foconi lo ha visto e nel rapporto ha segnalato la faccenda al comandante che lo ha messo agli arresti.
 Si decide nei prossimi giorni se quel ragazzotto, di cui nemmeno ricordo il nome, dovrà essere messo al muro. È una faccenda inaccettabile quella di tirare a uno a terra dopo che gli hai abbattuto l’aereo. Non siamo mica animali!
 Non invidio affatto chi lo deve giudicare e nemmeno invidio lui: è giovane, un paio di anni in meno di me e ha tutta la vita davanti. Finirla così, legato a un palo mentre i tuoi ti tirano col moschetto non è qualcosa a cui mirare.   Non glielo auguro, ma… Se un tedesco avesse tirato a me e mi avesse spacciato intanto che correvo a terra vorrei davvero aspettarlo all’altro mondo per cantargliene quattro e spiegargli che ci sono cose che non si fanno, manco in guerra.
 Non ho tempo per quel giovinetto però, mi dicono che sono arrivati i trasferimenti e son proprio curioso di sapere se mi mandano a Padova o rimango qui a far voletti di ricognizione.
 Ci schiacciano sempre di più indietro adesso, dovrebbero arrivare a darci man forte un poco di inglesi. Vediamo come andrà.
 Nulla, rimango qui, sento le urla di quelli trasferiti a squadriglie più prestigiose, o con i grandi assi, e il mio nome non è stato chiamato. 
 Inizio a pensare che il mio ruolo in questa guerra sarà marginale e non sarò destinato a grandi successi. Me ne sono quasi fatto una ragione, ma ancora un poco spero. 
 Non voglio la morte eroica per il bene della Patria e del Re, ma almeno vorrei essere tra quelli che un giorno potranno dire:
 «Io quel giorno c’ero! Io ero lì e partecipai all’impresa!»
 Ma poi penso, avendo visto la crudità di questo conflitto, a chi me lo fa fare? Meglio tener le orecchie basse, tornare a casa una volta finito, riporre la divisa in una cassapanca e dimenticarsi dei compagni e di queste bombe, di questi morti.

Saranno state le nove del mattino o poco prima, mi ero alzato già da un poco, o, per meglio dire, non ero quasi andato a letto dopo i festeggiamenti di Natale.    
 Arrivò Michetti da me e Scaroni, correva, che stavamo bevendo un caffè.
 «Arrivano, li hanno sentiti!»
 Scaroni prese il binocolo dal tavolo e uscì a vedere.
 Io mi misi subito dietro a lui e quando mi passò il binocolo vidi bene due grandi gruppi di bombardieri che venivano su Istriana da Montello e intravvidi anche, più su, oltre i tremila forse, dei caccia. Se non erano quaranta macchine poco mancava.
 Nei fui terrorizzato. 
 Tolte le lenti dagli occhi mi accorsi subito che sul campo erano già tutti attivi.
 I tecnici motoristi avevano già messo mani ai nostri aerei e vedevo tutti i colleghi, pari mio, essere presi dalla smania di non rimanere con i piedi per terra quando sarebbero cadute le bombe.
 Non ci fu dato l’ordine di partenza generale, non ce ne fu bisogno. Otto erano gli aerei fuori dall’hangar per il decollo rapido e tutti ci accalcammo per fare uscire le nostre ali da sotto i tetti.
 Prima ancora che Comandone, D’Urso e Panero fossero in aria le bombe iniziarono a cadere sull’aeroporto. 
 Nessuno si aspettava quell’attacco il giorno di Santo Stefano e ce ne stavamo buoni buoni a farci ancora la barba negli alloggi.
Ci fu chi corse fuori con le braghe in mano al suono della sirena e altri, con il viso sporco di sapone correre verso gli aerei infilandosi il giaccone.
 Vidi l’Hanriot di Avet che rullava sulla pista essere mitragliato a terra tanto da mandargli in fiamme il motore e essere abbandonato dove stava mentre Contardini scendeva al volo dalla sua macchina con un’ala spezzata al longherone da un’altra raffica.
 Riuscimmo ad alzarci in volo in quindici, due terzi degli effettivi, di cui uno, non ricordo chi, aveva l’arma scarica o inceppata.
 Iniziammo a puntare i DFW tedeschi intanto che prendevamo quota. Anche se di quota non ce n’era molta da prendere.   
 Gli alemanni passavano poco sopra la linea degli alberi inclinando le ali per mitragliare anche di coda.
 Ne puntai uno e misi indietro la manetta del gas per stargli in coda e non superarlo senza potergli almeno scaricargli addosso una raffica.
Avevo già volato in azione, ma sempre di pattuglia o scorta ai bombardieri e i miei piccoli scontri li avevo avuti solo con dei caccia.
 Qui fu diverso: erano bombardieri quelli che puntavamo, con la mitragliera anche in coda servita da uno che sapeva il mestiere suo e sparava dritto, anche il pilota era uno bravo, noi avremo detto che “Aveva del manico”. Scartava con il timone di coda imbardando l’aereo, scansando le mie raffiche quasi come se sapesse quando stavo per sparare.  Il servente tirava sulle imbardate sventagliandomi piombo addosso.  
Sentii un paio di miagolii di proiettili che mi passavano vicini e decisi che attaccare dall’alto e da dietro, come ci era stato insegnato di fare con i caccia, sarebbe stata la mia fine.
 Intanto i cacciatori tedeschi si erano dileguati, vedevo volteggiare i miei compagni attorno ai DFW senza essere disturbati dalla scorta e la cosa non mi piaceva.   
 Continuavo a girare intorno a quei tedeschi senza trovare un varco per le mie pallottole intanto che loro passavano e ripassavano sul campo. Vedevo bene il servente sporgersi dalla carlinga per sganciare le bombe, ma non avevo cuore di abbassare lo sguardo per vedere dove cadessero.
 A un certo punto vidi passare un Camel inglese, chissà cosa ci faceva lì, e accodarsi a uno dei biposto prendendolo di mira.
 Cambiai subito rotta, scesi tanto che il carrello strappò qualche frasca da un ontano spoglio. Andai quasi sotto al bombardiere con un sudore freddo che mi cadeva sul naso e veniva lanciato via dal vento.
 Spinsi avanti la manetta e tirai indietro la cloche con tutte le mie forze e feci alzare il naso della macchina dritto verso il cielo, abbagliato, avevo davanti solo due piccole sagome nere: il tedesco e l’inglese alla sua coda.
 Intanto che salivo verso di loro pestavo sui pedali tanto da farmi dolere le caviglie e aggiustavo le ali con la mano tremante come un vecchio, poi vidi il colore del tedesco e schiacciai il grilletto.
 Non fu una raffica breve come mi avevano sempre insegnato, tenni il dito premuto. 
 Andai su, in mezzo a loro, come una saetta al contrario, vedendo i miei colpi schiantarsi sulla coda del tedesco troncandola di netto.
 Passai oltre con il motore che sputava olio dalla fatica, le ali che tramavano dallo sforzo e il cuore in gola dalla paura. Livellai le ali e abbassai finalmente lo sguardo sul mio aereo: l’elica vibrava in malo modo e non girava bene; il motore continuava a sputare olio che iniziava a schizzarmi in viso. Colpito! Qualcosa aveva centrato l’elica e il motore: uno dei pezzi del bombardiere oppure una raffica mi aveva preso senza che io me ne accorgessi.
 La decisione fu presto presa: a terra e subito prima che tutto quell’olio prendesse fuoco e mi cucinasse in volo.
 Puntai un campo vicino a un paesino poi, cercando il mio primo abbattimento, vidi il fumo levarsi poco più in là.  
 Girai e scesi lì.  
 Messo piede a terra corsi subito verso la carcassa in fiamme piantata di muso a terra. Il pilota era dentro una bolla ruggente di fuoco che già divorava le strutture portanti dell’aereo. Il servente era chino sulla mitragliera. Quando mi avvicinai per provare a estrarlo, ché non venisse bruciato anch’egli, lo vidi passato dai miei colpi. Quattro, cinque, non riuscivo a contarli. Provai a tirarlo fuori, ma le fiamme salivano in fretta e corsi via guardando la sua pira funebre.
 Fu il mio primo e solo abbattimento, non smisi mai di chiedere scusa a Dio per quei due ragazzi.
 Io tiravo alla macchina, non alla carne, ma ero con il sole negli occhi.


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