“Storia intima della Grande Guerra” di Quinto Antonelli

Questo libro non è per noi. Siamo degli intrusi noi che oggi sbirciamo tra le lettere e i diari dei soldati. I loro testi erano infatti parte di una comunicazione intima, chiusa all’in terno della cerchia famigliare. Se gli ufficiali colti, quando scrivono alla famiglia, scrivono un po’ anche per i posteri, chi scrive queste pagine è per lo più un soldato subalterno (che prima di essere chiamato alla guerra faceva l’operaio, il contadino, l’artigiano), con l’unica ambizione di rivolgersi ai suoi famigliari, per difendere quel ponte comunicativo che il conflitto rischia di interrompere: «Ti raccomando di scrivermi presto onde potermi rallegrare un poco, perché la mia vita di trincea è peggiore a quella dei nostri porci».
Si tratta di una ricchissima documentazione (che quasi sempre si sottrae alle norme ortografiche e sintattiche, e per questo può sembrare ingovernabile) raccolta presso il Museo storico del Trentino, e a lungo esclusa dal racconto nazionale, in quanto considerata marginale, se non conflittuale: gli autori sono infatti «tutti» gli italiani, anche quelli che un secolo fa erano sudditi dell’Austria: trentini, giuliani, triestini. L’esigenza di ristabilire il contatto con la famiglia a volte è minacciata dall’impossibilità di comprendere: chi è a casa non coglie una realtà per sua natura indicibile, e chi è al fronte non concepisce atteggiamenti che appaiono irrispettosi, superficiali: «Capirai a noi qua si divora la rabbia nel sentire che in Italia fanno delle feste per la presa di gorizzia e suonare le campane si dovrebbero vergognare». Colpiscono l’amarezza, la rabbia dei soldati, e si comprende la facilità con cui la guerra abbia potuto condurli alla follia: nel volume è incluso il dvd Scemi di guerra, il documentario che Enrico Verra ha dedicato ai soldati colpiti da psiconevrosi, chiusi in manicomio e sottoposti a trattamenti spesso crudeli. Il fenomeno di quelli noti come «scemi di guerra» probabilmente è solo la punta di un malessere più vasto, di una follia che scorre in profondità e che ha trovato in quella guerra una delle sue manifestazioni più spaventose.

Formato: Cartaceo ed ebook.
Editore: Donzelli.
Pagine: 320.
Anno di uscita: 2014.


Le lettere e i diari dei soldati comuni (diverso è il caso delle memorie) non sono stati scritti per noi che ora li leggiamo, erano parte di una comunicazione intima, chiusa entro la cerchia famigliare, in continuità con il colloquio orale caratterizzato dalla confidenza filiale o coniugale. Noi, lettori postumi, non eravamo previsti, tanto che di fronte alla fragilità di quella scrittura la nostra presenza ha ora qualcosa di intrusivo e di impudico.

Al contrario, gli ufficiali colti (per non parlare degli ufficiali-scrittori o degli ufficiali-giornalisti), anche quando scrivono alla famiglia o stendono note apparentemente riservatissime, scrivono anche un po’ per i posteri, anche un po’ per noi: quel tanto o poco di «letterario» e di formale che governa la loro scrittura ci include, senza tanti scrupoli di coscienza da parte nostra, tra i loro lettori “modello”.

La dicotomia appena riportata, ovvero quella tra le spontanee e spesso sgrammaticate parole del soldato semplice contrapposte a quelle più corrette ed elaborate (potremmo dire “socialmente e culturalmente influenzate”) dell’ufficiale, è soltanto una delle caratteristiche della vasta raccolta di lettere, pagine di memoriali e brani di diari che costituisce il cuore del libro. Essa rivela in modo immediato e fortissimo ciò che probabilmente visse una grande parte dei milioni di italiani inviati nelle trincee: un senso di totale spaesamento, ben presto travolto dall’orrore della guerra stessa. Tale orrore, e il suo superamento, si ritrova nella lettera, ad esempio, del bersagliere Primo Farabegoli, destinato a morire nell’inverno del ’15. Ne riporto qualche stralcio (l’originale occupa un paio di pagine del libro)

Cari genitori vi diro che io in combattimento mi son fatto un gran coraggio e non pensavo neanche che io fossi in pericolo di morire vi diro che io mi faceva molto scrupolo di vedere un morto ma invece cuà cio dormito 3 giorni fra i cadaveri che puzzano e nel fare l'avanzata cuando si gettavamo a terra non avendo il tempo da fare la trincea si nascondevamo didietro ai cadaveri metendoli uno sopra laltro e poi il giorno 26 lulio abiama saliti in cima del monte e abiamo dato 3 assalti alla baonetta e li abiamo fatti slogiare dalle trincee se avesti veduto i soldati austriaci morti cinera in ginochio nel fare lasalto ci siamo passati da sopra e ci nera che facevono l'ultimo respiro...

Un’altra traccia importantissima è l’inclusione dell’epistolario dei fanti di etnia e lingua italiana (trentini, giuliani, triestini) che erano però sudditi dell’impero austroungarico e che sotto di esso combatterono, anche prima (estate 1914 invece che primavera 1915) degli Italiani sudditi dei Savoia, inviati in gran numero ai lontani confini orientali della Galizia e dell’Ucraina contro l’impero zarista.

Ci sembra una scelta che, senza enfasi eccessiva, può assumere una dimensione etica, poiché si decide di mettere in circolazione delle memorie escluse per gran tempo dal racconto nazionale, considerate a lungo marginali e vissute come separate, quando non conflittuali.

Non pochi di essi tentarono la diserzione, ma altrettanti ci furono di coloro che si batterono bene. Incredibile è la vicenda dell’ex-falegnamente Giovanni Pederzolli, ferito gravemente alla mascella e immobilizzato a terra:

Tutto in un intorno a me, comparvero, come sorti dalla terra i russi. Uno si fermo vicino a me. Qui però devo farvi la biografia di questo prode Russo che mi salvò da certa morte con passienza e coraggio ammirabile.. Avrà avuto circa 25 anni grande, largo di spalle, e forte come un ercole. La facia in quel momento, mi sembrava quella di un angelo. Si chinò su me, e dopo avermi presa quella po' di munizzione che mi restava, frugò, nel mio tascapane, trovò la fasciatura, e colla delicatezza d'una fanciulla mi bendò, la terribile ferita. Vedendo però che non era bastante, e che il sangue, scorreva ancora a diluvio, frugo nel suo tasc pane e dopo aver presa, la propria fascia mi bendò la spalla. Il sangue però non voleva ancora fermarsi. Allora prese la mia bluse, e dopo aver a divisa in due pezzi, con quella s'ingegnò a bendarmi ancora. Mi fece capire che non mi muovessi, a moti, e cercò ancora feriti.

Il libro suddivide il centinaio di lettere presenti non con criterio cronologico o geografico, ma tematico. È una scelta azzeccata, perché mette in evidenza la similarità delle esperienze cui si trovarono di fronte i contadini e gli altri appartenenti ai ceti umili e meno alfabetizzati. Consente inoltre di mostrare le varie reazioni a quelli che furono fenomeni comuni a tutti i soldati coinvolti: lo shock per i bombardamenti di artiglieria; l’assalto dalla trincea; uccidere un nemico; la nostalgia di casa. Ho altrettanto apprezzato la scelta di non effettuare alcuna parafrasi dei testi originali delle lettere che, come avete visto sopra, si offrono ai nostri occhi con ben più di qualche incertezza grammaticale o svarione sintattico: molte lettere sono prive di punteggiatura e ricordano, per certi versi, un flusso di coscienza “à la Joyce”. Errori e storpiature delle parole sono presenti ad ogni riga. Tale scelta restituisce con immediatezza il sentire di questi personaggi. Mentre le poche lettere di ufficiali presenti appaiono “impostate” (ovvero, noi sappiamo che i suddetti ufficiali non parlavano così nella vita vera), al contrario le lettere dei soldati restituiscono appieno la loro lingua parlata. Insomma, questa scelta permette una immersione senza pari: in non pochi momenti, lo confesso, ho immaginato di essere con questi soldati mentre, in un precario momenti di pausa, in condizioni disagevoli, scrivono o dettano una di queste lettere.

Il racconto offertoci dall’epistolario non si limita alla guerra in sé, ma coinvolge anche i sentimenti dei soldati: la “nostalgia di casa”; l’indignazione morale contro giornalisti, politicanti, interventisti e riformati dal servizione; il desiderio di una “fuga” dalla guerra, sia sotto forma di licenza che sotto forma di ferita, provocata o procurata, o, addirittura, tentativi di diserzione. Sono da esempio le memorie di Mimo Genga, emigrato negli Stati Uniti, ritornato casualmente in Italia nell’aprile 1914 e poi arruolato. Nell’ottobre del 1915 si trova ad attraversare un tratto di terreno allo scoperto. Accolte “con gioia” le ferite, viene inviato in ospedale.

Sebbene era corto il tragitto ma era assai pericoloso, mi feci risoluto e spiccai la corsa, non appena giunsi allo scoperto era già pronta l'arma verso di mè, mi fecero una scarica di 4 o 5 secondi tutte le palle passarono vicino al viso, per un secondo cessò, dicevo fra me sono salvo, e scappavo tutta carica, altra scarica a doppio pezzo, fischia le palle come vipere, una mi prese nel fianco sinistro dove il portafoglio mi salvò, una seconda nella fila dei bottoni della giubba ed una terza nella mano dove impugnavo il fucile, e fui ferito. 
Dio che gioia.

L’unica mancanza del libro (almeno, ciò che ho sentito io) è l’assenza delle risposte alle lettere di questi soldati: sono cioè assenti del tutto le lettere inviate da familiari, parenti e amici agli uomini al fronte. Ammetto però che non era questo lo scopo esplicito del libro, a partire dal titolo; si tratta dunque di una mia curiosità che rimane insoddisfatta.

In definitiva, è un libro che consiglio davvero a tutti, appassionati di storia e anche non appassionati, perché restituisce con immediatezza come fu affrontata, da centinaia di migliaia di uomini, una delle più grandi esperienze (e tragedie) collettive del ‘900.


Gli altri libri di cui ho parlato: SAGGISTICA

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