
In questo libro – spiega Mazzarino – si cerca, da una parte, di delineare una storia delle idee di “decadenza” e di “morte di Roma” com’esse furono intuite e svolte dal II secolo a. C. ai nostri giorni; dall’altra, di dare un’interpretazione moderna della rovina del mondo antico, attraverso la critica e la discussione delle varie soluzioni e ipotesi. Credo che, considerato in questo suo duplice aspetto, il tema della “morte di Roma” presenti un particolare interesse: sentiamo il bisogno così di percorrere il cammino delle idee di “decadenza” e “fine” del mondo antico, come di chiederci ancora, per nostro conto, quale spiegazione di quella “fine” appaia, all’uomo di oggi, necessaria e sufficiente.
Ok, lo ammetto. La prima volta che seppi di Santo Mazzarino fu in libreria e ovviamente pensai: ma è il cardinale che compare nel seguito de “I tre moschettieri”? Superato lo sbalordimento dell’ignorante, conobbi uno dei più grandi storici e classicisti italiani di sempre. Il che mi ha frenato dal leggerne qualcosa. Troppo grande lui e troppo ignorante io. Alla fine scopro nella biblioteca comunale una copia di questo “La fine del mondo antico”, che ha il privilegio di non essere una storia generalista dell’impero romana. La lunghezza non è “imperiale” ma ciò non toglie che i suoi contenuti, per profondità e densità lo siano.
Il saggio è del 1959. La Storia, al contrario di una scienza matematica quale la Fisica, dipende fortemente dallo stato della ricerca archeologica e/o filologica e dalla mentalità dell’epoca in cui vive lo storico. Una storia dell’impero romano scritta oggi è diversa da una scritta cent’anni fa. Gibbon, in pieno illuminismo, attribuiva al cristianesimo la fine dell’impero e vedeva la storia bizantina come una decadenza lunga mille anni.
“L’attualità di un classico non si misura in base alla date delle opere citate” dice Pietro Citati nella premessa del libro. Così come oggi si continua a leggere Gibbon, si può e si deve continuare a leggere Mazzarino.

Il libro è diviso in due parti. Nella prima si ha una “storia dell’idea di decadenza” dall’antichità in poi. Mazzarino parte da lontano, dai sumeri e dalla caduta delle loro città stato, passando per la guerra del Peloponneso (“una guerra tra greci come mai si era vista” dice all’incirca Tucidide) e il concetto etrusco dei saecula. Mazzarino rileva come la decadenza, per i Romani, fu fino al basso impero una faccenda eminentemente interna: corruzione dei costumi dopo le guerre puniche (Polibio, Catone) e fine della libertà repubblicana per mano di Augusto (Tacito, Seneca, Livio). Furono i cristiani, per primi, ad immaginare una possibile fine per cause esterne dell’impero. Pensatori e padri della chiesa interpretarono in tal senso le profezie bibliche (le “dieci nazioni” profetizzate al tempo della cattività babilonese degli ebrei e la teoria dei “quattro impero universali”) o evangeliche. L’impero poteva cadere (Orosio, Agostino, Eusebio), anche se ciò non era più auspicabile dopo Costantino, e qualcosa poteva sorgere al suo posto: il messaggio cristiano andava condotto anche presso i barbari. Questo, secondo Mazzarino, fu alla base dell’impulso cristiano di convertire i barbari, che condusse alla formazione dei regni romano-barbarici.
Nella seconda parte Mazzarino affronta una serie di specifiche tematiche che, almeno ai suoi tempi, erano d’avanguardia nello studio della fine del mondo antico. Riporto alcune considerazioni interessanti.
La religione
Mazzarino data il momento decisivo della “conversione di un intero mondo” non a Costantino, quando i giochi erano già decisi, ma al cinquantennio che va da Commodo ai Severi. “I cristiani erano la grande minoranza creativa e la storia dell’epoca nuova era tessuta dalla loro costruzione nuova.” Il mondo pagano resisteva solo sul piano formale, non su quello spirituale. “Si vivono due vite: l’una pigramente appollaiata sulla tradizione, l’altra di spiriti più o meno decisamente rivoluzionari.”

Il matrimonio
Mazzarino spiega che fu il cristianesimo ad infondervi nuovo significato. Per i greco-romani il matrimonio era una banale unione d’affari volto alla procreazione. Fu il cristianesimo a dare alle donne il potere di scegliere. Mazzarino si dilunga sullo spiegare come la vecchia opinione pubblica pagana vedesse con orrore l’unione tra donne di rango senatorio e uomini di rango inferiore; divieto rotto dal cristianesimo. E’ un capitolo interessante perchè, negli ultimi decenni, la storiografia si è sviluppata in senso diverso: gli storici (e le storiche, si pensi ad Eva Cantarella) hanno spiegato come la donna romana visse una certa emancipazione nel periodo tardo-repubblicano ed alto-imperiale grazie all’acquisizione del diritto ereditario, emancipazione che poi perse in epoca tardo-imperiale.
Lo schiavo
Qui Mazzarino ricostruisce l’evoluzione sociale dei ceti più umili. I processi economici provocarono da un lato l’appiattimento delle masse contadine verso il basso (il colonato) e dall’altro un leggero sollevamento della condizione schiavile. Ciò porto alla nascita di un nuovo, larghissimo ceto legato in modo indissolubile alla campagna, futura base della servitù della gleba.
L’economia
Mazzarino illustra la convivenza, difficile, tra l’economia monetaria e quella in natura. La qualità della moneta si abbassò nel III secolo e fu risollevata solo da Costantino con il solidus aureo. Lo stato preferiva il pagamento in natura perchè di “valore sicuro”; i cittadini preferivano pagare le tasse in moneta, perchè potevano usare le monete “cattive.” Ciò comportò la crisi dei commerci e la reciproca sfiducia tra potere e sudditi, in particolare presso le masse rurali della Gallia e della Siria; quest’ultimo fenomeno si legò, in modo forte, al risveglio nazionale ed etnico delle nationes oppresse dall’impero (l’esempio è la rivolta dei Bagaudi).
Le “nationes”
L’impero fu greco e latino. Soltanto queste due culture furono ammesse come “cultura di stato.” Ciò portò alla compressione di altre culture, che pure avevano espresso una civiltà propria: la punica, la siriaca e la celtica. La storia a cavallo tra II e III secolo è la storia del tentativo dell’elitè imperiale di includere veramente queste nationes nell’impero: l’editto di Caracalla rappresenta in tal senso il supremo sforzo, destinato però al fallimento, perchè l’impero (cioè, le sue elitè) non potevano accettare che culture estranee a quella greco-romana fossero pari ad essa. Mazzarino individua quindi in questa frattura un punto in cui il cristianesimo operò, inserendosi in pochissimo tempo laddove per secoli i romani non erano riusciti ad intaccare. La nuova libertas cristiana poteva raggiungere rapidamente ogni ceto sociale.
E’ un capitolo interessante. La sensibilità odierna vede nell’impero il primo esempio (riuscito) di globalizzazione; tale visione in Mazzarino è del tutto assente. Ciò non è dovuto soltanto alla sempice inesistenza del concetto di globalizzazione ai suoi tempi. Mazzarino dice chiaramente che da un lato c’era l’impero, greco e romano, dall’altro le nationes conquistate, costituite dalle elitè locali (che partecipavano all’impero nel grado con cui abbandonavano la propria cultura) e le masse dei ceti più umili (su cui l’impero ebbe sempre pochissima influenza, per lo più di tipo oppressivo).
Conclusione
Mazzarino fa notare come la caduta dell’impero romano (o più in generale, la fine del mondo antico) pur non essendo stato l’unico esempio di “fine di un mondo”, è però quella che ci ha colpito di più. Ogni epoca, secondo la sua sensibilità, porterà una visione diversa della fine di quel mondo e ne troverà ispirazione per capire meglio se stessa. Alcuni, infatti, hanno persino negato l’esistenza di una discontinuità e dell’esistenza di un prima e di un dopo l’impero romano.
Dunque, a chi è consigliata quest’opera? A chi ha buona conoscenza di storia romana e di storiografia sulla romanità. E’ consigliato aver già letto e meditato altri testi storiografici in modo da aver fatto il callo a certi ragionamenti. In tal caso, si scoprirà un libro breve ma denso di spunti e riflessioni.
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