[STORIA] Campaldino, la battaglia di Dante

Illustrazione in copertina: Duello tra cavalieri, affresco dal palazzo comunale di San Gimignano attribuito ad Azzo di Masetto, circa 1290.

Campaldino è una battaglia di straordinaria importanza per tanti motivi. Il primo è la ricchezza di fonti documentarie dirette, che ci permettono di ricostruirla con buona precisione; la seconda è la partecipazione, come “feditore” (cavaliere) delle forze guelfe fiorentine, di Dante Alighieri; la terza è che essa segnò la definitiva affermazione dei guelfi a Firenze, seppur con un pesante strascico di rivolgimenti politici.

Nella bibliografia in fondo trovate le fonti utilizzate, essenzialmente cinque, di cui tre indirette e due dirette: Le grandi battaglie del medioevo di Andrea Frediani; 1289. La battaglia di Campaldino di Alessandro Barbero, Campaldino 1289. The battle that made Dante di Kelly Devries e Niccolò Capponi illustrato da Graham Turner (spero che le citazioni in inglese non costituiscano un problema, altrimenti sarò lieto di tradurle). Come fonti indirette le due preziosissime cronache dell’epoca: la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi di Dino Compagni (che fu Priore di Firenze in quei mesi) e la Nuova Cronica di Giovanni Villani. Ho trovato qualche lieve discordanza tra le fonti moderne su particolari minori relativi allo schieramento della battaglia.

L’ITALIA DI GUELFI E GHIBELLINI

Qual era la situazione d’Italia in quello scorcio di XIII secolo? Da un punto di vista politico e militare l’Italia, divisa come sempre in tanti stati e dominii, viveva ancora le conseguenze della fine della dinastia Sveva e dell’apparizione di Angioini e Aragonesi; a questa si aggiungeva la tradizionale divisione in Guelfi e Ghibellini, due fazioni ormai internazionali che, seppur debolmente, facevano capo al Papa e all’Imperatore. Così Frediani ben sintetizza:

Sul finire del XIII secolo si delineavano in Italia almeno cinque scacchieri principali, corrispondenti ad altrettante evoluzioni politiche, che si sarebbero mantenuti fino alla fine del Medioevo: il sud era spartito tra due monarchie feudali, l’una iberica e l’altra francese, mentre nel nord la tendenza generale era alla formazione di tirannie di carattere espansionistico, che sfociavano in signorie ereditarie. Il centro, era diviso tra gli stati pontifici, nei quali i comuni tendevano ad approfittare del blando giogo papale per condurre una politica indipendente, e la libera Toscana, caratterizzata da repubbliche popolari con una propensione all’aggregazione sotto la leadership di Firenze.

Campaldino_mappa città
I due schieramenti alla fine del XIII secolo. I ghibellini erano in minoranza ma non domi. Mappa presa dal volume della Osprey.

Da un punto di vista economico e sociale l’Italia (come anche il resto d’Europa, ma in misura minore) viveva un periodo di straordinaria crescita demografica e ricchezza di ogni ceto. Gli italiani di quasi ogni parte della penisola non erano mai stati così ricchi, forse neanche in epoca romana. A titolo di confronto, la battaglia di Legnano di circa un secolo prima (ne ho parlato qui) vide il grande Impero e l’intera Lega Lombarda schierare meno di diecimili uomini ciascuno; a Campaldino, entità più piccole riescono a schierare eserciti più grandi. All’opposizione tra Guelfi e Ghibellini si aggiunse quella sociale tra i “magnati” e il “popolo”. Così scrive Barbero:

All’opposizione fra guelfi e ghibellini se ne aggiunge un’altra che spacca orizzontalmente la società, quella fra i magnati e il popolo. Per molto tempo nei comuni italiani il gruppo egemonico era stato rappresentato da famiglie che senza essere né molto antiche né estranee agli affari avevano però adottato stili di vita simili a quelli dell’aristocrazia cavalleresca, investendo in armi e cavalli, residenze turrite e possedimenti rurali. Solo nel Duecento gli effetti d’una crescita economica che durava ormai da secoli avevano raggiunto un tale effetto d’accumulo che anche gruppi sociali estranei a queste ambizioni nobiliari, completamente assorbiti nell’orizzonte della manifattura e del commercio, aspiravano a una maggior partecipazione nella gestione degli affari cittadini.

Le città potevano avere “governo di popolo” o “governo di magnati”. Ogni cambiamento era accompagnato da violenze, esilii e confische che portavano ad un nuovo equilibrio spesso precario. Questa divisione si legava in modo inestricabile a quella già esistente tra Guelfi e Ghibellini.

EQUILIBRI PRECARI

Trovare una data da cui partire, proprio per le caratteristiche anzidette, è difficile. Corre in mio aiuto il buon riassunto all’inizio del volume della Osprey, che riesce ad inserire tutti gli aspetti della intricatissima politica italiana dell’epoca:

However, after the death of Emperor Frederick II in 1250 these clearcut distinctions [tra guelfi e ghibellini had become blurred, and a state’s adherence to one of the two factions was dictated as much by the ideology of its ruling group as by broader political motivations, with the two factors frequently conflicting. Thus, in 1260 Guelph Florence would fight Ghibelline Siena in the name of the imperial claimant Conradin of Swabia – and while under Papal interdict! The conquest of southern Italy by Charles of Anjou in 1266 produced a substantial reshuffling of Italian politics, with Guelphism now identified with Angevin rule. Florentine merchants and bankers, amongst others, hugely benefitted from the new settlement and Ghibellinism, to them, was not just an ideological opposite, but also potentially damaging economically. The rise of new champions of the Ghibelline cause in the early 1280s, such as the kings of Aragon and the Montefeltro family, caused increasing alarm in the Guelph states of central Italy and led down a road that would end on the field of Campaldino.

Gli anni ’70 e ’80 del XIII secolo sono segnati da altri importanti avvenimenti. Nel 1274 Rodolfo d’Asburgo diventa sacro romano imperatore e rianima la parte ghibellina.
Gli angioini, campioni del guelfismo dopo le precedenti vittorie e padroni del Sud Italia, sono contemporaneamente messi in crisi da diversi avvenimenti. Anzitutto, l’elezione di alcuni papi anti-angioini (potremmo dire papi anti-guelfi!) come Gregorio X e Niccolà III, che tentano una politica di riconciliazione tra le due fazioni. Questa ha i suoi maggiori effetti in Firenze, dove la classe guelfa dominante viene limitata, come ricorda Barbero:

A Firenze, dal 1282, c’era appunto un governo di popolo, nato col programma di contrastare la prepotenza dei magnati guelfi, che per molti anni erano stati i veri padroni della città. Il potere esecutivo era affidato a una giunta di sei priori, che cambiavano ogni due mesi ed erano eletti attraverso le arti, cioè le corporazioni di mestiere. Quanto fosse solido questo governo si può dedurre dal fatto che, come ci informa il Compagni, i priori stavano «rinchiusi nella torre della Castagna appresso alla Badia, acciò non temessono le minaccie de’ potenti», avevano il diritto di portare armi e una scorta di guardie del corpo. Ma gli equilibri di potere nella società cittadina erano talmente alterati dallo strapotere dei magnati che ben presto i priori, benché tratti dal popolo, cominciarono a tradire le aspettative. La violenza dei grandi continuò indisturbata, soprattutto quando nel priorato sedevano esponenti delle corporazioni più ricche, i cosiddetti popolani grassi, «imparentati con grandi». Per cui, scrive Dino, «i buoni cittadini popolani erano malcontenti, e biasimavano l’uficio de’ Priori, perché i guelfi grandi erano signori»

Il 1282 è un anno disastroso per gli Angioini. I Vespri Siciliani (1282) segnano la loro cacciata dalla Sicilia in favore degli Aragonesi. La sconfitta di Forlì ad opera di Guido di Montefeltro scuote il prestigio francese anche nel nord.

Campaldino_diorama castello poppi feditori
Diorama della battaglia conservato al museo del castello di Poppi. Quelli raffigurati sono i feditori fiorentini, fra cui militava Dante.

Gli equilibri toscani e tirrenici sono anch’essi scossi. Nel 1284 si forma una lega di città toscane (Firenze, Lucca, Genova e altre) che sconfigge Pisa, potenza ghibellina toscana per eccellenza, alla battaglia della Meloria. Pisa deve accettare un governo filoguelfo guidato dal famosissimo conte Ugolino della Gherardesca.

Finalmente, entra in gioco Arezzo, l’altra protagonista dello scontro di Campaldino. Come scrive Frediani:

Col tempo, il testimone del partito ghibellino fu raccolto da Arezzo, verso la quale andarono confluendo i fuoriusciti fiorentini e le famiglie feudali escluse dal governo guelfo, come i Pazzi, gli Ubaldini e soprattutto gli Umbertini; questi ultimi avevano, di fatto, la guida della città, grazie all’autorevolezza del vescovo Guglielmino, un personaggio che “sapeva molto meglio gli uffici della guerra che della Chiesa”, secondo il Villani.

Entra quindi in scena il vescovo Guglielmino degli Ubertini, che aveva guidate le armi ghibelline nella vittoria di Montaperti (1260). Così lo descrive Barbero:

Era uno di quei vescovi, un tempo molto comuni e che solo adesso cominciavano ad essere più rari, che avevano ottenuto il posto grazie alle proprie aderenze familiari e condividevano la cultura nobiliare e cavalleresca dei loro fratelli rimasti nel secolo: essere vescovo, per uomini come Guglielmino, significava governare un principato fatto di castelli e signorie, ed essere pronti a difenderlo con le armi. Va da sé che vescovi di questo genere non andavano sempre d’accordo con le istituzioni comunali della loro città, con cui anzi potevano anche trovarsi in urto.

Agli inizi del 1288, quindi Arezzo era diventata il centro dei fuoriusciti ghibellini della regione. Nel contempo i fiorentini erano preoccupati dalla vacanza delle sede papaple e dalle sconfitte angioine nel Sud. Un conflitto era inevitabile.

1288: I GHIBELLINI ALL’ATTACCO

Le guerre di questo scorcio di Medioevo erano caratterizzate da operazioni a bassa e media intensità, essenzialmente il saccheggio del territorio e delle proprietà nemiche. Gli assedi erano una faccenda lunga e costosa e le battaglie campali ancor più rare. Non stupisce quindi che, nel 1288, le operazioni siano state aperte dagli aretini in questo modo:

Arezzo era già pronta per il conflitto nel 1288 e, alla fine dell’inverno, 500 cavalieri e forze di fanteria devastarono sia il territorio fiorentino attaccando Montevarchi, sia quello senese, insediando un podestà ghibellino a Chiusi e incendiando Buonconvento.

Campaldino_cavalieri da affresco in san gimignano palazzo comunale

I fiorentini reagiscono:

La reazione della lega si fece attendere, e solo in maggio i guelfi allestirono un esercito di imponenti proporzioni – “la più grande e ricca oste che facessono i Fiorentini dappoich’e’ guelfi tornarono in Firenze” – 2600 cavalieri e 12.000 fanti al comando del podestà Antonio da Fusseraca di Lodi. Arezzo non fu in grado di opporsi alla marcia dell’armata avversaria, che in tre settimane conquistò un gran numero di castelli nel territorio aretino, prima di porre direttamente l’assedio alla città. I ghibellini sembravano spacciati, ma una tempesta distrusse il campo della lega, e l’esercito guelfo si disperse prima della fine di giugno.

Negli ultimi giorni del mese di giugno del 1288 i ghibellini ribaltano la situazione. Il 26 una piccola forza aretina (300 cavalieri e 2000 fanti), guidata da Bonconte di Montefeltro e Guglielmo de’ Pazzi coglie di sorpresa il contingente senese (circa 600 cavalieri e 3000 fanti), che nella ritirata si era separato dagli altri. I senesi perdono metà della cavalleria: è una disfatta.

La sconfitta di Siena ha effetti anche su Pisa, dove il 30 giugno l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini solleva il popolo, si autoproclama podestà e imprigiona il conte Ugolino e gli uomini del suo seguito: chi può pagare il riscatto viene liberato, chi no viene lasciato a morire di fame. Tutto ciò compare, come è noto, nel famosissimo canto XXXIII della Divina Commedia.

I Guelfi subiscono così l’apertura di un secondo fronte. I due eserciti si fronteggiano da una riva all’altra dell’Arno nei pressi di Laterina, a metà settembre. Nessuno dei due contendenti, però, si sente così sicuro da accettare battaglia e gli eserciti tornano in città per l’arrivo della stagione fredda.

1289

I PRODROMI DELLA BATTAGLIA

Il Vescovo d’Arezo, come savio uomo considerando quel che advenire gli potea della guerra, cercava patteggiarsi co’ Fiorentini.

Nell’inverno si registrano le manovre del vescovo d’Arezzo Umbertini, grande protagonista dell’epoca e poi della battaglia. Non bisogna stupirsi di un simile atto: ogni signore, foss’egli nobile o ecclesiastico, badava anzitutto ai propri possedimenti e alle proprie ricchezze, questo al di là dell’appartenenza cittadina. Bisogna inoltre considerare che data l’estrema fluidità della situazione all’epoca, preservare le ricchezze in un momento di difficoltà avrebbe permesso di tornare alla riscossa in seguito. Comunque, ancora da Frediani:

Tuttavia, nel corso dell’inverno si ebbero contatti informali tra Guglielmino degli Umbertini e alcuni esponenti guelfi fiorentini con cui il vescovo aveva buoni rapporti; ne scaturì un trattato segreto sottoscritto nel febbraio 1289, in base al quale il prelato cedeva a Firenze, in cambio di soldi, tanti soldi, Bibbiena e altre roccheforti in territorio aretino. Gli accordi non furono resi noti, se non quando fu chiaro che la guerra sarebbe scoppiata comunque.

Il vescovo alla fine ci ripensò e decise di confessare il proprio tentativo di tradimento; invitò gli aretini a cedere alle richieste di Firenze ed evitare la guerra. Fu salvato dal linciaggio solo dall’intervento di un suo parente, Guglielmino de’ Pazzi.

Militarmente, l’anno si apre con i ghibellini ancora all’attacco. All’inizio di marzo, il conte Guido Novello Guidi, podestà di Arezzo, saccheggia e brucia le cittadine di Isola e Buonconvento nel territorio di Siena; con una forza di 400 cavalieri e 3000 fanti il conte prosegue, entra in territorio fiorentino e fa lo stesso a San Donato in Collina, a soli 12 km da Firenze; le fiamme sono chiaramente visibili da ogni parte della città. Come si vede, l’obiettivo di una guerra nel Medioevo è anche politico: mettere pressione all’avversario, fiaccarne lo spirito e portare gli indecisi dalla propria parte.

A metà marzo, Guido di Montefeltro arriva a Pisa, che era insorta contro i guelfi; ne riorganizza la milizia e lancia anch’egli incursioni contro il territorio fiorentino. La minaccia per Firenze è che le due città ghibelline, Arezzo e Pisa, uniscano le proprie forze.

Firenze è paralizzata dall’assenza di comandanti di valore. La mancanza di fiducia dei guelfi nelle proprie capacità militari è un punto importante, perchè giocherà un ruolo anche a Campaldino. Un colpo di fortuna aiuta i guelfi: Carlo II d’Angiò, re di Napoli, viene liberato dalla prigionia aragonese dietro riscatto. Sulla via per il sud Italia, passa per Firenze ai primi di maggio. Gli aretini vorrebbero fare una preda importante e tendergli un’imboscata, che però i fiorentini eludono fornendo una nutrita scorta al re.

Carlo d’Angiò decide quindi di designare un comandante per le forze guelfe. Sceglie il giovane Amauri (o Aimerico o Amerigo) di Narbona, che nomina cavaliere per l’occasione; assieme a lui lascia un seguito di 100 cavaliere e, soprattutto, l’esperto e anziano Guglielmo di Durfort, forse il vero comandante guelfo a Campaldino.

Campaldino_tomba guglielmo
Particolare dalla tomba di Guglielmo di Durfort, morto in battaglia, erettogli dalla città di Firenze. Da notare la ricchezza delle decorazioni sull’armatura.

L’INIZIO DELLA CAMPAGNA

Partito il re, la fazione dei magnati fiorentini si decide per la guerra. Ad essa si contrappone quella dei popolani, meno interessata alla guerra e ancora disposta ad un accordo per evitarla. Il 13 maggio, comunque, nel corso di una solenne cerimonia, l’esercito fiorentino riceve gli stendardi di guerra, che vengono benedetti assieme all’armata e tutti sono posti sotto la protezione di Dio e di Giovanni Battista.

Radunato l’esercito, in attesa degli alleati delle altre città, si tiene un importante consiglio di guerra nel Battistero di Firenze. Bisogna decidere il percorso di marcia verso Arezzo. Le vie sono due: lungo la vallata del fiume Arno o lungo la pianura del Casentino, a nord del fiume. Così scrive Frediani:

Lo stato maggiore si riunì a San Giovanni e, dopo estenuanti discussioni, deliberò di procedere per il Casentino; si trattava, in verità, di uno scacchiere di marcia più difficoltoso, ma era pervicacemente sostenuto dai fuoriusciti aretini con possedimenti in quella zona, che si auguravano di veder protetti dalla presenza guelfa; inoltre, il territorio prescelto era oggetto, con Bibbiena, della trattativa mancata con il vescovo aretino, e quindi rappresentava il settore del quale, più di ogni altro, i fiorentini desideravano assumere il controllo strategico. Infine, era territorio dei Guidi, con i quali senesi e fiorentini avevano molti conti in sospeso.

I guelfi sperano anche di cogliere di sorpresa l’esercito ghibellino, che infatti è attestato sull’altra via, lungo l’Arno. Per assicurare l’inganno, i fiorentini espongono le insegne di guerra lungo la Valdarno, come scrive Villani:

la ‘nsegna reale ebbe messer Gherardo Ventraia de’ Tornaquinci, e incontanente che furono date le portarono alla badia a Ripole, com’era usato, e là le lasciarono con guardia, faccendo vista d’andare per quella via sopra la città d’Arezzo

L’esercito parte il 2 di giugno da Firenze per la via del Casentino. Come dice Compagni, la via era disagevole e le forze ghibelline, se presenti, avrebbero potuto tendere un’imboscata:

Mossono le insegne al giorno ordinato i Fiorentini, per andare in terra di nimici: e passarono per Casentino per male vie; ove, se avessono trovati i nimici, arebbono ricevuto assai danno: ma non volle Dio.

L’esercito raggiunge Monte al Pruno, dove si attesta e si fortifica per attendere i rinforzi delle altre città. Ancora Villani enumera con precisione i vari contingenti:

là si trovarono da 1600 cavalieri e da 10000 pedoni, de’ quali v’ebbe 600 cittadini con cavallate, i meglio armati e montati ch’uscissono anche di Firenze, e 400 soldati
colla gente del capitano messer Amerigo al soldo de’ Fiorentini; e di Lucca v’ebbe 150 cavalieri, e di Pistoia 110 cavalieri e pedoni, di Prato 40 cavalieri e pedoni, e di Siena 120 cavalieri, e di Volterra 40 cavalieri, e di Bologna loro ambasciadori co·lloro compagnia, e di Samminiato, e di San Gimignano, e di Colle, di ciascuna terra v’ebbe gente a cavallo e a piè; e Maghinardo da Susinana buono capitano e savio di guerra con suoi Romagnuoli

I guelfi, circa 10mila fanti e 1900 cavalieri, si fermano là. Non hanno alcun interesse a proseguire per Arezzo, solidamente difesa dalle sue mura. Molto più redditizio e utile dal punto di vista strategico devastare le proprietà degli avversari.

The metal marzocco – the lion rampant or sejant, symbol of the city of Florence – was placed on top of the Guelph headquarters’ pavilion at Monte al Pruno and could be seen from miles away. Resplendent in the June light,
it was a harbinger of doom for the entire Casentino, as the Florentines and
their allies laid waste the count of Poppi and Bishop Ubertini’s lands.

marzocco
Copia del Marzocco di Donatello in piazza della Signoria. Il leone era il simbolo del potere popolare.

Attorno al 7 o 8 giugno, infatti, i ghibellini (8000 fanti e 800 cavalieri) sono ancora sul Valdarno e si rendono conto dell’inganno quando vedono i profughi scacciati dalle loro case dall’incursione fiorentina. Il vescovo Umbertini e il conte Guidi rapidamente percorrono circa 50 km in due giorni. La marcia guelfa, infatti, tocca molti dei loro possedimenti.I ghibellini arrivano così nel primo pomeriggio del 10 giugno a Poppi e dispongono l’armata di fronte ad uno dei castelli del conte Guidi, sulla piana conosciuta come Campaldino, poco a nord di Bibbiena. Anche i guelfi si sono mossi, ma più lentamente e hanno raggiunto Borgo alla Collina, davanti Poppi, dall’altro lato della piana di Campaldino.

I due eserciti sono finalmente contrapposti. Come al solito, non è detto che ci sia battaglia: anche l’anno precedente gli eserciti si erano fronteggiati e poi ritirati.

PRELUDIO ALLA BATTAGLIA

La sera del 10 giugno gli eserciti guelfo e ghibellino sono accampati alle due estremità della piana di Campaldino. Il campo di battaglia è ben delimitato: da un lato il fiume Arno, dall’altro le colline e la strada sopraelevata.

I ghibellini godono di una forte posizione difensiva. Proprio per questo, e consapevoli della inferiorità numerica (la cavalleria avversaria è il doppio) dopo una ricognizione, l’esperto Bonconte di Montefeltro suggerisce la ritirata. Così Frediani:

Il vescovo Guglielmino preferì inviare Buonconte da Montefeltro in avanscoperta per verificare l’entità delle forze nemiche. Questi tornò scoraggiato, suggerendo una ritirata strategica, sollevando però le ire del prelato, che lo definì indegno della stirpe cui apparteneva. “Se anche riuscirete a seguirmi dove arriverò, non uscirete vivo”, avrebbe risposto Buonconte indignato, secondo Benvenuto da Imola, manifestando l’intenzione di buttarsi a capofitto contro il nemico per fugare ogni dubbio sul suo coraggio.

Il motivo di tanta sicumera è data dalla scarsa reputazione dei guelfi e dei fiorentini come soldati (ricordiamo che il vescovo aveva guidato i ghibellini alla battaglia di Montaperti). Come riporta Villani:

non temendo perché i Fiorentini fossono due cotanti cavalieri di loro, ma dispregiandogli, dicendo che essi lisciavano come donne, e pettinavano le zazzere, e gli aveano a schifo e per niente.

Le battaglie medievali non erano soltanto un affare violento, come la cinematografia moderna potrebbe suggerire. Prima dell’introduzione delle armi da fuoco, c’era tutto il tempo di avvicinarsi, osservare il nemico, inviare delegazioni e fare discorsi. Prima di Campaldino, quindi, i comandanti dei due eserciti comunicano l’un l’altro di accettare la proposta di battaglia per l’indomani. La battaglia ha quindi luogo perchè entrambi i contendenti sono convinti di poter vincere: i ghibellini per l’alta opinione che avevano di sè e dei propri uomini; i guelfi perchè erano in superiorità numerica.

L’11 giugno fu un giorno caldo e soleggiato. La battaglia iniziò assai presto, verso le 8 o le 9 del mattino, quando gli schieramenti furono completi. Esaminiamoli assieme ai piani di battaglia delle due parti.

LA BATTAGLIA

1. PIANI E SCHIERAMENTI

Come riporta Compagni, i guelfi erano per un atteggiamento difensivo:

Messer Barone de’ Mangiadori da San Miniato, franco et esperto cavaliere in fatti d’arme, raunati gli uomini d’arme, disse loro: “Signori, le guerre di Toscana si soglìano vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, ché non era in uso l’ucciderli. Ora è mutato modo, e vinconsi per stare bene fermi. Il perché io vi consiglio, che voi stiate forti, e lasciateli assalire”. E così disposono di fare.

I guelfi dispongono il proprio scheiramenti su tre file. Nella prima i famosi “feditori”. Erano 150 cavalieri scelti da Vieri de’ Cerchi, circa 25 volontari per ogni sestiere. Come ennesima prova dell’alta considerazione dei soldati ghibellini (o della scarsa considerazione di quelli guelfi) non fu facile trovare 150 volontari, tanto che Vieri fu costretto a proporre sè stesso, il figlio e un nipote per incoraggiare gli altri a proporsi. Dante Alighieri era fra questi cavalieri.

Campaldino 1 bis
Rozzo schema degli schieramenti degli eserciti guelfo (rosso) e ghibellino (blu). Le frecce indicano i movimenti della prima fase dello scontro: la carica della cavalleria ghibellina e l’arretramento delle prime due linee guelfe. Il campo di battaglia è delimitato dal fiume Arno in basso e dalle colline in alto.

La seconda fila era costituita dal grosso della cavalleria (circa un migliaio) con la fanteria su entrambi i lati. La terza fila comprendeva la restante fanteria, almeno 7-8mila uomini. Infine, al comando dell’impetuoso Corso Donati, era stata prevista una riserva di 150-200 cavalieri, nascosta sul fianco sinistro dell’armata guelfa.
In sostanza, lo schieramento guelfo si può riassumere come la cavalleria al centro e la fanteria sulle ali. L’imponenza dell’esercito guelfo è dimostrata dal seguente aneddoto (riportato da Compagni):

I capitani della guerra misono i feditori alla fronte della schiera; e i palvesi, col campo bianco e giglio vermiglio, furono attelati dinanzi. Allora il Vescovo, che avea corta vista, domandò: “Quelle, che mura sono?”. Fugli risposto: “I palvesi de’ nimici”.

Lo schieramento ghibellino non è molto diverso, a parte una vistosa eccezione che, di nuovo, testimonia l’alta considerazione che i ghibellini avevano di se stessi sia come guerrieri che come condottieri. La primissima linea era infatti costituita da 12 cavalieri, detti i paladini, guidati personalmente da Bonconte di Montefeltro. La seconda e la terza avevano rispettivamente 300 e 350 cavalieri; la quarta, guidata dal vescovo, tutta la fanteria. Come i guelfi, anche i ghibellini distaccarono una piccola forza di 150 cavalieri, agli ordini del conte Guidi, per un eventuale attacco sul fianco. Ogni schieramento, tranne i primi due che erano più vicini, era separato da circa un centinaio di metri.

Quale piano è sotteso ad uno schieramento del genere? L’obiettivo dei ghibellini è sconfiggere la superiore cavalleria nemica separandola dalla fanteria e, dopo, sconfiggere anche quest’ultima. I 12 cavalieri hanno proprio questo scopo: quello di attirare la cavalleria guelfa della prima e della seconda linea lontano dalla fanteria. Come vedremo, questo piano semplice e brillante fallirà, paradossalmente, per l’eccessiva debolezza dei guelfi e per l’indisciplina dei ghibellini.

2. LA CARICA DEI PALADINI

E’ difficile per noi moderni, circondati da comodità e non abituati alle durezze della vita, concepire l’effetto della carica di questi dodici cavalieri contro una schiera superiore almeno dieci volte. Da un lato, l’incredulità deve essersi mischiata allo stupore e forse all’immaginazione. Il numero 12 è altamente simbolico: gli apostoli di Gesù e i paladini di Francia erano proprio 12. Consideriamo inoltre il poco spazio (meno di duecento metri) che separava le avanguardie. La carica è una faccenda breve, una manciata di secondi. Non c’è il tempo materiale, per chi la subisce, di valutare razionalmente cosa sta accadendo.

Campaldino_carica paladini
La carica dei Paladini, illustrazione di Graham Turner.

Tutto questo porta alla reazione della prima linea guelfa, quella dei feditori fiorentini, che è presa dallo spavento. Un cavaliere, da fermo, vale molto meno di un cavaliere lanciato alla carica. I guelfi inaspettatamente arretrano, come racconta Villani:

E dato il nome ciascuna parte alla sua oste, i Fiorentini: “Nerbona cavaliere”, e gli Aretini: “San Donato cavaliere”, i feditori degli Aretini si mossono con grande baldanza a sproni battuti a fedire sopra l’oste de’ Fiorentini, e l’altra loro schiera conseguente appresso…E la mossa e assalire che feciono gli Aretini sopra i Fiorentini fu, stimandosi come valente gente d’arme, che per loro buona pugna di rompere alla prima affrontata i Fiorentini e mettergli in volta; e fu sì forte la percossa, che i più de’ feditori de’ Fiorentini furono scavallati,

Questo fatto non era stato previsto dal piano di battaglia ghibellino. E’ il punto di svolta della battaglia.

3. LA SVOLTA

Seeing this, the Ghibelline second rank charged forward into the fray, wanting to take advantage of what the paladins had initiated. The third rank followed quickly on their heels. Experienced should mean disciplined. But in military history it often does not. In these instances, those who should be disciplined are instead proud, and pride overwhelms wisdom, and instinct takes over. A lack of wisdom in military conflict does not always lead to defeat, but it almost always leads to ill-chosen decisions, which at the very least can turn carefully formed plans into chaotic and desperate situations.
So it was with the Ghibellines at Campaldino.

L’attacco dei ghibellini penetra in profondità nelle schiere della cavalleria guelfa, colta di sorpresa con molti uomini ancora non in sella. Tuttavia, non appena interviene il grosso della fanteria, i guelfi resistono, come racconta Villani:

La schiera grossa rinculò buon pezzo del campo, ma però non si smagarono né ruppono, ma costanti e forti ricevettono i nemici; e coll’ale ordinate da ciascuna parte de’ pedoni rinchiusono tra lloro i nemici, combattendo aspramente buona pezza.

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Diorama della battaglia conservato alla casa di Dante. Da notare il “muro di pavesi” della fanteria fiorentina, che il vescovo Ubertini, miope, scambiò per le mura di una città.

La presenza della fanteria, saldamente attestata dietro il grande muro dei pavesi, fornisce solidità allo schieramento guelfo. I ghibellini si spingono troppo avanti. Da accerchiatori divengono accerchiati!

Campaldino 2 bis
Le forze ghibelline sono penetrate troppo in profondità ed iniziano ad essere accerchiate da quelle guelfe, che si sono attestate più indietro, facendo resistenza sulla terza schiera. La fanteria ghibellina è inizialmente troppo lontana per impedirlo. Da notare il piccolo reparto di cavalleria di Corso Donati che si aggiunge alla mischia.

E’ un momento decisivo. Corso Donati, vedendo l’occasione e pur non avendo ricevuti ordini, guida i suoi cavalieri alla carica del fianco destro scoperto degli aretini, come racconta Villani (anche se secondo Frediani il ruolo di Donati è meno incisivo):

E messer Corso Donati, ch’era di parte co’ Lucchesi e Pistolesi, e avea comandamento di stare fermo, e non fedire, sotto pena della testa, quando vide cominciata la battaglia, disse come valente uomo: “Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co’ miei cittadini; e se noi vinciamo, chi vuole vegna a noi a Pistoia per la condannagione”; e francamente mosse sua schiera, e fedì i nemici per costa, e fu grande cagione della loro rotta.

4. LA DISFATTA

La situazione è grave per gli aretini. Il combattimento avviene nei pressi dello schieramento guelfo, vicino al loro muro di pavesi, e la fanteria ghibellina è lontana. Il conte Guidi, che dall’alto vede tutto il campo di battaglia, capisce che essa è perduta e si ritira senza combattere.

Non così il vescovo, che con il comportamento sul campo riscatta le ambigue trattative dell’inverno. La fanteria aretina si getta nella mischia e, non disponendo di pavesi e picche, adotta una tattica ritenuta sleale all’epoca. Come dice Compagni:

Le quadrella pioveano, gli Aretini n’aveano poche, et erano fediti per costa, onde erano scoperti: l’aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima. I pedoni degli Aretini si metteano carpone sotto i ventri de’ cavalli con le coltella in mano, e sbudellavalli: e de’ loro feditori trascorsono tanto, che nel mezo della schiera furono morti molti di ciascuna parte. Molti quel dì, che erano stimati di grande prodeza, furono vili; e molti, di cui non si parlava, furono stimati.

L’intervento della fanteria aretina ha però l’effetto di impedire la ritirata dei cavalieri ghibellini. In breve, è la disfatta. I nostri cronisti (che ricordo sono entrambi fiorentini) sono però concordi nel riconoscere il valore del nemico e nel non nascondere la crudeltà del successivo inseguimento:

Furono rotti gli Aretini, non per viltà né per poca prodeza, ma per lo soperchio de’ nimici. Furono messi in caccia, uccidendoli: i soldati fiorentini, che erano usi alle sconfitte, gli amazavano; i villani non aveano piatà.

Campaldino 3 bis
La disfatta. La fanteria ghibellina, guidata dal vescovo, si aggiunge alla mischia senza possibilità di ribaltare le sorti. 

La presenza di molti castelli e rifugi nella zona non valse a salvare il grosso dell’armata ghibellina. Così Frediani sintetizza le perdite:

Il Villani fornisce le cifre della sconfitta dei ghibellini, che lasciarono sul campo 1700 caduti e 2000 soldati prigionieri dei vincitori, mentre tra i guelfi furono forse un migliaio i morti e feriti; l’unico personaggio di rilievo a cadere, trafitto da una freccia, fu il vecchio Guglielmo de Durfort, forse proprio colui che aveva ideato la brillante tattica che aveva condotto alla vittoria i guelfi.
La disfatta aretina fu accentuata dalla morte, tra gli altri, di grossi calibri come lo stesso vescovo Guglielmino e Buonconte da Montefeltro (che nel “Purgatorio” Dante definisce “forato ne la gola”), oltre a tutti gli Uberti impegnati nello scontro e a Guglielmo il Pazzo.

Campaldino_morte vescovo
La morte del vescovo di Arezzo, riconoscibile dalla mitra episcopale portata sopra l’elmo. Illustrazione di Graham Turner.

LE CONSEGUENZE

La battaglia non fu affatto decisiva per le sorti della guerra. I guelfi, anch’essi stanchi, si misero in marcia soltanto otto giorni dopo la battaglia, perdendo l’occasione di conquistare la città nemica. Come dice Compagni:

Non corsono ad Arezo con la vittoria; ché si sperava, con poca fatica l’arebon avuta.
Al capitano e a’ giovani cavalieri, che aveano bisogno di riposo, parve avere assai fatto di vincere, sanza perseguitarli. Più insegne ebbono di loro nimici, e molti prigioni, e molti n’uccisono; che ne fu danno per tutta la Toscana.

L’assedio di Arezzo si trascinò stancamente per qualche settimana. Così scrive Barbero:

Nonostante tutti questi disastri, invece, gli aretini rifiutavano di arrendersi. L’esercito fiorentino andò ad accamparsi presso Arezzo, devastando i dintorni, organizzando giostre e tornei; il giorno di San Giovanni, protettore di Firenze, corsero il palio sotto le mura, e con le catapulte gettarono in città degli asini con la mitria in capo, in spregio del vescovo defunto… L’assedio di Arezzo suscitava tali aspettative che perfino due dei priori, membri del governo di popolo, e dunque uomini d’affari più che di guerra, raggiunsero il campo. Ma nonostante i ripetuti assalti la città non cadeva, e la notte dopo San Giovanni una sortita degli aretini diede fuoco alle torri d’assedio edificate presso le mura. Allora si cominciò a fare i conti di quel che la faccenda stava costando, e fra le polemiche si decise di levare l’assedio.

In definitiva, Campaldino sancì la supremazia di Firenze nel campo guelfo, ma non annientò quello ghibellino. Pisa rimase in armi e così Arezzo. L’unico effetto concreto fu la nomina di un vescovo non ghibellino ad Arezzo: i possedimenti della Chiesa locale non furono più a disposizione dei ghibellini.

Paradossalmente, la battaglia ebbe maggiori influenza a Firenze. I popolani, infatti, si spaventarono che i magnati, dopo la vittoria, crescessero in potere e influenza. Ancora Barbero:

Rientrato l’esercito, «i popolani ebbero sospetto de’ grandi», temendo che la loro prepotenza si accrescesse per l’orgoglio della vittoria; per difendersi, il popolo si organizzò in compagnie armate, e appena tre anni dopo varò gli Ordinamenti di Giustizia, che escludevano dagli uffici del comune tutti i membri delle famiglie magnatizie, comminando sanzioni durissime per i delitti compiuti dai nobili contro i popolani. Il risultato fu che i grandi cominciarono a congiurare, progettando di abbattere il governo e sterminare «i cani del popolo»; finché non si giunse alle aggressioni aperte, come quando i consoli delle arti che si recavano in cattedrale la vigilia di San Giovanni vennero assaliti e bastonati da certi grandi, «dicendo loro: ‘Noi siamo quelli che demo la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi degli ufici e onori della nostra città’». Sotto il segno di quella che era passata per una grande vittoria si consumava così il logoramento del regime di popolo, e si preparava l’involuzione del sistema comunale fiorentino.

E Frediani:

Si accentuarono i contrasti tra magnati e popolani, poi si passò alle lotte tra i Cerchi e i Donati, per finire con la guerra civile tra guelfi bianchi e guelfi neri, ereditata da Pistoia e culminata nel 1300 con una serie raccapricciante di eccidi, cui fecero seguito condanne ed espulsioni dei bianchi, tra i quali lo stesso Dante.

DANTE E LA GUERRA

Campaldino ebbe l’effetto maggiore, senza dubbio quello più duraturo nella storia, sul giovane feditore fiorentino Dante Alighieri. L’esperienza militare segnò in modo importante l’immaginario di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. Dante apparteneva alla piccola nobiltà decaduta; nella sua insistenza nell’arruolarsi nella prestigiosa cavalleria e nel voler far parte dei feditori possiamo leggere orgoglio civico e voglia di mettersi in mostra. L’umanista Leonardo Bruni, più di un secolo dopo, affermerà di aver visto una lettera dello stesso Dante in cui il poeta ammetterà di non essersi nè coperto di gloria nè di disonore ma di aver provato:

“temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia” 

Vi sono molti riferimenti indiretti alla battaglia nella Divina Commedia, un’opera ricca di particolari presi dalla vita militare. Anche la ricchezza di dettagli sanguinolenti e violenti può aver trovato origine e riferimento visivo nella esperienza bellica del nostro poeta.

L’episodio più famoso è nel V canto del Purgatorio, dove Dante fa intervenire direttamente uno dei protagonisti della battaglia: il valoroso comandante ghibellino Bonconte da Montefeltro, scomparso al termine della stessa e sul cui destino s’erano create molte leggende. Chiudo quindi l’articolo con lo splendido disegno di Gustavo Dorè che ricostruisce il racconto di Bonconte.

Campaldino_gustavo dore


BIBLIOGRAFIA

Croniche delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, di Dino Compagni, Liberliber.it.
Nuova Cronica, di Giovanni Villani, Liberliber.it.
Le grandi battaglie del
 Medioevo, di Andrea Frediani, Newton Compton, 2007.
Campaldino 1289. The battle that made Dante, di Kelly Devries e Niccolò Capponi e disegni di Graham Turner, Osprey Publishing, 2016.
1289. La battaglia di Campaldino, di Alessandro Barbero, Editori Laterza, 2012.


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6 pensieri su “[STORIA] Campaldino, la battaglia di Dante

  1. La parte che più mi ha colpito dell’articolo riguarda la ricchezza di guelfi e ghibellini di cui hai parlato. Hai detto che in generale sulla penisola italiana c’era una diffusione della ricchezza. Pensare che i guelfi e i ghibellini si scannassero per motivi effimeri mi fa riflettere.
    Se le signorie fossero state più intelligenti e si fossero unite perennemente, quindi non mi riferisco alle temporanee alleanze comunali, ci saremmo risparmiati tanti sconvolgimenti, dai Lanzichenecchi a Napoleone

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    1. Verissimo. Un metodo sicuro per confrontare la ricchezza è vedere la grandezza dell’esercito che si può mettere in campo e all’epoca città o leghe di città italiane competevano tranquillamente con i sovrani europei o con l’imperatore. La differenza la faranno i primi cannoni alla fine del ‘400.

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  2. Una utile integrazione all’articolo è l’articolo di “Medioevo Social” – “𝐿𝐴 𝑆𝐼𝑇𝑈𝐴𝑍𝐼𝑂𝑁𝐸 𝑃𝑂𝐿𝐼𝑇𝐼𝐶𝐴 𝐼𝑇𝐴𝐿𝐼𝐴𝑁𝐴 𝑁𝐸𝐺𝐿𝐼 𝐴𝑁𝑁𝐼 ’80 𝐷𝐸𝐿 𝐷𝑈𝐸𝐶𝐸𝑁𝑇𝑂. 𝐷𝐴𝐿𝐿𝐴 𝑀𝐸𝐿𝑂𝑅𝐼𝐴 𝐴 𝐶𝐴𝑀𝑃𝐴𝐿𝐷𝐼𝑁𝑂”

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