Le parole della Storia
La conquista romana della Gallia, evento importantissimo nella storia antica, ha mantenuto nei secoli una fama intatta grazie alla penna del suo più grande protagonista, il futuro dittatore Caio Giulio Cesare, che in prima persona, partendo probabilmente dalla tradizione di ogni comandante di scrivere resoconti e lettere da indirizzare al senato e al popolo, ha redatto i Commentarii di tale guerra. Eventi non meno grandiosi ebbero la sfortuna di non veder sopravvivere le cronache e le opere che le narravano (si pensi alle conquiste di Traiano in Dacia, parimenti raccontate dallo stesso imperatore in Commentarii andati purtroppo perduti).

L’episodio culminante dei sette originali libri scritti da Cesare è senza dubbio la grande rivolta dell’anno 52 a.C., ovvero la prima e unica volta in cui le tribù galliche seppero quasi unanimemente superare le divisioni interne per unirsi contro l’invasore romano, al punto da metterlo in grave difficoltà. Dopo diversi episodi (Avarico, Gergovia e Alesia), tuttavia, i Galli rinchiusi in quest’ultima città, di fronte al fallimento dell’esercito di soccorso e dopo episodi orrendi come la famosa “espulsione delle bocche inutili” (vecchi, donne e bambini), furono costretti alla resa.
Le due principali fonti che ci parlano dell’evento sono Cesare stesso e lo storico di lingua greca Cassio Dione che, pur scrivendo due secoli dopo, offre una testimonianza importante perché attinge ad una tradizione diversa da quella cesariana, tradizione forse riportata nei perduti libri della Storia di Roma di Tito Livio. Il patavino offriva senza dubbio un resoconto diverso da quello dello stesso Cesare; del resto, Tito Livio, scherzosamente appellato come storico “pompeiano” da Ottaviano Augusto, si domandava, al termine dei diciannove libri della storia di Roma dedicati a Cesare, se la nascita del condottiero fosse stata un bene o un male per lo stato; domanda cui non sapeva dare una risposta.

Sulla scorta dell’analisi fatta dallo studioso Giuseppe Zecchini nella biografia Vercingetorige (Editore Laterza, 2002), iniziamo dunque dalle parole di Cesare nel De Bello Gallico (libro VII, 89) subito dopo la definitiva sconfitta dell’esercito gallico di soccorso:
“Il giorno dopo Vercingetorige convoca l’assemblea, ribadisce di non aver intrapreso questa guerra per fini personali, ma per la comune libertà, e poiché bisognava cedere alla Fortuna, egli si offriva ai Galli, pronto a qualsiasi decisione, sia che avessero voluto placare i Romani con la sua morte, sia che avessero voluto consegnarlo vivo. Si mandano ambasciatori a Cesare per decidere sulla questione. Egli ordina di consegnare le armi e di portargli i capi. Cesare è assiso davanti al campo, sulle fortificazioni, qui vengono portati i capi gallici. Vercingetorige viene consegnato, le armi vengono gettate ai suoi piedi.”
“Vercingetorix deditur“: con queste due lapidarie parole esce di scena, per non riapparire mai più, un grande nemico di Cesare e di Roma; unico capo gallo, in quegli anni, ad elaborare una strategia efficace contro le legioni romane, ovvero privarle dei rifornimenti logistici. Nel racconto di Cesare, Vercingetorige è il capo nobile che si consegna spontaneamente al nemico vincitore per la salvezza comune.
Così commenta Zecchini:
“Nobilitare Vercingetorige significava per Cesare nobilitare la propria vittoria, ottenuta non su un barbaro rozzo e ottuso, ma su un avversario degno di lui; quest’abile operazione è resa possibile dall’assenza di rancore, da quel superiore distacco, che qui Cesare manifesta, pur se in altre occasioni, in particolare nei confronti di Catone l’Uticense, gli venne meno.”
Nella Storia Romana di Cassio Dione invece (libro XL, 41) emergono alcune cose taciute da Cesare, come la precedente amicizia (all’interno forse di un rapporto patrono-cliente) dei due condottieri:
“Vercingetorige avrebbe potuto mettersi in salvo con la fuga, perché non era stato catturato e non era ferito; invece si presentò a Cesare, senza essere annunziato, sperando di essere perdonato in grazia della loro vecchia amicizia. Apparve all’improvviso davanti al generale romano, che stava seduto in tribuna, provocando una certa paura in alcuni soldati: era infatti di alta statura, e nella sua armatura aveva un aspetto terribile. Fattosi silenzio, egli non pronunziò una parola, ma s’inginocchiò con le mani giunte a guisa di supplice.
Tutti provarono un senso di pietà, nel ricordo della sua passata posizione e alla vista della presente sventura; ma Cesare gli rimproverò maggiormente proprio ciò in cui il barbaro vedeva il maggior motivo di salvezza. Mettendo a confronto la ribellione e l’amicizia, dimostrò che era più grave la sua colpa. Perciò non ebbe in quel momento nessuna pietà, ma lo fece subito arrestare e in seguito, dopo averlo portato dietro di sé nel trionfo, lo fece uccidere.”
Altri autori come Plutarco o Floro aggiungono diversi dettaglia alla scena: per il primo, Vercingetore entra nell’accampamento a cavallo, fa un teatrale giro attorno a Cesare e scaglia le armi ai suoi piedi; per il secondo, l’arverno nel farlo esclama:
Tieni, uomo valorosissimo, hai vinto un uomo valoroso!
Tali “abbellimenti” non aggiungono nulla di interessante agli elementi della scena raccontata da Cassio Dione: Vercingetorige speranzoso di salvarsi ed evitare lo status di fuggitivo; Cesare irato per il tradimento di una passata amicizia.


Un lettore dei soli commentarii cesariani ne rimarrebbe senza dubbio disorientato. Com’è possibile che i due condottieri avessero una passata “amicizia”? Anzitutto, va specificato che con questa parola gli antichi intendevano un rapporto di alleanza che poteva anche essere di subordinazione, così come quello tra un “patrono” e un suo “cliente”. Roma concedeva ufficialmente questo “titolo” anche ad interi popoli, che godevano così della protezione romana in cambio di una limitazione dell’autonomia.
A che titolo, dunque, Cesare è “amico” di Vercingetorige? Il principe degli Arverni compare per la prima volta soltanto all’inizio dello stesso VII libro e viene presentato così:
“Nella regione degli Arverni viveva Vercingetorige, figlio di Celtillo, giovane di grande autorità, il padre del quale aveva avuto il potere supremo in tutta la Gallia e poiché voleva farsi re, era stato giustiziato dal popolo.”
Cesare non fa alcun accenno a conoscenze pregresse con il giovane principe. Secondo Zecchini, abbiamo molte ragioni per dubitare e altrettante per credere che Cesare abbia opportunamente omesso diverse cose. I primi anni della conquista romana della Gallia sono caratterizzati da una sostanziale facilità di Cesare, che può percorrere la regione in lungo e in largo senza incontrare l’opposizione di tutti i popoli, ma soltanto di alcune tribù e confederazioni marginali, spesso di origine germanica più che gallica (si pensi ad Ariovisto prima e alle fiere tribù belgiche poi).
Tutta la Gallia era divisa in due fazioni, l'una capeggiata dagli Edui, l'altra dagli Arverni De bello gallico (I, 31)

Gli Edui e le loro faccende sono centrali lungo l’intero corso della guerra; al contrario, gli Arverni raramente compaiono prima dell’ultimo anno, quando è appunto un loro principe ad assurgere a capo della rivolta. Così dice Zecchini:
Sia pur per semplici allusioni, noi cogliamo quindi nelle nostre fonti inequivocabili riferimenti a rapporti tra Vercingetorige e Cesare, anteriori al 52. Questi rapporti vanno collocati nel 57/56; nel biennio della conquista quasi indolore del la Gallia grazie all’appoggio di Diviciaco e alla benevola neutralità dei druidi, un giovane come Vercingetorige, ambizioso, desideroso di mettersi in mostra e, al tempo stesso, a rischio di emarginazione presso la sua gente, do vette offrire i suoi servigi a Cesare e compiere presso di lui il proprio apprendistato militare: il suo valore poté valer gli la stima e l’amicizia del Romano. Quando il proconsole cominciò nel 55/54 a nominare re alcuni dei nobili gallici a lui fedeli, Vercingetorige vagheggiò, e forse cercò di ottenere, quel titolo di re degli Arverni che a suo avviso gli spettava in quanto figlio di Celtillo e costituiva perciò, in fondo, la riparazione di un torto subito… Cesare non prese però in considerazione la candidatura di Vercingetorige e preferì non mutare i delicati equilibri della società arverna piuttosto che soddisfare le aspirazioni di un giovane frustrato; lo rese così un suo acerrimo nemico: la prima molla, che fece di Vercingetorige l’eroico condottiero della libertà gallica, fu il risentimento personale.
Il probabile servizio di Vercingetorige come ufficiale degli ausiliari gli valse una conoscenza della macchina bellica romana, che egli sfruttò nel corso della grande rivolta del 52 a.C., in particolare nel capire l’importanza di non affrontare i Romani in campo aperto ma attraverso tattiche di logoramento indirette, volte ad eliminare il supporto logistico delle legioni (fattore come emerge nella prima parte della campagna, in particolare nell’episodio dell’assedio di Avarico).
Il rispetto mostrato a parole nei confronti dell’Arverno venne meno nei fatti seguenti la resa: Vercingetore languì circa sei anni in carcere e venne poi pubblicamente strangolato nel trionfo del 46 a.C., uccisione richiesta probabilmente dai romani e auspicata dallo stesso Cesare, accusato in quel momento di portare i “galli in Senato”.
Tale caratteristica di Cesare, cioè quella di presentare i fatti in modo a lui stesso opportuno, emergerà poi anche nel famosissimo episodio dell’attraversamento del Rubicone: un episodio di cui abbiamo già parlato tempo fa sul blog.
Infine, un consiglio di narrativa: alla figura del capo degli Arverni è dedicato Il prigioniero di Cesare, uno degli ultimo romanzi di Massimiliano Colombo, che ho recensito ad inizio anno.
Altri articoli di Storia qui
Cesare attraversa il Rubicone – Articolo
Il prigioniero di Cesare – Recensione
