[STORIA] 11 gennaio 49 a.C.: Cesare attraversa il Rubicone

 


L’attraversamento da parte di Cesare del fiume Rubicone in armi (e sottolineo in armi) è senza dubbio uno degli avvenimenti più importanti della storia romana. Il fiume Rubicone, infatti, segnava il confine sacro del pomerium oltre il quale un magistrato non poteva guidare le sue truppe. Tale pomerium, prima limitato alla città di Roma, era stato esteso a tutta l’Italia continentale ai tempi di Lucio Cornelio Silla, dopo le prime sanguinose guerre civili.

Come mai Cesare non fa alcun cenno al Rubicone nei Commentarii de bello civili? Perchè scrive di aver parlato alle truppe a Ravenna, cioè al di qua del pomerium, e non a Rimini, cioè al di là, come riportato dagli altri autori? La risposta a questa domanda ci illustrerà il tentativo di Cesare di scaricare le colpe della guerra civile interamente sugli avversari. Un’operazione di propaganda parzialmente riuscita.

In questo articolo voglio ripercorrere le tappe che portarono a questo evento drammatico. Farò abbondante riferimento ad un’opera del grande classicista Luciano Canfora: Giulio Cesare – Un dittatore democratico. La sua ricostruzione degli eventi è particolarmente acuta perchè confronta le fonti disponibili in modo critico, intuendo che la biografia di Svetonio su Cesare ha evidenti contributi dalle famose Storie di Asinio Pollione, testo preziosissimo perchè scritto da un testimone oculare dei fatti, purtroppo andato perduto.

Di Canfora avevo già parlato a proposito de Il mondo di Atene (qui), dove erano svelati gli “inghippi”, se vogliamo chiamarli così, alla base della democrazia ateniese.

D’ora in avanti, tutte le date saranno intese avanti Cristo.

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Ravenna e Rimini (Ariminum), la prima nell’allora Gallia Cisalpina, terra di cui Cesare era magistrato, la seconda in Italia, a sud del Rubicone e del pomerium sacro.

Il primo triumvirato: ascesa e declino

Il primo triumvirato tra Gneo Pompeo, Caio Giulio Cesare e Marco Licinio Crasso fu una spartizione privata del potere. Nel 61, i tre uomini più influenti di Roma si suddivisero le cariche politiche e gli eserciti. Tale accordo, rinnovato nel 56 a Lucca, resse finché fu in vita Crasso (morì assieme al figlio nella battaglia di Carre contro i Parti nel 53) e finché tra gli altri due triumviri ci fu un legame di sangue,  rappresentato da Giulia, amata figlia di Cesare e felice sposa di Pompeo. Giulia morì di parto nell’anno 54.

Qual erano gli intenti di Cesare al termine del suo lungo proconsolato in Gallia, durato quasi dieci anni? Il suo obiettivo era semplice: candidarsi al consolato in absentia, cioè senza essere presente fisicamente a Roma. In questo modo, avrebbe goduto della immunità giudiziaria (garantita prima dalla carica proconsolare in Gallia e poi da quella consolare a Roma) in modo ininterrotto. Perchè Cesare aveva bisogno di questo? Perchè una volta tornato a Roma da privatus, cioè senza cariche e senza esercito, sarebbe stato esposto ai processi che la fazione aristocratica gli avrebbe intentato. La fazione aristocratica, incarnata tra gli altri da Marco Porcio Catone che verrà detto l’Uticense, e Cesare avevano una lunghissima storia di rivalità.

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Anno 56, l’ultima volta che il triumvirato funzionò: le Gallie e l’Illirico a Cesare, la Spagna a Pompeo e la Siria a Crasso.

In tutta questa fase preliminare, Pompeo tenne un atteggiamento ambiguo. Da un lato voleva conservare l’amicizia e gli accordi con Cesare, dall’altro prestò fianco al partito aristocratico, finendo per diventarne il protettore.

L’anno 52: il consolato unico di Pompeo

Nel frattempo, Roma era scossa dalle avventure demagogiche di Publio Clodio Pulcro, il famoso tribuno della plebe e propugnatore di una politica democratica di tipo radicale e semi-rivoluzionario. Per certi aspetti, Clodio era il prosecutore delle aspirazioni anti-aristocratiche di Catilina come l’abolizione dei debiti e le distribuzioni di grano. Il legame tra Cesare e Clodio è indubbio: Cesare si servì di questo abile capo-popolo per i suoi scopi (come colpire Cicerone, esiliato perchè oppositore del triumvirato).

La situazione andò oltre nell’anno 52. La lotta tra le bande di Clodio e quelle di Tito Annio Milone, campione degli aristocratici, portò alla morte del primo. Per fronteggiare il caos, il Senato nominò Pompeo console unico. Una mossa azzardata, in quanto Pompeo cumulava in sé due cariche opposte: proconsole per la Spagna e console a Roma. Cesare ottenne, in cambio della sua approvazione, una legge che gli consentiva di candidarsi al consolato in absentia.

La crisi si avvicina

Gli anni 51 e 50 vedono Cesare impegnato su due fronti: reprimere le ultime rivolte locali in Gallia e assicurarsi un ritorno sicuro a Roma. Gli accordi del 56, sanciti dalla Lex Licinia Pompeia, gli garantiscono il comando proconsolare sulla Gallia, ma è incerto fino a quale data esatta. Forse fino all’anno 49 incluso, forse prima. Uno dei consoli del 51, Marco Claudio Marcello, è anti-cesariano e propone una legge affinché Cesare lasci regolarmente il suo incarico di proconsole entro i termini previsti. La situazione viene fermata dal collega in carica Servio Sulpicio Rufo e dall’intervento di Pompeo.

La situazione si ripresenta simile nell’anno 50. Consoli sono il cugino di Marcello, di nome Gaio, e Lucio Emilio Lepido Paullo. Cesare allora “compra” uno dei tribuni della plebe, lo scatenato Gaio Scribonio Curione, pagandone i milionari debiti. Tramite il veto di questo tribuno, la proposta di sollevare Cesare del comando in Gallia è nuovamente respinta.

Arriviamo agli ultimi giorni del 50. Consoli designati ad entrare in carica nel 49 sono un altro Gaio Claudio Marcello, fratello del sopracitato Marco, e Lucio Cornelio Lentulo, entrambi oppositori di Cesare. Dalla sua, Cesare ha alcuni tribuni della plebe: il già citato Curione, Marco Antonio e Quinto Cassio Longino (da non confondere con il cesaricida Gaio Cassio). La situazione è grave. Cesare decide di anticipare gli avversari e ordina a Curione di presentare in Senato una proposta conciliante: che tutti i promagistrati (Pompeo ed egli stesso quindi) cedano contemporaneamente le armi. Soltanto in questo caso Cesare avrebbe acconsentito a tornare a Roma da privatus. La proposta viene messa ai voti il 1° dicembre del 50 in Senato e passa con 370 voti a favore contro 20. Come dice Canfora a proposito:

La massa dei senatori è un soggetto instabile e poco incline ad uno schieramento fazioso. Da Silla ad Augusto è un organo che ha patito più volte ricambi ed epurazioni forzate.

La fazione aristocratica, sconfitta, non demorde. I due consoli designati si rivolgono a Pompeo, accampato fuori Roma. La controffensiva è prevista per il 1° gennaio del 49, in cui i consoli devono pronunciare un discorso di apertura del proprio mandato. 

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Canfora, guidaci e proteggici contro le menzogne dei potenti!

La crisi

Commentarii de Bello Civili si aprono in media res proprio con i fatti del 1° gennaio. Curione legge in Senato, a stento, una lettera di Cesare in cui viene ribadita la proposta conciliante: che egli e Pompeo sciolgano i propri eserciti. Così risponde il console Lentulo.

Il console Lentulo aizza il senato; promette di non fare mancare il suo sostegno allo stato, se i senatori vorranno esprimere il loro parere con coraggio e forza; ma se essi hanno riguardo per Cesare e ricercano il suo favore, come hanno fatto nei tempi passati, egli prenderà posizione nel proprio interesse senza sottostare all’autorità del senato; del resto anch’egli ha modo di trovare rifugio nel favore e nell’amicizia di Cesare.

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L’altro console, Scipione, rincara la dose annunciando il sostegno di Pompeo (suo recente suocero) se solo il Senato lo avesse richiesto. Alcune voci si levano a parlare in favore di Cesare, ma vengono zittite dalla violenza verbale della fazione aristocratica e dalla minaccia degli uomini di Pompeo. Il console Scipione fa così passare la seguente mozione:

“Cesare licenzi l’esercito entro un giorno determinato: se non lo farà, mostrerà di agire contro lo stato.”

De Bello Civili, I, 3

Marco Antonio e Cassio tentano invano di opporre il proprio diritto di veto. La mozione passa lo stesso e la seduta è sciolta.

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Busto di Pompeo di età imperiale.

Il Senato si riunisce nei giorni successivi (esclusi il 3 e 4 gennaio) fino al 7, il giorno critico. In questo intervallo la fazione aristocratica e Pompeo si ricompattano. La città si riempie di veterani e fedeli di Pompeo. Cesare sottolinea come i suoi avversari agiscano spinti da grette motivazioni personali:

Vecchi rancori nei riguardi di Cesare e il dolore del suo insuccesso elettorale aizzano Catone. Lentulo è mosso dalla grande quantità di debiti, dalla speranza di avere un esercito e delle province e dai doni degli aspiranti al titolo di re. Tra i suoi si vanta di star per diventare un secondo Silla nelle cui mani ritornerà il potere supremo. Stimola Scipione una medesima speranza di governo di province e di comando di eserciti che, per legami di parentela, pensa di potere dividere con Pompeo… Lo stesso Pompeo, incitato dagli avversari di Cesare e poiché non voleva che nessuno gli fosse pari per prestigio, si era del tutto allontanato dalla sua amicizia e si era riconciliato con comuni avversari, che, in gran parte, egli stesso aveva procurato a Cesare al tempo della loro parentela.

De Bello Civili, I, 3

Si arriva quindi alla seduta del 7 gennaio. Il Senato vota un senatoconsulto ultimo: Cesare deve restituire le sue truppe. I tribuni della plebe, privati di fatto del diritto di veto, sono intimiditi e fuggono da Roma con l’intento di raggiungere un Cesare in attesa della pacificazione.

Subito i tribuni della plebe fuggono da Roma e si rifugiano presso Cesare. In quel tempo egli era a Ravenna e attendeva risposte alle sue così moderate richieste, sperando che, per un senso di umana moderazione, il conflitto si potesse risolvere pacificamente.

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Ravenna! Al di qua del Rubicone, quindi. Cesare è volutamente ambiguo. Egli è a Ravenna, ma i tribuni, come dice egli stesso poco dopo, vanno a Rimini. Verificheremo la veridicità di queste affermazioni. Per accrescere la tensione drammatica, Cesare torna su quello che accade a Roma. Il Senato si riunisce fuori città perchè Pompeo, magistrato in carica, non può entrarvi. Pompeo loda la fermezza di tutti e assicura il proprio sostegno. La fazione aristocratica si spartisce incarichi e onori per quell’anno.

Torniamo a Cesare. Arringa le truppe a Ravenna. Il suo discorso è tutto incentrato sulla indignazione per le violazioni della legge che i suoi avversari, spinti da motivazioni personali, hanno compiuto verso i tribuni della plebe. Tribuni che, ricordiamolo, secondo la versione di Cesare non sono presenti a Ravenna.

Cesare, venuto a conoscenza di questi fatti, parla ai soldati. Rammenta gli affronti fattigli dagli avversari in ogni tempo; e si duole che Pompeo, per invidia e gelosia della sua gloria, sia stato da essi sedotto e corrotto, mentre egli stesso lo ha sempre aiutato nella carriera e ne è stato il sostenitore. Lamenta che  stato introdotto un precedente, insolito nello stato, cioè che il veto dei tribuni, che negli anni addietro era stato ristabilito con le armi, con le armi ora venga infamato e soffocato…
esorta i soldati a difendere dagli avversari la reputazione e l’onore del comandante sotto la cui guida, durante nove anni, hanno servito fedelmente lo stato e combattuto moltissime battaglie con esito favorevole, hanno portato pace in tutta la Gallia e la Germania. Elevano un grido di approvazione i soldati della XIII legione che era presente (questa infatti egli aveva richiamato all’inizio del disordine, le altre invece non erano ancora giunte), proclamando di essere pronti a respingere le ingiurie arrecate al loro comandante e ai tribuni della plebe.

De Bello Civili, I, 7

Nel proseguo, Cesare passa a Rimini con le truppe dove incontra i tribuni della plebe. Del Rubicone non c’è traccia. Termina così la versione di Cesare dello scoppio della guerra civile.

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Questo Giulio Cesare di età moderna (Nicolas Costou, età di Luigi XIV) è anche icona di questo blog. Questo non ci impedisce di criticare Cesare, anzi!

La versione di Svetonio

Confrontiamo il racconto di Cesare con quanto riporta Svetonio nella Vita dei Cesari. Svetonio ha avuto modo di accedere a fonti per noi andate perdute fra, cui come detto, l’importantissima testimonianza di Asinio Pollione.

Quando dunque fu riferito a Cesare che non si era tenuto conto dell’opposizione dei tribuni e che questi avevano abbandonato Roma, subito fece andare avanti segretamente alcune coorti, per non destare sospetti.

Vite dei Cesari, Cesare, 31.

Cesare quindi era informato costantemente su ciò che accadeva a Roma. Per questo manda avanti cinque coorti di legionari sino al fiume, così da essere pronto per ogni evenienza. Le suddette truppe non potevano non essere consapevoli della situazione. Così dice Canfora:

Quelle coorti erano già allertate a compiere, se del caso, il passo senza ritorno dell’insurrezione contro i poteri costituiti. Non potevano avanzare fino al limite estremo senza capire. E significa però anche che, com’è ovvio, Cesare sospetta una possibile infiltrazione da parte avversaria persino nel suo più ristretto entourage.

Come la defezione di Tito Labieno dimostrerà di lì a poco. Per stornare ogni sospetto, Cesare va a teatro e si occupa dei piani di uno scuola di gladiatori. Solo dopo ciò inizia la lunga (e per certi versi comica) notte che vedrà il passaggio del Rubicone. Proseguiamo il racconto di Svetonio.

Dopo il tramonto del sole, aggiogati ad un carro i muli di un vicino mulino, partì in gran segreto con un’esile scorta. Quando le fiaccole si spensero, smarrì la strada e vagò a lungo, finché all’alba, trovata una guida, raggiunse a piedi la meta, attraverso sentieri strettissimi. Riunitosi alle sue coorti presso il fiume Rubicone, che segnava il confine della sua provincia, si fermò per un attimo e, considerando quanto stava per intraprendere, si rivolse a quelli che gli erano più vicini dicendo: “Siamo ancora in tempo a tornare indietro, ma se attraverseremo il ponticello, dovremo sistemare ogni cosa con le armi.”

Vite dei Cesari, Cesare, 31.

Così commenta Canfora l’episodio:

La scena ha aspetti surreali: il proconsole delle Gallie che si accinge all’insurrezione contro la Repubblica si affida ad uno sconosciuto pastore, che di certo ignorava chi potessero essere quei viandanti notturni persi per i viottoli della boscaglia… A piedi Cesare con i suoi fedelissimi compagni di avventura arrivò finalmente al Rubicone dove le coorti – che lo attendevano per la notte precedente – aspettavano, ormai da ore e ore.

Gli elementi surreali (almeno a noi lettori moderni) non finiscono qua.

Mentre esitava, gli si mostrò un segno prodigioso. Un uomo di straordinaria bellezza e di taglia atletica apparve improvvisamente seduto poco distante, mentre cantava, accompagnandosi con la zampogna. Per ascoltarlo, oltre ai pastori, erano accorsi dai posti vicini anche numerosi soldati e fra questi alcuni trombettieri: l’uomo allora, strappato a uno di questi il suo strumento, si slanciò nel fiume, sonando a pieni polmoni una marcia di guerra, e si diresse verso l’altra riva. Allora Cesare disse: “Andiamo dove ci chiamano i segnali degli dei e l’iniquità dei nostri nemici. Il dado è tratto.”

Vite dei Cesari, Cesare, 32.

Secondo Canfora, non è improbabile che il “colpo di teatro” sia stato organizzato dallo stesso Cesare per rinfrancare le truppe e sfruttare il momento. L’episodio è coerente con la mentalità antica, intrisa di superstizione, che vede in fatti che per noi sono casuali un segno inviato dalle divinità. Arriviamo al momento topico: l’arringa di Cesare alle truppe, che si svolge a Rimini, dopo aver passato il Rubicone.

Fatta passare così la sua armata, prese con sé i tribuni della plebe che, scacciati da Roma, gli si erano fatti incontro, si presentò davanti all’assemblea dei soldati e invocò la loro fedeltà con le lacrime agli occhi e la veste strappata sul petto. Si crede perfino che abbia promesso a ciascuno il censo di cavaliere, ma si tratta di un equivoco. Infatti, nel corso della sua arringa e delle sue esortazioni, egli mostrò molto spesso il dito della mano sinistra dicendo che di buon grado si sarebbe tolto anche l’anello per ricompensare tutti coloro che avessero contribuito alla difesa del suo onore. I soldati dell’ultima fila, per i quali era più facile vedere che sentire l’oratore, fraintesero le parole che credevano di interpretare attraverso i gesti e si sparse la voce che avesse promesso a ciascuno il diritto di portare l’anello e di possedere i quattrocentomila sesterzi.

Vite dei Cesari, Cesare, 33.

Il racconto di Svetonio termina così con il sottinteso che le truppe di Cesare si mossero credendo di ricevere chissà quali ricchezze (ciò sembra prefigurare i donativi che gli imperatori elargiranno in seguito ai pretoriani). L’immagine delle truppe che si muovono sdegnate dal comportamento dei senatori a Roma è assente.

Nel suo libro – che consiglio caldamente – Canfora analizza anche le testimonianze di Plutarco e di Cicerone, che rafforzano la versione di Svetonio e smentiscono quella di Cesare. La fonte comune a tutti sembra essere proprio Asinio Pollione, volutamente non citato da Cesare nei Commentarii.

Conclusioni

Abbiamo confrontato le due principali versioni sull’attraversamento del Rubicone. Facciamo qualche considerazione seguendo Canfora e avanziamo alcune ipotesi. Secondo Canfora:

La ragione della falsificazione cesariana è evidente. Secondo il racconto dei Commentarii è con l’assenso preventivo e incondizionato delle truppe che avviene il passaggio del Rubicone. Al contrario tutta l’operazione fu condotta in modo da mettere le truppe di fronte al fatto compiuto.

Non solo. La fedeltà delle truppe della XIII legione non era affatto scontata se consideriamo che Cesare, secondo Svetonio, deve ricorrere a tutta una serie di trucchi retorici per convincere le truppe. Tribuni della plebe che, avanza l’ipotesi Canfora, sapevano in anticipo che avrebbero trovato Cesare a Roma: il che dimostrerebbe come Cesare fosse pronto da tempo ad una simile evenienza. Si può persino pensare che i tribuni abbiano esagerato la minaccia nei loro confronti e, fuggendo da Roma, abbiano gettato la colpa di illegalità sulla fazione aristocratica.

Un’altra considerazione, questa volta personale. La segretezza con cui Cesare attraversa il Rubicone mi fa pensare che egli dubitasse della fedeltà di alcuni degli ufficiali con lui in quel momento. Si può ipotizzare uno scenario, forse estremo, in cui un Labieno o altri sollevano le truppe contro Cesare impedendogli di passare il Rubicone.

Quale fu l’errore della fazione aristocratica? Leggiamo ancora Canfora:

Probabilmente la “fazione”, come Cesare la definiva, non pensava che Cesare si sarebbe spinto fino alla scelta “sillana” di marciare contro la Repubblica: hanno tenuto duro per costringerlo a tornare a Roma da privatus ed inchiodarlo con raffiche giudiziarie da cui non si sarebbe facilmente risollevato, convinti che non avrebbe osato imbarcarsi nell’azzardo di un conflitto armato contro il Senato e contro il potentato più influente e dotato di clientele solide e ramificate a Oriente e a Occidente [Pompeo].

Dunque, le motivazioni reali e contingenti della guerra civile furono meramente personali. Una lotta tra politici, un mors tua vita mea. Cesare agisce perchè altrimenti sarebbe finito sotto i processi degli avversari politici. Svetonio è esplicito a riguardo.

Pompeo andava dicendo che [Cesare], vedendosi impossibilitato a portare a termine i monumenti iniziati e a realizzare, con le sue sole risorse, le speranze che aveva fatto concepire al popolo per il suo ritorno, aveva voluto precipitare ogni cosa nel caos. Altri dicono che temesse di essere costretto a rendere ragione di ciò che aveva fatto durante il suo primo consolato, senza tener conto né degli auspici, né delle leggi, né dell’opposizione dei magistrati; M. Catone annunciò più di una volta, e non senza accompagnamento di giuramenti, che lo avrebbe trascinato in giudizio nel momento stesso in cui avesse congedato l’esercito; si diceva apertamente che se fosse tornato senza nessuna carica, seguendo l’esempio di Milone, avrebbe sostenuto la sua causa davanti a giudici circondati da uomini armati.

Vite dei Cesari, Cesare, 30.

Cesare non è il campione che vuole restaurare la legalità repubblicana spezzata dai suoi avversari ma un politicante più scaltro degli altri. Al contrario di ciò che è scritto nel De Bello Civili, la contrapposizione tra una fazione aristocratica spinta da motivazione personali e un Cesare spinto dalla volontà di ripristinare la legalità tradita è perlopiù una costruzione di Cesare stesso.

Ci sono momenti in cui tale motivazione trapelano per bocca dello stesso Cesare. Sempre Svetonio, citando esplicitamente Asinio Pollione, ci dice:

Rende credibile la cosa Asinio Pollione quando riferisce che, dopo la battaglia di Farsalo, vedendo i suoi avversari fatti a pezzi e completamente battuti, Cesare disse queste testuali parole: “Lo hanno voluto loro: dopo tante imprese io, Gaio Cesare, sarei stato condannato se non avessi chiesto aiuto ai miei soldati.”

Tutto questo non sminuisce la grandezza di Cesare. Egli vinse le guerre civili sconfiggendo avversarsi molto più forti di lui e avviò alcune riforme a mio giudizio non rinviabili dello stato romano, riforme che saranno portato a compimento dal figlio adottivo, Ottaviano Augusto. La sua fama, per quanto sia in parte auto-costruita, è ben meritata.

A proposito di Ottaviano, è interessante notare come la sua presa del potere sarà persino più ambigua e chiacchierata di quella del padre adottivo. Le vicende che videro la morte dei consoli in carica per l’anno 43, Aulo Irzio e Vibio Pansa, sono sempre state giudicate sospette. Probabilmente ne scriverò un approfondimento in futuro.

  • Immagine in copertina tratta da qui (consiglio anche la pagina Facebook del gruppo: Legio XIII Gemina – Ariminum).

BIBLIOGRAFIA

Giulio Cesare il dittatore democratico, Luciano Canfora, Laterza, 1999.
Vita dei Cesari, Gaio Svetonio Tranquillo in http://www.progettovidio.it/index.asp
De Bello Civili, Caio Giulio Cesare in http://www.progettovidio.it/index.asp


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3 pensieri su “[STORIA] 11 gennaio 49 a.C.: Cesare attraversa il Rubicone

  1. Mi hai cambiato l’opinione di una vita!
    Ho sempre immaginato Cesare, sul suo bel destriero, che attraversa il Rubicone acclamato dai suoi soldati e proclama: “Alea iacta est.”
    Invece ha ingannato i suoi commilitoni per tornaconto personale, i quali erano da lui temuti rispetto a possibili insubordinazioni.
    Non me lo aspettavo.
    Come hai detto tu, Cesare, per quanto egoista e dittatoriale, è stato sicuramente più furbo degli altri senatori e degli altri due triumviri.
    E paradossalmente, una volta instaurata la sua dittatura è stato più democratico di loro, mi riferisco ad esempio alle riforme che tu stesso hai citato.

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