Da cent’anni la disfatta di Caporetto suscita le stesse domande: fu colpa di Cadorna, di Capello, di Badoglio? I soldati italiani si batterono bene o fuggirono vigliaccamente? Ma il vero problema è un altro: perché dopo due anni e mezzo di guerra l’esercito italiano si rivelò all’improvviso così fragile? L’Italia era ancora in parte un paese arretrato e contadino e i limiti dell’esercito erano quelli della nazione. La distanza sociale tra i soldati e gli ufficiali era enorme: si preferiva affidare il comando dei reparti a ragazzi borghesi di diciannove anni, piuttosto che promuovere i sergenti – contadini o operai – che avevano imparato il mestiere sul campo. Era un esercito in cui nessuno voleva prendersi delle responsabilità, e in cui si aveva paura dell’iniziativa individuale, tanto che la notte del 24 ottobre 1917, con i telefoni interrotti dal bombardamento nemico, molti comandanti di artiglieria non osarono aprire il fuoco senza ordini. Un paese retto da una classe dirigente di parolai aveva prodotto generali capaci di emanare circolari in cui esortavano i soldati a battersi fino alla morte, credendo di aver risolto così tutti problemi.

Pagine: 646.
Editore: Laterza.
Anno prima edizione: 2017.
Formato: Cartaceo ed ebook.
La sconfitta di Caporetto ha rappresentato uno degli eventi cardini della partecipazione italiana nella Grande Guerra e, anche, nella storia successiva d’Italia. Caporetto è difatti entrata nell’immaginario collettivo, come “la” disfatta per eccellenza. Pochi eventi hanno suscitato dibattiti, polemiche e processi, anche perché elevatissimo è il numero di testimonianze a disposizione.
Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio per quelli che conoscono solo il Barbero divulgatore e personaggio televisivo-mediatico: Barbero è prima di ogni altra cosa storico vero e di valore. Non aspettatevi dunque che questo “Caporetto” sia un libriccino divulgativo dalla lettura agevole, nient’affatto. È un solido libro di storia, ricco di note ad ogni pagina, che non fa semplificazioni o introduzioni a favore del lettore che ne sappia di meno; a tratti, potrebbe risultare persino pedante. La solidità è anche quando Barbero ammette, in diversi passaggi, che, di fronte a testimonianze contrapposte o insufficienza di dati, non è possibile giungere a conclusioni. O quando siamo di fronte a testimonianze contrapposte: ad esempio, la constatazione degli austrotedeschi della ricchezza materiale (rispetto alla loro povertà di paesi sotto blocco commerciale) dei soldati italiani, in fondo ben nutriti; e al tempo stesso, l’ammirazione malcelata degli stessi italiani fatti prigionieri verso i tedeschi, descritti spesso come alti, biondi, sani e anche loro, ben nutriti! (faccio notare che l’inverno del ’16-’17 fu tra i più duri della Germania ed è passato alla storia come l’inverno delle rape). Come si capirà, questi e altri dati non possono essere presi alla lettera, ma vanno ragionati e filtrati.
Detto questo, passiamo al contenuto del libro. Quali fatti e quali tesi espone Barbero? Quali furono le cause di Caporetto? La mitologia amplificata o creata sulla battaglia (anche dagli stessi protagonisti) ha parlato di gas mortali che annientarono interi reparti; reggimenti traditori arresisi vilmente in massa ad un pugno di nemici; comandi insipidi o persino vigliacchi, ancorati a tattiche antiquate e vessatori contro i propri uomini.
Barbero analizza ognuno di questi fattori e riconduce il tutto alle testimonianze e ai fatti storici. Particolarmente acuta e dettagliata l’analisi del mancato effetto dell’artiglieria italiana (il cui “silenzio” divenne uno dei miti della battaglia):
È chiaro ormai che questa impressione [del silenzio], ripetuta da così tanti testimoni, non è da intendere alla lettera, ma esprime una verità più profonda: il fatto, cioè, che l’azione delle batterie italiane risultò paurosamente deludente rispetto alle attese. L’artiglieria tirò, ma troppo tardi, troppo poco, e non sui bersagli giusti; e l’attacco travolse tutto senza che l’enorme numero di cannoni ammassato alle spalle della prima linea, e che Capello si era rifiutato di spostare più indietro, riuscisse a impedirlo.

È vero che molti reparti italiani, con numerosissime artiglierie, furono catturati dopo scarsa resistenza e con una facilità che sorprese gli stessi austrotedeschi. Fu soltanto viltà dei soldati e tradimento di alcuni? Barbero ricostruisce in modo sapiente i motivi tattici che resero possibile tale risultato. Essi sono:
- Bombardamento breve e intenso dell’artiglieria austrotedesca, mirante alla distruzione delle prime linee ma, anche e soprattutto, delle comunicazioni nelle retrovie;
- Coordinamento tra bombardamento e assalto della fanteria, che usciva dalle trincee così da non dare modo ai reparti italiani (nascostisi nei ripari e nei bunker per sfuggire all’artiglieria) di tornare in posizione;
- Tattica dell’infiltrazione, che prevedeva non l’assalto frontale alle trincee ma la penetrazione di piccole squadre anche al di là dei capisaldi italiani;
- Carente risposta dell’artiglieria italiana, che non rimase interamente silente, ma fu inefficace soprattutto per la rapidità
- Debolezza numerica dei reparti italiani, logorati da tre anni di guerra, e scarsa coesione;
- Stato insufficiente di molte trincee, spesso mai utilizzate dal 1915, e riadattate alla meglio, oppure colpevolmente trascurate come quelle a valle dell’Isonzo.
Citazione dal libro:
Cosa resta, a questo punto, del luogo comune secondo cui le truppe si sarebbero battute poco e male, arrendendosi alla prima occasione? Preso alla lettera, il luogo comune è falso, e offensivo per quegli uomini che combatterono e morirono nelle loro trincee, per quanto basso potesse essere il loro morale; ma si capisce anche come abbia potuto nascere e diffondersi, perché in certi momenti il nemico ebbe davvero l’impressione di catturare prigionieri con irrisoria facilità. I resoconti trionfalistici di parte tedesca e austriaca, in cui poche intrepide squadre di assaltatori facevano prigionieri interi battaglioni, non possono essere generalizzati, e soprattutto non significano che quei prigionieri fossero dei vigliacchi; ma non sono del tutto falsi, perché molti reparti sorpresi al riparo nelle caverne prima ancora che cessasse il bombardamento si arresero davvero senza combattere. Quando fecero in tempo ad emergere dai ricoveri, le truppe si difesero e tennero duro finché vennero attaccate frontalmente; cedettero, talvolta di schianto, quando si trovarono il nemico alle spalle, grazie a quella tattica dell’infiltrazione di cui i nostri non avevano alcuna esperienza e che il lettore imparerà, invece, a conoscere a fondo.

Così caddero le munitissime postazioni del Monte Nero e del Mrzli, perni della nostra difesa. I gas furono mortali e decisivi soltanto in uno dei settori del fronte, a Plezzo, dove venne impiegata una nuova tecnica basata sul fosgene e che provocava una morte “indiretta” per asfissia. Per quanto riguarda i comandi, il “male” è da ravvisare nella scarsa autonomia consentita agli ufficiali di ogni ordine e grado, fattore che divenne fatale nel momento in cui gli austrotedeschi distrussero un gran numero di linee telefoniche e resero vani, con i fumi del bombardamento, altri mezzi di comunicazione possibili; a questi si aggiunga lo stato debilitato del generale Capello della II armata, afflitto da nefrite e per lunghi periodi convalescente; la “sfortuna” (parola necessariamente tra virgolette) di Badoglio, che non poté comunicare i propri ordini, una volta iniziato l’attacco e, più in generale, lo scollamento sociale tra gli ufficiali, spesso giovani borghesi inesperti, e la truppa, spesso costituita da veterani: situazione ben diversa dai reparti tedeschi, caratterizzati da una forte coesione tra i sottufficiali e la truppa e da una classe ufficiali più esperta.
Il disastro di Caporetto può apparire ancora più grave alla luce del fatto che, in linea di massima, i comandi italiani sapevano dell’offensiva. La notizia dell’apparizione di divisioni tedesche sul fronte del medio Isonzo era nota da fine settembre. Le numerose diserzioni nel composito e multietnico esercito austroungarico (particolarmente gravi quella dei due ufficiali rumeni, avvenuta il 21 ottobre, che consegnò la tabella degli attacchi e confermò che questo sarebbero avvenuto dalla testa di ponte di Tolmino). Difatti, i soldati italiani indossavano le maschere antigas, quella notte del 24 ottobre, ed erano stati preavvertiti. Alcuni provvedimenti predisposti da Cadorna, se applicati, avrebbero potuto attenuare la sconfitta; ma scrivere una cosa su una “circolare” non la rende automaticamente vera, anzi! Non a caso, le difese italiane, che nel settembre del 1917 erano molto deboli, erano state rafforzate nel corso di ottobre.
Alla fine di questo giro d’orizzonte, è giocoforza ammettere che la scarsità del velo di truppe steso, in origine, sul fronte che il nemico aveva deciso di attaccare era stata in gran parte rimediata con i provvedimenti presi da Cadorna e Capello, Badoglio e Cavaciocchi negli ultimi giorni. Ai primi di settembre, quando Krafft von Dellmensingen [ex-comandante degli Alpenkorps e ufficiale di stato maggiore di von Below] aveva fatto il suo giro d’ispezione, i battaglioni inquadrati nelle quattro divisioni italiane schierate dal Rombon al Krad Vrh erano in tutto 45; con i rinforzi degli ultimi giorni, l’organico era salito a 57 battaglioni, uno per ogni chilometro di fronte.
Tutti questi movimenti di truppe furono spesso confusi. Si prenda ad esempio il caso della brigata Napoli, mal dislocata in difesa del monte Piatto, con troppi battaglioni nelle retrovie.

Perché dunque avvenne la sconfitta? I punti 4, 5 e 6 dell’elenco sopra si possono condensare con una spiegazione psicologica: l’esercito italiano era pronto (tatticamente e moralmente) all’offensiva, non alla difensiva. Del resto, era questo il presupposto con cui eravamo entrati in guerra: dare la spallata ad un impero morente e già impegnato su due fronti. E così era andata la guerra concepita da Luigi Cadorna, dal suo stato maggiore e dagli ufficiali. Il ribaltamento di tale concezione offensiva, a causa delle infiltrazioni tedesche, produsse sconcerto nelle truppe italiane, lasciate sole dai comandi (muti a causa dell’interruzione delle linee telefoniche) e disorganizzate dai recenti spostamenti e dalla consistenza “decimata” dei battaglioni.
Un cenno su Cadorna è doveroso. Barbero non critica eccessivamente il “generalissimo” italiano. Lo considera un buon generale, con concezioni forse antiquate ma in grado di aggiornarsi; le colpe di Cadorna sono nella sfiducia verso sottoposti e truppe (che si traduce nel dare loro poca autonomia decisionale) e nella scarsa capacità di autocritica, che inquinerà il dibattito del dopoguerra e l’operato della Commissione d’inchiesta.

Un libro di storia militare non può prescindere da un buon reparto cartografico. In questo senso, “Caporetto” brilla per la qualità delle cartine, che spesso riportano la disposizione delle truppe a livello di singolo battaglione e sono ricche di dettagli. In particolare, le carte 5-6 e 13 evidenziano un fatto indiscutibile, già accennato sopra: l’aumento delle forze italiane nel corso del medio Isonzo.
Stilisticamente, Barbero è un gradino sopra lo stile “arido” di molti libri di saggistica anglosassone (ne ho letti parecchi). Barbero scrive in modo semplice e, di tanto in tanto, inserisce le proprie considerazioni, a volte gustose a volte interessanti. Una cosa che invece non ho capito è la disposizione di alcuni capitoli: il bombardamento dell’artiglieria austrotedesca avvenuto la notte del 24 ottobre (capitolo VII), è analizzato dopo la narrazione dei primi giorni dell’offensiva (capitolo VI). Li avrei invertiti. Un altro “difetto”, se così si può dire, è il finale, a mio giudizio troppo rapido. Avrei gradito, confesso, che Barbero arrivasse almeno fino alla creazione della linea del Piave, invece di fermarsi ai primi giorni post-Caporetto (il famoso “carnevale”, cioè lo sbandamento delle truppe e i pochi giorni di clima permissivo che si crearono). L’analisi del perché l’offensiva s’arrestò sul Piave sarebbe stata molto interessante.
È un peccato perché i primi capitoli sono un’ottima introduzione alla battaglia, che viene inquadrata nel momento strategico (l’undicesime battaglia dell’Isonzo nell’estate del 1917 era stata un successo italiano); rivelatrice la descrizione del rapporto tra tedeschi e austroungarici, nonché delle personalità che allora erano nostre nemiche: dall’imperatore Carlo al generale tedesco von Below, Barbero coglie come gli austriaci “ce l’avessero” con l’Italia, considerata traditrice nonché una minaccia al porto di Trieste, vitale sbocco dell’impero.
In definitiva, un libro caldamente consigliato senza alcuna riserva.




Da sx a dx: Luigi Cadorna, Luigi Capello (comandante II armata), Otto von Below (comandante della XIV armata austrotedesca) e il cugino Ernst von Below (comandante 200a divisione tedesca).
Gli altri saggi di cui ho parlato qui!




“Quello di Alessandro Barbero è sicuramente un contributo importante per tentare di decifrare quello è stato a varie riprese definito un mistero, o un enigma; ma che rimane un arcano, e una ferita non rimarginata, nella storia dell’Italia: malgrado sia passato più di un secolo.
Caporetto sinonimo di disfatta, certo: quasi un «topos», datato Ottobre 1917; ma la prospettiva dell’approfondimento storico impone di considerare che, esattamente un anno dopo, il generale Armando Diaz avrebbe guidato le truppe italiane nella vittoriosa e decisiva Battaglia di Vittorio Veneto: per poi stilare il famoso “Bollettino della Vittoria” in data 4 novembre 1918. Un testo ben noto, scolpito nel marmo dell’Altare della Patria a Roma.
«Iniquissima haec bellorum condicio est: prospera omnes sibi vindicant, adversa uni imputatur» (Cornelio Tacito, La vita di Cneo Agricola, XXVII). La disfatta di Caporetto non sfugge a questa amara e tagliente considerazione formulata dal massimo storico della letteratura latina: una verità diacronica, attraverso i secoli e millenni.
Ma quella di Caporetto è una sconfitta che viene da lontano, e nella quale convergono diverse componenti. In primo luogo, tutte le lacune di una catena di comando inadeguata, con l’aggravante di uno scollamento tra truppe e ufficiali (spesso non all’altezza del compito). Ancora, una dottrina tattico-strategica miope e acritica, basata sul principio delle “spallate frontali”, che non teneva conto della conformazione geografica della frontiera nordorientale del Regno d’Italia.
Miope e acritica: perché non aveva saputo – o voluto – tenere conto della sanguinosa lezione del fallimento del «Plan XVII» francese sul fronte alsaziano-lorenese, con l’applicazione bellica del principio dell’imparabile «élan vital» di Henry Bergson; o, ancora prima, della spaventosa carneficina subita dai Giapponesi nell’assalto a Port Arthur nel 1904-1905, malgrado la superiorità nipponica in termini di uomini e mezzi rispetto ai Russi asserragliati nella piazzaforte assediata.
Ma miope e acritica anche perché basata sempre e solo sul principio dell’offensiva, senza che si pensasse a curare una fase difensiva idonea a contenere una possibile controffensiva avversaria. Poi, come è evidente, ci sono le responsabilità individuali, quali per esempio quelle molto pesanti – e ormai acclarate – di Pietro Badoglio.
Ma forse troppo a lungo, nella storia e letteratura divulgata, ci si è dimenticati degli avversari: dei “nemici”.
L’esercito austro-ungarico, che sul confine italiano era come detto smaccatamente favorito dalla conformazione geografica delle frontiere (dal Trentino alla Venezia Giulia), sul fronte balcanico e carpatico aveva viceversa evidenziato tutte le sue enormi lacune: con la conseguenza di clamorosi successi da parte dei Serbi e dei Russi. E anche la cosiddetta “Offensiva di Primavera” del 1916 (nota anche «Strafexpedition»), proprio sul fronte italiano, si era risolta in un sostanziale fallimento.
Ma a Caporetto c’erano anche i Tedeschi: quelle truppe del Secondo Reich, molto meglio preparate ed addestrate, che proprio sul fronte russo avevano colto clamorose vittorie (nella zona dei Laghi Masuri) e che a ovest – malgrado il tradimento e mancata integrale applicazione del Piano Schlieffen da parte degli Alti Comandi, con la conseguente stagnazione della guerra di trincea – erano stabilmente attestate in territorio francese. Truppe tedesche che era stato possibile schierare sul fronte italiano facendo seguito al collasso del fronte orientale: l’armistizio di Brest-Litovsk sarebbe stato firmato solo nel febbraio del 1918, ma anche anteriormente allo scoppio della rivoluzione leninista l’esercito russo – nell’interregno del Governo Provvisorio di Kerenskij – aveva ormai di fatto cessato di rappresentare una minaccia credibile.
Il bluff di quello che alla vigilia del conflitto era stato definito “il rullo compressore russo” era stato prontamente svelato già nel primo mese di guerra, quando Hindenburg aveva annientato la Seconda Armata di Samsonov, a Tannenberg; arrivati ormai al terzo anno di una guerra totalmente impopolare, era arrivata l’ora del «redde rationem».
Inoltre, tra i comandanti tedeschi, proprio a Caporetto spiccò già il decisivo contributo della abilità tattica di un giovane Erwin Rommel, all’epoca Primo Tenente del CXXIV Battaglione da Montagna del Württemberg («Alpenkorps»): quel Rommel che un quarto di secolo dopo si sarebbe meritato il soprannome di “Volpe del Deserto” tra la Tripolitania e la Cirenaica.
Proprio la lettura della “versione dei nemici”, degli avversari vittoriosi in questo caso (come le memorie del generale tedesco Otto von Below), può essere un importante tassello per poter ricostruire e comprendere questa vicenda nel suo complesso. Allo stesso modo, molto importante la lettura di contributi diversi, non di tipo strettamente saggistico o militare, che riflettono il “sentire” della gente comune o della classe intellettuale: paradigmatico, a tale riguardo, il “Taccuino di Caporetto” di Carlo Emilio Gadda.
Caporetto rimane pertanto un tema di studio ed approfondimento: non solo a livello accademico e/o storiografico, ma proprio anche come un qualcosa che è rimasto impresso nel tessuto collettivo stesso del popolo italiano.
La approfondita ed esaustiva recensione proposta da Vladimiro Maccari del libro di Alessandro Barbero si configura come un contributo in più in questa direzione. Un ultima annotazione: nell’articolo si richiama la rilevanza centrale delle cartine geografiche negli studi di approfondimento storico; a riprova della fondatezza di tale principio, ad esempio, era e rimane comune l’espressione di “Paesi dell’Est” o di “Blocco Orientale”: poi, cartine alla mano, ci si rende conto facilmente del fatto che Vienna è geograficamente posta più a oriente di Praga.
Oggi, Caporetto si chiama Kobarid: e non è in Italia ma in territorio sloveno, dopo la ridefinizione del confine giuliano-istriano al termine della Seconda Guerra Mondiale…”
Così ci scrive l’ottimo Stefano Basilico in un commento su Facebook.
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