La corsa al Polo Nord – Chi è arrivato prima?

di Carlo Cavazzuti


Prima parte

Sono passati diversi mesi da quando ho scritto qualcosa per Narrare di Storia. Vi ho lasciato con un intrigo al campo dei lanzichenecchi in marcia verso Roma e vi riprendo con un enigma ambientato al Polo Nord.

Sono stato assente dalle vostre pagine proprio a causa delle mie ricerche anche in questo campo. Sono stato oltre il Circolo Polare, ma purtroppo solo grazie ai tanti libri e documenti che ho letto in merito. Veniamo però all’oggetto di questo articolo: il Polo Nord e chi per primo vi è arrivato.

Il primo a tracciare una mappa del Polo Nord è stato Mercatore nel 1595, sì quello della proiezione di Mercatore che dovreste aver tutti studiato a scuola, che ai tempi toppò alla grandissima la sua descrizione cartografica. In fondo nessuno ci era mai stato e il cartografo fiammingo si era basato su un libro intitolato Inventio Fortunata che adesso definiremmo di pura fantascienza. Possiamo ben perdonarlo.

Rappresentò il Polo come l’insieme di quattro grandi blocchi abitati da altrettante etnie diverse con la centro una zona di mare aperto dove, proprio in corrispondenza del Polo, si erge una “rupe nigra et altissima“.     

Descrizione delle Terre Settentrionali”

Da allora sono stati moltissimi quelli che hanno tentato l’impresa di conquistare il Polo. Secoli dopo, quando qualcuno c’è arrivato, ha ben visto che non ci sono i pigmei, non c’è terra fertile, né mare aperto, né la rupe, ma solo tanto ghiaccio.

Vorrei a questo punto prendere con voi la strada per la massima latitudine Nord cercando di mettere un poco di luce su chi per primo sia arrivato laggiù e abbia visto com’è davvero.

Per quanto riguarda il Polo Antartico la faccenda è certa. Il norvegese Roald Engelbregt Gravning Amundsen, dopo essere stato il primo a percorrere il Passaggio a Nord-Ovest, ha pensato bene di tornare in Antartide e il 14 dicembre del 1911 arrivare al Polo Sud. Non ci sono dubbi!

Roald Amundsen (1872-1928)

Le difficoltà dell’esplorazione

Ma chi è arrivato prima all’altro capo del Mondo, a Nord? Qui c’è da discuterne un poco. Innanzitutto c’è da spiegare, caso mai non lo sapeste, che definire la propria posizione ai poli non è affatto facile, per il Polo Nord ancor di più.

La bussola non ci aiuta perché i poli magnetici sono ben distanti da quelli geografici e quindi bisogna andare di sestante. Le misurazioni e i calcoli con questo strumento non sono troppo difficili, e se anche non mi metterò qui a fare una lezione di navigazione stellare, resta il fatto che arrivati ad una certa latitudine (Nord o Sud che sia) le letture solari si fanno davvero molto difficili perché quanto il nostro astro si mostra davvero poco al di sopra dell’orizzonte. Diciamo che dopo gli 88° la misurazione è abbastanza aleatoria e l’accuratezza dei dati ottenuti diventa molto soggetta alla precisione degli strumenti che si vanno ad utilizzare.

Si forma così un circolo oltre il quale non si può più definire con precisione la propria latitudine. Prima dei mezzi di determinazione posizionale moderni, se eri arrivato a varcare quel circolo e a marciare per un certo tratto calcolato in base alle misurazioni solari, potevi dire di essere arrivato al Polo con un ottimo grado di approssimazione. C’è poi da dire che il Polo Sud poggia su un continente che, tolto il movimento tettonico non proprio rapido, non si sposta da dove sta.

Il Polo Nord, di contro, è situato sul pack che è in continuo spostato dalle correnti marine su cui galleggia.

Un uomo in marcia su di esso può essere portato alla deriva di anche 16 o 20 miglia in un solo giorno senza che se ne accorga. Ecco che giungere in un punto del genere, che almeno apparentemente ci si sposta davanti, che un’ora è qui e un’ora dopo è laggiù, e senza nemmeno riuscire a misurare bene se ci si è arrivati, diventa alquanto difficile.

Altra faccenda è come si ci va fin là.         

Ai giorni nostri esistono delle splendide motoslitte, ma alla fine del 1800 e nei primi anni del ‘900 l’unico mezzo di locomozione erano i propri piedi e le slitte trainate dai cani. Non era affatto un’impresa alla portata di tutti anche perché le slitte erano utilizzate solo per portare le provviste e gli strumenti; solo coloro che per qualche motivo non potevano camminare viaggiavano sulla slitta.          

Lassù poi c’è un gran freddo e bisogna essere ben preparati e con le provviste giuste in gran quantità. Una spedizione poteva arrivare a costare qualche centinaio di migliaia di dollari, che per i tempi erano davvero una grandissima somma, solo per le provviste e il trasporto.

Si partiva in nave, si arrivava in Groenlandia e da lì si assoldavano gli inuit che fornivano slitte, cani e conoscenza del luogo. Fatto ciò si partiva camminando sul ghiaccio accanto alle slitte che portavano le provviste.

Robert Edwin Peary, ingegnere ed esploratore

Le prime esplorazioni di questo tipo si sono rivelate tutte infruttuose finché non arrivò un ingegnere americano di nome Robert Edwin Peary che rivoluzionò il modo di affrontare queste spedizioni. Ma andiamo con ordine, chi è questo Peary?

Robert Edwin Peary (1856-1920)

Come appena scritto era un ingegnere della marina militare americana che dopo aver svolto i rilevamenti per la costruzione del Canale di Nicaragua finì per essere il primo a raggiungere la parte più settentrionale della Groenlandia. Là si innamorò delle alte latitudini e dedicò gran parte della sua vita alle esplorazioni del Polo.

Il suo modo di affrontare le traversate artiche era diverso da quello dei suoi predecessori. Egli capì che era il caso di comportarsi come i nativi, invece che le tende usare gli igloo e al posto i maglioni e i cappotti di lana usare vestiti di pelle di uccello (con tanto di piume ancora attaccate) e pellicce di foca conciate dalle donne degli inuit. Fu così preso dal suo “immedesimarsi” che rimase anni oltre il circolo polare assieme a sua moglie e la sua prima figlia nacque in un rifugio di fortuna circondata da levatrici inuit. Fece anche un paio di figli con un’amante inuit, ma questa è un’altra storia.

Josephine Peary (1863-1955)

Era un tipo risoluto e, dal quel che dicono coloro che lo hanno conosciuto, anche con pochi scrupoli quando voleva ottenere qualcosa. A volte si è detto che fosse anche brutale e di un cinismo unico.

Quando partì per la seconda volta verso le alte latitudini, nel 1891, mise sul giornale un avviso di ricerca per personale sanitario, in particolare per un medico, che lo seguisse nella sua spedizione. Ecco allora che il dottor Frederick Albert Cook, medico newyorkese in bolletta sparata e depressione acuta decise bene di presentarsi all’appello.

Qui appare il secondo dei nostri attori. Andiamo a vedere chi fosse.

Frederick Albert Cook, medico avventuroso

Il dottor Cook era cresciuto nelle campagne dello stato di New York a contatto con la natura, tanto che lui e i suoi fratelli erano diventati famosi per la costruzione di particolarissime e più che robuste slitte da neve, avviando una fiorente ditta a gestione famigliare. Poco dopo il suo matrimonio, nel 1890, si vide portare via la figlia, vissuta poche ore e la moglie Libby, pochi giorni dopo aver avuto l’abilitazione alla medicina. Provò con tutto sé stesso a dedicarsi alla professione medica trasferendosi a Brooklyn ed avviando uno studio privato, ma era sempre colto da un profondo dolore per la sua perdita. Lo studio non andava bene e le finanze iniziavano a scarseggiare.

Frederick Albert Cook (1865 – 1940) 

Circa un anno dopo la tragedia il dottor Cook lesse quel fatidico annuncio e si presentò a casa Peary per candidarsi a medico della spedizione. Qui nacque un’amicizia e un rispetto reciproco che durarono diversi anni.

In quella prima spedizione infruttuosa il dottore si guadagnò la fiducia dei nativi e del tenente Peary imparando la lingua e gli usi del posto e curando la gamba fratturata dell’ingegnere.

Le strade artiche dei due esploratori però si dividono qui. Non viaggeranno più assieme alla ricerca del Polo.

I rapporti tra i due iniziano a peggiorare un poco quando il dottore venne impossibilitato a pubblicare i suoi studi etnologici sugli inuit dal capo spedizione Peary che in precedenza gli aveva fatto sottoscrivere un contratto secondo cui nessun membro della spedizione avrebbe potuto pubblicare alcunché prima di un anno dopo che egli stesso avesse dato alla stampa un suo libro in merito. Libro che non uscì mai.

Il dottore pubblicò ugualmente e si rifiutò di partecipare alle spedizioni successive di Peary rimanendo comunque in rapporti più che rispettosi tanto da andarlo a salutare al molo alla partenza della spedizione successiva. Cook partì subito dopo grazie all’intervento di alcuni novelli turisti artici disposti a pagare somme considerevoli per andare a caccia all’estremo nord o inventarsi esploratori.

Rimase comunque così legato al suo primo capo spedizione che nel 1899, quando Peary venne dato per disperso, comandò la spedizione di ricerca assieme alla moglie di questi.

Dopo averlo trovato e curato dalla piorrea, l’anemia e una sbagliata amputazione di qualche dito (queste menomazioni torturano Peary per il resto della sua vita non permettendogli più di marciare sul ghiaccio e costringendolo a viaggiare spesso in slitta) ritornarono in patria assieme, acclamati entrambi come eroi.

Il primo, Peary, continuerà per anni a tentare l’arrivo al Polo Nord senza riuscire nell’impresa, forse perché non si è mai adattato del tutto alle abitudini degli inuit trattandoli sempre come una “razza inferiore” da sfruttare a suo vantaggio, forse solo per le condizioni climatiche che più volte gli misero davanti dei canali di acqua libera che non riusciva ad attraversare per proseguire verso Nord, forse per le sue menomazioni fisiche.

Il secondo prenderà di nuovo moglie, continuerà la professione medica intervallandola per anni con le esplorazioni.

Cook e Amundsen

Si spingerà prima verso l’Antartide diventando il primo uomo ad aver visitato entrambe le regioni polari, conoscendo laggiù un giovane Amundsen con cui rimarrà legato sino alla morte, e poi, non potendo per questioni finanziarie tornare a Nord, scalando per primo la vetta più alta degli Stati Uniti: il monte McKinley, arrivando in vetta il 16 settembre 1906, dopo un precedente tentativo fallito.

La spedizione verso il Polo

Così si arriva a marzo del 1907 quando John R. Bradley, proprietario di una delle case da gioco più esclusive del mondo e grande amante della caccia grossa, propose al nostro dottore di guidare una spedizione da lui finanziata nelle regioni artiche in modo che potesse dare la caccia a orsi polari e trichechi. Cook era disposto ad accettare solo a patto che una volta giunti in Groenlandia, se avesse trovato le condizioni per una marcia verso il Polo, avrebbe proseguito su quella strada in gran segreto.

L’accordo fu presto sancito e la spedizione venne organizzata.

Nello stesso periodo Peary era più che impegnato con il suo Peary Artic Club a cercare qualcuno che finanziasse la sua nuova spedizione. I suoi ripetuti fallimenti non l’avevano certo messo di buon occhio a chi più volte aveva sborsato somme ingenti per le sue spedizioni.

Nel giugno del 1907 i nostri due protagonisti pranzarono assieme all’Holland House di Manhattan scambiandosi l’un l’altro impressioni e congratulazioni per i traguardi rispettivamente raggiunti e augurandosi il buon esito di entrambe le spedizioni. Ebbene sì, anche Peary, che aveva finalmente trovato i fondi, sarebbe partito da lì a poco per l’ultimo tentativo di giungere al Polo.

Cook in questa occasione non accennò affatto alla sua intenzione di raggiungere per primo il Grande Nord. Forse conosceva abbastanza bene l’ingegnere da sapere che non avrebbe affatto preso bene la faccenda.

Quando finalmente il dottore arrivò in Groenlandia la notizia che volesse tentare la marcia verso il Polo era sulla bocca di ogni membro dell’equipaggio che entusiasta si offrì per intero di partecipare alla lunga marcia. Egli scelse un giovane tedesco: Rudolph Franke, che a suo dire era il miglior candidato per quell’impresa.

Rudolph Franke (1866-1942)

Il dottore era profondamente convinto che meno fossero i partecipanti alla missione più probabilità di successo questa avrebbe avuto. Un’idea del tutto avversa a quella di Peary e degli altri esploratori che preferivano grandi gruppi di marcia che si dividevano via via per allestire vari campi in cui l’esploratore principale sarebbe dovuto passare per giungere alla meta.

Bradley li aiutò ad approntare i primi rifugi per le provviste e poi si dedicò alla caccia grossa, suo obbiettivo principale.

Tre mesi dopo Bradley tornò in America portando con sé i trofei di caccia e una lettera di Cook per il Peary Artic Club:

Ho trovato una nuova strada per il Polo Nord, e mi tratterrò per fare un tentativo. Il tragitto, che mi sembra molto promettente, passa dalla baia di Buchanan e dall’isola di Ellesmere, e prosegue verso nord attraverso lo stretto di Nansen e il Mar Glaciale Artico. Avremo selvaggina approssimativamente fino a una latitudine di 82°, e potremo contare sull’appoggio dei nativi e dei cani da slitta. Ci siamo, finalmente… Cordiali saluti. Frederick Cook.

Per fortuna che Peary stesso, quando giunse la lettera, era già partito. Ma andiamo per ordine.

Cook e il tedesco approntarono rifugi di fortuna, depositi di provviste lungo la strada che avrebbero percorso, contrattarono con gli inuit per avere pellicce, vestiti, cani e i loro migliori cacciatori per accompagnarli nel viaggio.

Durante quell’inverno artico si misero a costruire le slitte secondo i piani di costruzione del dottore stesso. Esse erano più grandi, leggere e pratiche delle slitte tipiche degli inuit e degli altri esploratori ed in più avevano i pattini rinforzati con delle lamine di ferro, erano smontabili, con i pezzi progettati per svolgere più funzioni in modo da poter contare, se una si fosse rotta, su diversi pezzi di ricambio per le altre.

Poi, seguendo il consiglio di Nensen, altro famosissimo esploratore polare, costruirono un kajak smontabile grande abbastanza da portare due persone, cani e slitte così che se mai avessero incontrato dei canali di acqua libera nella marcia di andata o di ritorno avrebbero potuto attraversarli.

Ben bardati negli abiti indigeni con tutte le provviste e gli strumenti del caso il 19 febbraio 1908, alle undici del mattino, quando il sole tornò a sorgere dopo l’inverno artico, partirono alla via del Polo Nord. Oltre a Franke e Cook solo nove inuit facevano parte della spedizione finale.

Giunti a Capo Svartevoeg, a 82° di latitudine Nord, Cook decise di ridurre ancor di più chi avrebbe proseguito la marcia.

Scelse per accompagnarlo Etukishook e Ahwelah, due cacciatori inuit ventenni che aveva avuto modo di conoscere durante la prima parte del viaggio. Portarono solo due slitte trainate dai 26 cani fra i più forti, caricate con il kajak e cibo sufficiente per ottanta giorni.

Etukishook e Ahwelah, i cacciatori inuit.

Venticinque giorni dopo, percorsi 576 chilometri dalla terraferma all’impensabile media di 24 chilometri al giorno, avevano consumato meno della metà delle provviste. Anche perché via via che il peso delle slitte diminuiva il numero dei cani deputati al loro traino diminuiva di conseguenza. Quelli più deboli venivano sacrificati e dati in pasto ai rimanenti. Cruento, forse; necessario, sicuramente.

Il 13 aprile Etukishook e Ahwelah si rifiutarono improvvisamente di proseguire. Le leggende, le tradizioni religiose e la mancanza di selvaggina li frenavano alquanto. Ci volle tutta l’opera di convincimento di Cook per farli desistere dal tornare indietro.

Al Polo Nord mancavano solo 183 chilometri.

Il 21 aprile 1908, dopo diverse misurazioni, il dottore dichiarò che erano giunti al punto raggiungibile più vicino al “Grande Chiodo”, come gli inuit chiamano il Polo Nord.

Lì costruirono un igloo e soggiornarono un paio di giorni per permettere a Cook di fare altre misurazioni, infine ripresero la via per raggiungere il resto del gruppo lasciato indietro.

Il Polo Nord era stato conquistato!

Ma perché allora sul libro di geografia non c’è il nome di Frederick Cook?

Continua…


Puoi trovare gli altri articoli di Carlo qui!

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