“La corruzione e il declino di Roma” di Ramsay MacMullen

Le cause della caduta dell’impero romano costituiscono uno dei grandi temi storiografici su cui si sono esercitate generazioni di studiosi. Qualcuno si è dato la pena di raccogliere e contare le differenti spiegazioni; sono circa 210, spesso contrastanti: l’edonismo, il Cristianesimo, il politeismo, il razionalismo, la superstizione, l’urbanizzazione, il declino delle città. Questo volume offre una nuova prospettiva sull’argomento e coglie nella corruzione della classe militare e politica il fattore chiave del declino di Roma. Il progressivo e rovinoso uso privato dell’Impero, la perdita di etica nella gestione della cosa pubblica, e gli effetti devastanti che ne derivarono, sono qui ricostruiti attraverso riferimenti precisi alle fonti, testi classici, iscrizioni, reperti archeologici (alcune targhe ritrovate recano addirittura le tariffe delle tangenti), e alla letteratura secondaria. Se in una prima fase (I-Il sec.) erano tollerati favori e favoritismi, ma non la vendita di questi, in una seconda fase (III-IV sec.) la pratica delle estorsioni e delle tangenti divenne corrente, incoraggiata dalle ambiguità della legge, dalla avidità dei burocrati, dall’isolamento dell’imperatore. Si vendeva, si comprava, si estorceva tutto: sentenze, promozioni, incarichi, onori, e il guadagno privato delle autorità militari e civili finì per stravolgere l’azione del governo e per deteriorare la splendida macchina amministrativa e militare romana. Ferme restando le altre concause – latifondo, inflazione, tassazione – il crollo di Roma (in termini di onore, potere, e soprattutto sicurezza militare) è da ascriversi, afferma MacMullen, a questa «privatizzazione» dell’impero, giunta, nel momento cruciale delle invasioni barbariche, al suo apice.

Editore: Il Mulino.
Pagine: 450
Formato: Cartaceo.
Uscita: 1988.


“Come fu che una data quantità di gente all’interno del mondo mediterraneo, con una data quantità di materie prime e abitante su un dato terreno che non cambiò molto, poté affermarsi con successo contro nemici esterni in un’epoca e cadere di fronte a questi nemici in un’altra?”

Il declino e la caduta di Roma sono da sempre stati uno dei temi più fecondi della storiografia (e anche qui sul blog: in fondo all’articolo troverete il link per l’articolo al saggio La fine del mondo antico di Santo Mazzarino). Molte cause sono state addotte dagli storici in epoche differenti per spiegare tale declino: la diffusione del cristianesimo, l’imbarbarimento degli eserciti, il declino degli antichi costumi e molto altro ancora. In questo libro l’autore, anzitutto, specifica che non è corretto parlare di “declino di Roma” al singolare, ma è invece opportuno parlare di più “declini”: declino economico, declino sociale, declino culturale eccetera che furono spesso asincroni. Se concordemente l’età severiana viene considerata l’apice della giurisprudenza romana, la letteratura e l’oratoria, per ammissione degli stessi Romani, sembrano essersi inaridite assai prima:

Spesso mi chiedi, Giusto Fabio, come mai, mentre tempi precedenti hanno visto fiorire in tutta la loro gloria i talenti di tanti oratori eccezionali, proprio la nostra età, abbandonata e rimasta come orfana del  prestigio dell’eloquenza, riesca con fatica a conservare il nome stesso di oratore; questo nome, infatti, lo diamo solo agli uomini del passato e  chiamiamo invece i buoni parlatori del nostro tempo causidici e avvocati e  patroni: tutto, ma non oratori.

Geograficamente, il declino non riguardò tutto l’impero nel suo complesso, ma fu differenziato: alcune aree videro una contrazione demografica accentuata e una desertificazione della vita urbana (soprattutto in Occidente), mentre altre, in Oriente conobbero una prosperità senza interruzione anche nei secoli tradizionalmente inclusi nel periodo del declino, cioè dal III al V secolo d.C.

Queste considerazioni sono quelle che occupano il primo capitolo del libro, capitolo che è ricco di grafici e tabelle, che in qualche modo cercano di “quantificare” il declino in vari ambiti come la produzione culturale, il cambiare dei flussi commerciali, il diminuire del numero dei relitti e altri.

Le variazioni delle merci in arrivo ad Ostia può dirci qualcosa sulla salute delle diverse province?

Nel secondo capitolo, l’autore ci illustra come era gestito l’impero romano in epoca alto imperiale (I-II secolo d.C.). Nonostante in quest’epoca la burocrazia fosse molto poco sviluppata e ammontasse a qualche centinaio di funzionari in tutto l’impero, l’imperatore poteva avere un certo controllo anche delle province più remote tramite la mediazione con l’elite locali; fattore che era fondamentale per garantire la pace e un generale senso di fiducia verso le istituzioni. Paradossalmente, questa stessa struttura molto snella permetteva comunque ai provinciali di poter accedere, attraverso la mediazione di canali di clientela e di raccomandazione, ai vertici amministrativi e dell’impero. Questo, ad esempio, è testimoniato dai rescritti imperiali, che erano “risposte” che l’imperatore dava a singoli casi che gli venivano sottoposti da governatori e cittadini e che costituivano una delle sue attività legislative principali dell’imperatore.

Al tempo stesso, l’autore rileva come la corruzione, pur già presente nella vita politica romana, non fosse tale da inficiare l’efficienza del sistema. In ambito amministrativo, è proverbiale la cupidigia delle decuriae, cioè delle corporazioni che riunivano gli aiutanti di cui si avvalevano magistrati e funzionari nello svolgimento del proprio incarico. In ambito militare, essa sembra essere stata limitata ai gradi più bassi, cioè ai gradi dei centurioni, che erano soliti vendere esenzioni dai compiti faticosi, licenze e congedi ai propri legionari; altrettanto diffusa era la pratica di gonfiare i rapporti degli effettivi delle truppe per intascare così la differenza di soldi e vettovagliamento.

Tutto questo si trasforma, in peggio, con la crisi del III secolo e diventa un processo inarrestabile a partire dall’età tetrarchica. Da un punto di vista amministrativo si verifica lo sviluppo di una grande burocrazia: gli uffici raddoppiano così come le province. Dalle poche centinaia di funzionari dell’epoca alto imperiale si passa alle migliaia di funzionari del basso impero, tutti definiti “militari” e irreggimentati tramite uniformi, regolamenti e fedeltà al servizio come militari. Tale rigidità non fu però garanzia di efficienza: ogni funzionario dava per scontato che la propria carica fosse anzitutto un’occasione di arricchimento. Questo fu il fenomeno nuovo, secondo MacMullen, dell’età tardo-imperiale. Fenomeno cristallizzato dalla famosa epigrafe della città di Thamugadi in Numidia, dove vennero riportate, attorno al 360 d.C. le cosiddette sportulae obbligatorie che dovevano essere fornite dal cittadino per ogni prestazione: come se oggi ci fosse il tabellario ufficiale delle tangenti di fronte ogni pubblico ufficio! Ciò che in origine era stato un malcostume era diventato, per forza della “mala” consuetudine, legge di fatto. Anche vicende come quella del corrotto comes Romano testimoniano l’impotenza imperiale.

Le terre perdute, de iure o de facto, dall’impero già prima del crollo definitivo del V secolo.

Nulla poterono gli sforzi degli imperatori per reprimere tali fenomeni; lo sviluppo della burocrazia coincise con una diminuzione del potere imperiale. I rescritti imperiali spariscono dopo l’epoca di Diocleziano; in molte leggi del IV secolo, addirittura, gli stessi imperatori contraddicono esplicitamente leggi da essi stessi emanate in passato ammettendo di essere stati male informati o mal consigliati (!).

Il colpo di grazia fu la diffusione della corruzione negli strati più alti dell’esercito, evento che sembra coincidere con il progressivo imbarbarimento dell’esercito e l’acquartieramento delle truppe nelle città. I numeri delle truppe fornite da alcuni storici e documenti come la Notitia Dignitatum sono pura fantasia. Gli eserciti del basso impero sono piccoli e poco combattivi, rispetto alle grandi armate della repubblica.

La conclusione del libro è l’analisi, amara, della perdita dei primi “pezzi” di territorio imperiale. Ben prima del crollo definitivo della frontiera del Reno (inverno 406-407), ampie parti del territorio imperiale erano di fatto ormai indipendenti: la Germania Inferiore, colonizzata dai barbari foederati; la remota Armorica; ampie parti della Mauretania cedute alle tribù nomadi; l’Isauria, dove nessuno osava più spingervisi; i Balcani, devastati dai Goti di Alarico in perenne movimento. Perso il controllo del territorio, l’impero era caduto.

Per concludere, il testo non è affatto divulgativo, ma è rivolto ad un pubblico di specialisti. La prosa di MacMullen è molto “densa” e l’apparato di note e appendici è imponente e spesso illuminante. Ritengo l’analisi dell’autore molto acuta, ma forse carente nell’andare a fondo delle tesi esposte: perché vi fu tale deterioramento? La causa, sembrerebbe, è da ricercarsi nell’ascesa delle classi basse (spesso barbariche) che, soprattutto attraverso l’esercito, furono in grado di arrivare ai vertici dell’impero; tale considerazione che sembra emergere (almeno a chi vi scrive) dal quadro non viene però esposta dall’autore.


La fine del mondo antico di Santo Mazzarino (Link)

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