Cesare e Napoleone – Aggiramento strategico

di Vladimiro Maccari e Crescenzo Dassi*


Introduzione

La storia militare offre esempi di grandi condottieri di ogni epoca che riuscirono, con una manovra azzardata e spesso ritenuta impossibile, a ribaltare una situazione strategica sfavorevolissima. In questo articolo analizziamo due esempi: il valico in pieno inverno dei monti Cevenne da parte di Gaio Giulio Cesare al principio della rivolta di Vercingetorige (anno 52 a.C.) e l’attraversamento delle Alpi da parte del primo console Napoleone Bonaparte durante la campagna d’Italia, che culminò nella battaglia di Marengo (14 giugno 1800) contro le forze austriache della Seconda Coalizione.


Cesare sulla neve delle Cevenne

53-52 a.C. – I prodromi della rivolta

Alla fine dell’anno 53 a.C., sesto anno della campagna di conquista, Cesare fece ritorno come di consueto in Italia, dove lo impegnavano le incombenze amministrative della provincia della Cisalpina nonché le preoccupazioni per la situazione politica di Roma, in cui gli scontri tra fazioni avevano raggiunto l’acme con la violenta morte del “tribuno” Publio Clodio, nel gennaio del 53 a.C. In Gallia Cesare aveva lasciato, come di consueto, le proprie forze (10 legioni) sparse nei territori più in pericolo: due presso i Treveri, due presso i Lingoni e le restanti nella terra dei Senoni: abbastanza vicine, comunque, da potersi aiutare le une con le altre. Tale schieramento era però molto diverso da quello adottato nell’inverno dell’anno precedente quando, al ritorno dalla seconda spedizione in Britannia, Cesare aveva sparso singole legioni su un territorio più ampio; tale scelta aveva però condotto al disastro di Atuatuca, in cui la tribù degli Eburoni aveva massacrato quindici coorti (l’equivalente di una legione e mezza).

La risposta di Cesare era stata spietata – gli Eburoni vennero sterminati – ma non evitò una nuova rivolta, aizzata forse anche dai druidi che, dopo aver indirettamente supportato Cesare nei primi anni, diventano invece istigatori contro il dominio romani.

Nell’inverno successivo (53-52 a.C.) i Galli trovano un valido condottiero: Vercingetorige, nobile di discendenza reale ma da qualche tempo messo ai margini della politica del proprio popolo, gli Arverni. Egli conosce tattiche e strategie del nemico perché, probabilmente, ha militato tra le fila romane come ufficiali degli ausiliari. Vercingetorige agisce tempestivamente per cogliere Cesare di sorpresa. Il suo obiettivo è convincere le ultimi grandi tribù restie alla rivolta ad unirsi a lui: per raggiungere ciò, deve dimostrare di essere più forte dei Romani; inoltre, deve impedire a Cesare, ancora in Italia, di ricongiungersi con le proprie legioni.


Le prime mosse di Vercingetorige

La prima mossa è affidata ai Carnuti, nel cui territorio è situato il santuario centrale della religione druidica ed epicentro della rivolta. La comunità romana di Cenabum, costituita da mercanti, viene massacrata e i suoi magazzini, fondamentali per la logistica romana, dati alle fiamme.

La seconda mossa vede coinvolto lo stesso principe degli Arverni in prima persona: invadere la terra dei Biturigi, ricca di risorse e città fortificate e finora non toccata dalla guerra. Gli Edui, che dei Biturigi sono patroni e che, inoltre, in qualità di “amici del popolo romano” sono tra i principali alleati di Cesare, inviano dei soccorsi, che però, intimoriti o forse già corrotti dall’oro arverno (messo a disposizione, si ritiene, dai druidi), si arrestano di fronte al fiume Loira, prima di entrare nel territorio dei Biturigi.

Vercingetorige acquisisce così il supporto di un altro popolo alla causa della libertà gallica.

Intorno a febbraio Cesare, impegnato anche nei reclutamenti di nuove leve, riceve tutte queste preoccupanti notizie. Al tempo stesso, gli viene comunicato che Gneo Pompeo ha risolto i conflitti interni di Roma; Cesare è dunque libero di partire per la Gallia.

La marcia del proconsole è come al solito tempestiva: le truppe che lo seguono devono aver marciato in assetto leggero, percorrendo con ogni evidenza la via litoranea. Arrivato probabilmente ad Arelate (attuale Arles), Cesare è di fronte ad un dilemma all’apparenza insolubile, come confessa egli stessa nei Commentarii:

Cesare si trovò in grave imbarazzo, non sapendo come riunirsi al proprio esercito: se avesse dato l’ordine alle legioni di riunirsi nella Provincia, era certo che i Galli le avrebbero attaccate durante la marcia, mentre egli era ancora lontano; d’altra parte, se avesse cercato di raggiungere lui stesso le legioni, sarebbe esposto a serio pericolo, non giudicando prudente, in quel momento, affidarsi neppure ai popoli che sembravano tranquilli.

Un’ulteriore notizia giunge ad aggravare la situazione: un’altra forza gallica, che Vercingetorige ha affidato a Lucterio (definito “uomo di grande audacia”) ha razziato le terre dei Ruteni, nei pressi di Narbo Marzio (attuale Narbonne), capitale della provincia. Tale incursione rivela la vastità della visione strategica del principe degli Arverni, che ha concepito diverse operazioni simultanee volte a paralizzare la risposta romana.

Altrettanto degna è la risposta di Cesare, che divide le proprie forze. Con una parte di esse accorre nella città minacciata, dove raduna altre forze: Narbo è una colonia militare romana, la prima fuori dall’Italia; le tribù dei dintorni sono ancora fedeli a Roma. Tale azione è sufficiente ad indurre Lucterio a desistere dalla puntata offensiva. L’altra parte, comprese le reclute appena giunte dall’Italia, viene preventivamente inviata nella terra degli Elvi, situata lungo il corso del Rodano, ai piedi delle montagne. Ed è proprio qui che Cesare, dopo aver assicurato la difesa della Provincia, si reca con l’intenzione di assestare un colpo “psicologico” al nemico.

Cesare tra le nevi del Massiccio Centrale

Le Cevenne oggi, in inverno.

Il Massiccio Centrale occupa ancora oggi, con le sue aspre colline e le sue montagne, una vasta area della Francia centrale e meridionale. Le Cévennes ne costituiscono i rilievi più aspri e imponenti, perché dalla valle del Rodano, che dominano, arrivano ad affacciarsi dopo centinaia di chilometri fin sul Mediterraneo. Sono costituiti da una serie di vulcani spenti, perciò la terra èmolto fertile e adatta all’allevamento come alla silvicoltura. Gli inverni sono rigidi ma le estati sono calde; il loro attraversamento non costituisce un problema nella bella stagione, ma in quella cattiva le nevi bloccano i passi.

Non per Cesare, però. Abbiamo detto che egli aveva mandato delle forze presso la tribù degli Elvi, stanziate al di qua dei monti e alleati di Roma. Senza dubbio, gli Elvi devono aver fornito al proconsole scorte sufficienti per l’impresa e guide affidabili per imboccare i giusti valichi.

Non abbiamo certezze sul percorso seguito dal condottiero: sicuramente, tuttavia, egli affrontò un dislivello intorno ai 1200-1400 metri nel giro di una settantina di chilometri, divisi in non meno di tre o quattro tappe giornaliere, che lo portarono dall’insediamento di Alba (oggi Alba-la-Romaine nel dipartimento dell’Ardèche) alle terre del popolo dei Vellavi, tributario degli Arverni, nei pressi dell’attuale Le Puy-en-Velay, oggi nel dipartimento dell’Haute-Loire, ovvero dell’Alta Loira.

Quali forze aveva a disposizione? È difficile che Cesare abbia portato con sé più di un migliaio di uomini. Tra essi dovevano esservi alcune centinaia di reclute di fanteria portate dall’Italia, cavalleria ausiliaria reclutata tra le tribù galliche alleati e gli uomini del proprio seguito: ai primi fu demandato il faticoso compito di spalare la neve:

I soldati, spalata la neve per una profondità di sei piedi, si aprirono le vie con grande fatica e Cesare arrivò ai confini degli Arverni.

Alla cavalleria, invece, superati i monti, Cesare ordina di compiere “raid” distruttivi, con il puro scopo di terrorizzare la popolazione locale.

Qui, presi i nemici alla sprovvista, perché essi pensavano di essere protetti dalle Cevenne come da un muro e mai neppure un uomo isolato era riuscito ad aprirsi un sentiero d’inverno, diede ordine ai cavalieri di aggirarsi nel più vasto raggio possibile e di terrorizzare i nemici.

Le forze di Cesare sono scarse e la stagione inclemente perché tali raid possano fare danni ingenti; ma non è un effetto materiale che Cesare cerca, bensì uno psicologico. La notizia della propria apparizione improvvisa nella terra degli Arverni atterrisce il nemico, che costringe Vercingetorige ad interrompere la propria puntata offensiva presso i Biturigi. Proprio l’effetto che Cesare cercava: dopo soli due giorni egli lascia le truppe al comando di Decimo Bruto (futuro cesaricida), riattraversa le montagne, risale il Rodano, raggiunge Vienne, dove ritrova forze di cavalleria precedentemente inviate e attraversa la terra degli Edui per raggiungere quella dei Lingoni, dove sono acquartierate due legioni: da qui, riesce a richiamare le altre legioni.

È molto probabile che se l’esercito di Vercingetorige non avesse dovuto ritirarsi dalla terra dei Biturigi, la fedeltà degli Edui sarebbe venuta a meno (come accadde in effetti di lì a poco); le stesse truppe dell’arverno avrebbero potuto tendere un’imboscata al proconsole romano.

Dunque, senza combattere alcuna battaglia, ma con una semplice manovra coinvolgente poche centinaia di uomini, Cesare, tramite quella che potremmo chiamare una “leva psicologica”, ottenne un effetto strategico importantissimo: costrinse il nemico, che era passato all’offensiva su più fronti, alla difensiva; si ricongiunse alle proprie forze; con la propria apparizione nel cuore del territorio arverno, atterrì i nemici. Con le proprie truppe al completo Cesare poté dare inizio alla campagnadell’anno 52 a.C. che avrebbe portato a grandi battaglie come Avarico, Gergovia e infine Alesia.

Vercingetorige si arrende a Cesare, dipinto di Lionel Royer.

Napoleone e l’armata di riserva

Bonaparte valica le Alpi, di Paul Delaroche.

Situazione strategica nel maggio 1800

Al compimento del colpo di stato del 18 Brumaio (9 Novembre) 1799, se c’era una promessa, tra quelle fatte da Napoleone, a cui i francesi più tenevano, quella era la pace. Per sette lunghi anni la Francia rivoluzionaria si era trascinata in una guerra solitaria contro il resto d’Europa ed ora la popolazione era stanca di combattere.

Durante tutto l’inverno 1799 i diplomatici francesi si impegnarono seriamente ad instaurare trattive di pace con i due nemici più inflessibili della Rivoluzione, la Gran Bretagna e l’Austria, senza però ottenere alcun risultato. Troppo esigue furono le garanzie offerte da Napoleone e troppo alta la diffidenza dei suoi ostinati avversari perché i negoziati potessero avere successo.

L’Europa centrale dopo la pace di Campoformio (1797).

Dunque sarebbe stata guerra ancora una volta:

“Lo scopo della Repubblica nel fare la guerra è quello di ottenere la pace”

sentenziò Napoleone.

Con la Gran Bretagna a quel tempo ancora incapace di prendere parte seriamente ad operazioni di terra (come invece sarà in grado di fare a partire dal 1808 in Spagna), l’Austria era l’unica nazione che disponesse di un esercito pronto a minacciare fin da subito i confini francesi. Era contro la potenza asburgica dunque, che dovevano concentrarsi ora le attenzioni di Napoleone.

Negli scontri tra Austria e Francia in quegli anni due erano i teatri d’azione degli eserciti.

Il primo era il Reno, il grande fiume che segnava il confine tra la Francia e la galassia di staterelli tedeschi che orbitavano intorno alla sfera d’influenza austriaca. Siccome da lì era possibile aprirsi una via diretta tanto per i francesi verso Vienna quanto per gli austriaci verso Parigi, quello era sempre stato considerato il fronte più importante.

Il secondo era il Nord Italia. Da lì gli austriaci potevano sperare di invadere Nizza e accedere al sud della Francia, mentre i Francesi potevano, a patto di attraversare tutta la pianura padana, sperare di raggiungere Vienna da Sud. Essendo il fronte più lontano dalle rispettive capitali, questo era stato sempre ritenuto secondario fino a quando Napoleone stesso nella prima Campagna d’Italia del 1796/1797 non aveva dimostrato il contrario.

Nella primavera 1800 Napoleone doveva dunque decidere dove concentrare i suoi sforzi. La sua prima idea fu quella di rispettare l’ordine classico delle cose; concentrare le forze sul Reno per raggiungere rapidamente Vienna mentre teneva in Italia una forza secondaria che non doveva far altro che resistere e proteggere il sud della Francia dall’invasione austriaca.

Tuttavia, nella sua carica di primo console, Napoleone non aveva ancora abbastanza potere per agire liberamente. Il generale nominato per guidare l’iniziativa sul Reno, Jean Moreau, suo acerrimo e potente rivale, osteggiò in ogni modo i suoi piani fino a farli fallire. In Italia, invece, a comandare le truppe c’era un suo fedelissimo: André Massena. Così, alla fine, Napoleone cambiò i suoi piani in corsa. Parlando di Moreau disse: “Ciò che egli non osa fare sul Reno, io lo farò sulle Alpi”


Lo scenario italiano

Per le operazioni in Italia, Napoleone elaborò una spettacolare applicazione di “manoeuvre sur les derrieres” o “movimento sui fianchi”. Una manovra con la quale, mentre da un lato teneva occupato il nemico su un elemento di distrazione, dall’altro lo aggirava per tagliarli le vie di comunicazione alle spalle. Era la sua manovra classica, già utilizzata in altre occasioni e poi riproposta ancora più e più volte durante tutta la sua carriera. L’obiettivo era sempre lo stesso: gettare nel panico il nemico che vedeva all’improvviso un esercito sbucargli alle spalle.

In questo caso, la distrazione per gli austriaci, sarebbe stata rappresentata dall’Armata d’Italia di Massena, di stanza in Liguria, mentre la forza aggirante sarebbe stata l’Armata di Riserva guidata da Napoleone stesso.

L’Armata di Riserva era un’altra di quelle invenzioni di Napoleone che dimostrano la sua capacità di adattarsi ad ogni situazione. Si trattava di una forza creata solo qualche mese prima e collocata in Svizzera, ovvero esattamente al centro tra il fronte tedesco e quello italiano. Insomma un jolly che all’occorrenza poteva intervenire sia dall’una che dall’altra parte, e che ora il primo console voleva usare per penetrare in Italia dalle Alpi, sbucando inaspettatamente alle spalle delle forze austriache in Liguria.

Il suo segretario, Bourrienne, racconta il momento in cui Napoleone, inginocchiato, come suo solito, sulle carte geografiche, preparando il piano d’attacco indicò il villaggio di San Giuliano e affermò:

“Combatterò qui, nella piana dello Scrivia”.

Il villaggio in questione era a soli 5 km ad est di Marengo.

Insomma, se quanto riporta Bourrienne è vero, Napoleone aveva già perfettamente previsto l’andamento della campagna.


Il passaggio delle Alpi

Mentre Napoleone rifletteva sulle sue carte furono però gli austriaci a muovere per primi. Anche gli strateghi asburgici, infatti, avevano puntato la loro attenzione sul fronte italiano e avevano affidato al generale Melas una forza che contava più di 100.000 unità con cui spazzar via i 35.000 uomini dell’Armata d’Italia di Massena.

Il 5 Aprile Melas diede inizio alle ostilità riscuotendo subito una serie di successi. Solo due settimane dopo, Massena, isolato e circondato, si rintanava a Genova. Con gli austriaci fuori e la flotta britannica che bombardava la città dal mare, si apriva così uno degli assedi più feroci delle guerre napoleoniche.

Il valico del Gran San Bernardo.

L’ordine di Napoleone per Massena fu solo uno:

“Conto su di voi per resistere fino al 20 maggio”.

L’assedio di Genova era il diversivo perfetto. L’attenzione di Melas era tutta concentrata sulla Liguria e non si sarebbe accorto di quello che succedeva alle sue spalle fino a quando non sarebbe stato troppo tardi. A patto però che Massena avesse resistito.

Intanto, il 15 Maggio, finalmente, i 50.000 uomini dell’Armata di Riserva erano pronti a Ginevra per iniziare l’attraversamento delle Alpi. Si trattava di un’impresa non da poco. La stagione era ancora prematura per il passaggio e i valichi erano ricoperti di neve. Far passare i pesanti pezzi d’artiglieria, poi, sarebbe stata una sfida che avrebbe richiesto tutto l’ingegno degli ufficiali dell’armata. Anche la strada che avrebbe preso il grosso delle forze, quella del Gran San Bernardo era la più stretta tra quelle disponibili ma anche la più veloce e, con gli uomini di Massena che facevano la fame a Genova, il tempo scarseggiava.

Nonostante tutto, il passaggio fu un successo. Per i cannoni vennero costruite apposite slitte in modo da poter scivolare sulla neve e agli uomini venne distribuito aceto con cui compensare i problemi digestivi generati dal bere la neve. Le truppe salirono fino a 2188 metri di altezza e poi ridiscesero giù. Il 16, le prime avanguardie erano già ad Aosta.

A dispetto dei trionfali dipinti di David, Napoleone si mise in moto solo il 20 Maggio, a dorso di mulo, per ricongiungersi con l’Armata che aveva ormai già terminato la traversata.

Scrisse al fratello Giuseppe:

“Siamo discesi come un fulmine. Il nemico non ci aspettava e sembra ancora incapace di credervi.”

In effetti Melas faticava a realizzare cose stesse succedendo continuando a focalizzarsi su Genova. Intanto, il 2 Giugno Napoleone entrava a Milano. Due giorni dopo, il 4 Giugno, Massena, con i capelli ormai ingrigiti per la tensione, si arrendeva. Aveva tenuto Genova per tutto il tempo di cui aveva avuto bisogno Napoleone e ora poteva chiedere una pace onorevole.

L’Armata di Riserva era infatti ormai giunta “nella piana dello Scrivia”, alle spalle di Melas. Il generale austriaco ora non poteva far altro che tornare indietro e affrontare Napoleone per riaprire le sue linee di comunicazione. Lo scontro decisivo si sarebbe tenuto il 14 Giugno nella piana di Marengo.


Conclusione

I due episodi riportati, pur lontani più di milleottocento anni l’uno dall’altro, dimostrano l’importanza in ambito strategico di due dimensioni: quella spaziale e quella morale.

È, infatti, abbastanza evidente come i piani strategici vengano elaborati con la carta geografica alla mano cercando di sfruttare al meglio la natura del suolo in cui ci si muove. Una catena montuosa come i monti Cevenne o le Alpi, possono rappresentare al tempo stessa una barriera per un esercito ma anche una copertura capace di schermarne i movimenti agli occhi del nemico.

Napoleone davanti al corpo senza vita del generale Desaix, di Jean Broc.

Ma l’uso dello spazio non è che strumentale alla dimensione morale della strategia. La guerra è fatta da uomini in carne ed ossa, con le proprie emozioni e il proprio carattere. Scuotere le emozioni del nemico, sorprenderlo, spaventarlo spesso è il modo migliore per costringerlo ad una decisione imprudente, a perdere il controllo e magari ad arrendersi.

Cesare e Napoleone nel corso delle due campagne narrate hanno agito con questo stesso obiettivo finale in mente e per farlo si sono serviti dello spazio in maniera molto simile: accettando il rischio di una traversata montana per piombare alle spalle di un nemico sicuro del suo vantaggio iniziale.

Come scrisse Napoleone riferendosi alla vittoria di Cesare a Munda:

“C’è un momento in combattimento in cui la minima manovra è decisiva e stabilisce una superiorità; è la goccia d’acqua che dà avvio all’inondazione”


*Crescenzo Dassi è nato a Napoli ormai più di 30 primavere fa. Ingegnere per professione, ha sempre coltivato la passione per per la storia. Nel settembre 2021 ha fondato la pagina IG Crash’s History dove racconta i dettagli della storia militare napoleonica.

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Consigli di lettura

Risorse (in francese) sull’attraversata delle Cevenne:
https://www.gr70-stevenson.com/fr/massif.htm (il massiccio delle Cevenne oggi);
http://www.cesargaulois.fr/3—les-petites-batailles/traversee-des-cevennes (ipotesi di ricostruzione del percorso seguito da Cesare).

Un pensiero su “Cesare e Napoleone – Aggiramento strategico

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