di Giovanni Di Girolamo
La sconfinata steppa russa restituisce una nuova commovente storia, dopo averla custodita per più di settantasette anni. Il volto di un ragazzo di poco più di venti anni è l’immagine delle decine di migliaia di soldati dell’ARMIR, la cui amara sorte si consumò nel gelido inverno del 1942 lungo la riva del fiume Don, a causa della poderosa offensiva sferrata dall’Armata Rossa.
Volti e voci mai dimenticati risalgono dai labirinti dell’oblio, implorando che il loro sacrificio non sia dimenticato, e lo fanno inviando come messaggero un piccolo oggetto metallico, testimone di un triste passato che ancora oggi suscita vivida emozione.
Oggi possiamo raccontare questa storia grazie al ritrovamento del piastrino militare appartenuto al bersagliere Vincenzo Cimini, rinvenuto da Aleksander e Ivan Perminov nei pressi del villaggio dove il Terzo Reggimento si rifugiò per trascorrere la notte successiva alla battaglia di Meshkovskaya e dove, stante l’accerchiamento delle truppe sovietiche e la mancanza di munizioni, fu costretto ad arrendersi nella mattinata del 21 dicembre 1942. Oggetti di questo tipo vengono rinvenuti fra cumuli di rifiuti ed erbacce, presumibilmente abbandonati dai soldati italiani al momento della cattura.
Aleksander, che negli anni passati ha partecipato agli scavi condotti dalle Autorità russe e italiane in diversi villaggi dell’oblast di Rostov, ha una grande passione per la storia della sua terra e degli uomini che ne hanno condiviso la storia.
Il gruppo ARMIR, Ritorno dall’oblio, coordinato da Enia Accettura, ha il merito di aver riportato in Italia il piastrino di Vincenzo. Fra mille difficoltà il gruppo cerca di portare avanti questa attività di recupero. Ad esempio, Cristiano Maggi ha raccolto diversi oggetti di vita quotidiana appartenuti ai soldati italiani. Se questi oggetti potessero parlare, avrebbero tante storie da raccontare.
Enia racconta un aneddoto sorprendente:
Proprio alcuni giorni prima del ritrovamento, mentre sistemavo foto e documenti, mi sono trovata fra le mani la fotografia di Vincenzo Cimini. Credo che sia stato un messaggio che ha voluto inviarci, perché potessimo ricordarci di lui, e in un certo senso ritrovarlo. Il nostro lavoro è volontario e ci dedichiamo ad esso spesso sottraendo tempo ed energie che potremmo dedicare alla nostra casa e alla nostra famiglia. Non è facile, ma la commozione che queste notizie suscitano negli occhi dei familiari dei Caduti ci dà conforto.
Vincenzo Cimini, nato a Canzano (TE) il 4 novembre 1921, da Gennaro e Di Basilio Domenica, era un bersagliere della 10a compagnia del 25° battaglione. Fu chiamato in Russia per sostituire i bersaglieri che erano Caduti durante la battaglia di Natale del 1941. Partì il 7 gennaio e calpestò la terra russa dal 12 febbraio al 2 maggio e, successivamente, dal 23 giugno fino alla data di sparizione.
Le ultime notizie giunte alla famiglia risalgono al 2 dicembre. Ritenuto disperso secondo il verbale di irreperibilità del 17 giugno 1947, ricevette la croce al merito di guerra nel 1967.

Come evidenzia Giovanni Di Girolamo, esperto della storia del 3° reggimento bersaglieri durante la Campagna di Russia e autore del libro Prigionieri della Steppa (Gaspari editore, 2019):
Il Terzo Reggimento ebbe la sventura di essere abbandonato al suo destino nei fatidici giorni del dicembre 1942, sconvolti dallo sfondamento sovietico sulla riva occidentale del fiume Don e dal caos generatosi in virtù di ciò, accompagnato da notevoli difficoltà logistiche – ordini tardivi, mancanza di collegamenti, di carburante, di mezzi – e dalle ulteriori difficoltà causate dal gelo e dalla neve.
La marcia del Terzo, ignaro della grave evoluzione che era in atto, fu strozzata sulla collina di Meshkovskaya, davanti ad un campanile in fiamme che divenne l’emblema della battaglia. Impossibilitati ad aprirsi un varco verso la salvezza, bersaglieri, fanti e artiglieri che componevano la colonna del Terzo Reggimento in ripiegamento dalla prima linea combatterono e furono costretti ad arrendersi il mattino del 21 dicembre 1942.
Le prime testimonianze giunsero al rientro dei pochi superstiti dalla prigionia, circa quattro anni dopo gli eventi narrati. Piastrini e altri oggetti di uso comune, che nonostante i decenni trascorsi ancora disseminano la steppa russa, incarnano un valore simbolico e affettivo. Sono testimoni della storia vissuta da migliaia di soldati italiani Caduti sul suolo russo”.
Non si può escludere che Vincenzo sia stato preso prigioniero, come avvenuto per molti altri bersaglieri del Terzo reggimento, ufficialmente dispersi il 19 dicembre, ma che sparirono nel nulla nel corso della estenuante marcia del davai o nei trasferimenti in treno verso i campi di prigionia, ove perirono per via della fame e delle malattie infettive.
Notevole la commozione della sorella, di anni 88. Maria, altra sorella di Vincenzo deceduta nel 2018, cercò il fratello per tutta la vita, per poi arrendersi quando, visitando il sacrario di Cargnacco, vide con i suoi occhi che lì giacevano sepolti i resti non identificati di migliaia di Caduti italiani recuperati dai cimiteri campali e dalle fosse comuni in Russia. La nipote Ines Bucci ha scritto un memoriale sullo zio, facendo negli anni molte ricerche presso Istituzioni e libri:
Vincenzo era bello, alto e gentile. Il padre era tornato dalla grande guerra con i piedi congelati e non riusciva a provvedere da solo al lavoro nei campi, unico sostentamento della famiglia. Vincenzo aveva tre sorelle e un fratello più piccoli. Antonia, Maria, Elisa e Mimmo. Vincenzo era un contadino ma la Patria aveva bisogno di lui, per cui dovette sostituire la falce e l’aratro con un fucile che non avrebbe voluto usare. Tornato a casa con una licenza speciale di 15 giorni, i miei lo trovarono cambiato. Trascorse quei giorni in una grande tristezza, piangendo davanti al camino, perché sapeva di dover tornare in quell’inferno, di cui un ragazzo semplice come lui non riusciva a vedere il senso. Giunse il giorno dell’addio.
Era una mattina di giugno. Dopo l’addio straziante alla madre, lo accompagnarono a prendere la corriera il padre zoppicante e la sorella Maria, mia madre, che aveva 15 anni. Era una bella giornata. Per raggiungere la fermata dovettero attraversare i campi, passando tra le distese di grano, in un silenzio doloroso. Vincenzo si fermò e si voltò indietro per guardare un’ultima volta, con gli occhi pieni di lacrime, la sua amata terra, la sua casa. Diede un ultimo abbraccio al padre, confidandogli il timore che non sarebbe ritornato.
Emblematiche e commoventi le ultime parole pronunciate da Vincenzo:
Papà, io qui non ripasserò più.

La corriera se lo portò via. Per sempre. Seguì una lunga attesa, accompagnata dal silenzio delle Autorità e dalla mancanza di notizie sulla sorte di Vincenzo.
Il racconto di Ines Bucci continua:
Un commilitone era tornato dal fronte e aveva raccontato che, mentre marciavano nella neve durante uno scontro coi Russi, era scoppiata vicino a loro una bomba. Aveva visto Vincenzo cadere, ferito. Aveva sentito il suo grido di aiuto, ma non aveva potuto fermarsi a soccorrerlo, per cui riteneva che fosse morto. Mesi dopo giunse la lettera che comunicava ai famigliari che Vincenzo era presente alle bandiere. Mio nonno ebbe un ictus, non parlò più e morì qualche mese dopo, gettando la famiglia nella miseria, perché mancavano braccia e soldi per sopravvivere. Molto tempo dopo mia nonna Domenica fece un sogno. Era in una cucina con un grande tavolo di legno, dove c’era un mucchio di carne macinata. Accanto al tavolo c’era il figlio Vincenzo, che indicando con aria triste la carne le diceva: “Vedi, mamma, come sono ridotto?”. Per il resto della sua vita, mia nonna non riuscì più a mangiare carne macinata.
Ines confessa che, specie dopo la morte della madre, ha sentito sempre più come una missione ritrovare le tracce del fratello morto in Russia. Sua mamma piangerebbe di commozione se potesse stringere fra le mani quel piccolo oggetto metallico che Vincenzo portò con sé, forse fino alla morte.
Il tempo è trascorso, ma Vincenzo Cimini ha voluto che ci ricordassimo di lui e dei suoi tanti compagni e amici che riposano sul suolo russo, ma che sono vivi nei cuori di chi ancora si ostina a cercarli.
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ra mio zio. Mia mamma non aveva smesso mai di cercarlo, aveva visto il film “I girasoli” e si era aggrappata all’idea che lui si era rifatto una vita lì e che prima o poi sarebbe tornato. In realtà non lo cercava: lo aspettava. Ho letto spesso di polemiche su questi ritrovamenti, sulle profanazioni, ecc, forse anche giuste, non ne so abbastanza in materia per esprimere una opinione personale, So solo una cosa: la famiglia cercò disperatamente di avere notizie di lui, rivolgendosi per riaverlo o riavere qualcosa di lui, a quello stesso Stato che glielo aveva portato via, ma al di là delle belle parole di ringraziamento e cordoglio, non hanno trovato nulla. E le parole, per quanto belle e sentite, non possono colmare il vuoto scavato da una sofferenza così grande. Davanti alla parola “deceduto” forse si riesce a trovare prima o poi rassegnazione, forse, ma davanti alla parola “disperso” non si riesce mai a mettere la parola fine, che consente di elaborare poi il lutto, perché in un angolo del cuore quell’assurda, infinitesima speranza mantiene sempre vivo un profondo dolore, che spinge a cercare, cercare, cercare ancora. O almeno questo è il dolore che ho conosciuto in mia mamma. ed è proprio per acquietare questa pena mai sopita che circa dieci anni fa iniziai un lungo percorso di ricerca e ringrazio tutte le persone non solo di questo gruppo, ma anche impiegati dei vari uffici a cui mi sono rivolta, che hanno sempre mostrato verso questa storia un,umanità e partecipazione non scontate per vicende oramai così lontane nel tempo. Alla fine, dal momento che semmai resti fossero rientrati in Italia, c’era possibilità, senza che MAI possa esservene certezza, che potessero essere fra i seimila ignoti di Cargnacco, per far sì che mamma non se ne andasse portandosi quel tarlo nella tomba,, nel 2011, lei aveva 84 anni, io e mio figlio la portammo in quel tempio, in una giornata di una commozione che mai potrò rendere a parole, tale che pianse anche l’alpino di guardia, perché mamma leggendo in quei registri il nome del fratello scoppiò in un pianto dirotto e finalmente liberatorio e da quel momento cominciò a rassegnarsi e trovò pace, andandosene nel 2018 serenamente incontro a quell’adorato e mai dimenticato fratello. Tuttavia, a sua insaputa, non ho mai smesso di cercare di mettere la parola fine, quella vera, alla storia di mio zio. Perchè quando ti avvicini alle storie di questi ragazzi, specie se poi hai figli di quella età…, finisci per sentirti in debito verso quella vita, che è stato loro impedito di vivere e continui a cercare di mettere la parola fine, quella vera, quasi in sostituzione di una degna sepoltura, a quelle esistenze così ingiustamente spezzate. Mi è quindi impossibile descrivere l’emozione della notizia di questo ritrovamento, arrivato oltretutto in un momento personale particolare, tale da indurmi a continuare la ricerca. Posso solo dire grazie, un grazie immenso dal cuore, a tutta la catena umana che ha permesso che dopo 77 anni questo piccolo frammento della storia di Vincenzo dalla Russia ripercorresse a ritroso la sua strada per tornare là, dove per sopravvivere all’inferno è stato sempre rivolto il cuore di tutti quei ragazzi: A CASA…
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Cara Ines grazie davvero per il tuo messaggio e la tua testimonianza, hai spiegato bene tutto l’abisso che c’è fra la parola “deceduto” e “disperso”, nel mio piccolo sono contento di aver raccontato la storia di Vincenzo, una delle tante ferite aperte di un’epoca tragica per la storia d’Italia.
Ancora grazie di cuore.
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Ho letto un po del messaggio mandatomi come puoi vedere sono le 01:09 domani me lo copio cosi posso leggere attentamente tutta la storia interessante. Grazie.
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