2 agosto 216 a.C. – Il disastro di Canne e la riscossa di Scipione

«Sulla mia coscienza, non abbandonerò la repubblica del popolo romano e non permetterò che lo abbandoni un altro cittadino romano; se consapevolmente verrò meno al giuramento, allora, Giove Ottimo Massimo, possa tu dare la morte più orribile a me, alla mia casa, alla mia famiglia e a ciò che possiedo. Pretendo che tu, Lucio Cecilio, e tutti voi altri che siete qui, giuriate secondo questa formula; chi non giurerà, sappia che questa spada è stata sguainata contro di lui!».

Publio Cornelio in Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, libro XXII, 50
Presunto busto di Scipione (probabilmente un sacerdote di Iside), Musei Capitolini

Antefatto

La sconfitta di Canne non fu soltanto uno dei peggiori disastri militari della storia romana in termini di perdite umane – sempre secondo Livio, quel giorno morirono 45mila soldati tra romani e alleati, 19mila furono fatti prigionieri, soltanto 15mila trovarono la salvezza – e non spezzò soltanto il prestigio e l’autorità di cui Roma godeva presso i popoli italici, ma fu anche un colpo durissimo alla mentalità e allo spirito della res publica. Noi, uomini moderni, attribuiamo il successo di Roma alla potenza del suo esercito, alle sue leggi, alla concessione della cittadinanza e a molti altri fattori; i Romani, stessi, invece, ponevano come spiegazione del proprio imperium il rispetto dei riti trasmessi dagli antenati e, quindi, la “pace con gli dèi.” La sconfitta di un doppio esercito consolare nella piana di Canne non aveva spiegazioni plausibili; non ci si poteva appellare alla perfidia del punico, alle sue imboscate (Trasimeno) o agli stratagemmi di vario tipo (Ticino e Trebbia). Romani e Cartaginesi s’erano affrontati in campo aperto e, nonostante la superiorità di forze della res publica, Roma era stata letteralmente annientata.

Dopo la sconfitta, i pochi superstiti si rifugiano nei due accampamenti sulle opposte rive dell’Ofanto. Annibale prende d’assalto il minore, che s’arrende senza opporre resistenza. Dietro cospicuo riscatto, Annibale lascia i superstiti liberi di andare con soltanto un vestito addosso e s’appropria di ogni genere di armi e bottino. Volge poi la sua attenzione al campo maggiore, che sorgeva a nord del fiume. Circa 4000 e 200 cavalieri riescono a fuggire in armi prima che giunga il punico. Il folto gruppo, sbandato e privo di ordine, trova rifugio a Canosa, città alleata di Roma. Gli abitanti del luogo offrono un tetto ai sopravvissuti, ma è per merito di una nobildonna locale, Busa, che essi ricevono anche frumento e nuove vesti. I sopravvissuti, così rifocillati, eleggono a proprio capo, data l’assenza di consoli o ex-magistrati, il tribuno militare Publio Cornelio Scipione, figlio e nipote di ex-consoli e in quel momento al comando dell’esercito in Iberia.

Sopra, mappa della battaglia e una illustrazione di Igor Dzis.

Crollo e riscossa

É proprio qui, nel primo momento di pace dopo il massacro, che ha luogo il primo “cedimento” del morale romano. Ricordiamo che questi soldati sono appena usciti da un massacro di proporzioni mai viste prima, ad opera di un nemico già più volte trionfatore. Mentre Scipione, allora appena ventenne, e gli altri tribuni presenti (Q. Fabio Massimo figlio del “Temporaggiatore”, L- Publicio Bibulo e Appio Claudio Pulcro) sono in consiglio vengono informati che…

…certi giovani nobili, di cui il più ragguardevole è L. Cecilio Metello, pensano al mare e alle navi, per disertare presso qualche re, una volta abbandonata l’Italia.

La notizia scuote il consiglio, che vacilla:

Questo pericolo, oltre che terribile, anche senza precedenti pur in aggiunta a tante sventure, aveva agghiacciato i presenti, nella paralisi dello sbalordimento e della paura, ed essi erano del parere che si dovesse convocare un consiglio di guerra sulla questione…

Non di questo avviso è Scipione, che prende con energia la situazione in mano.

“Nulla verius, quam ubi ea cogitentur, hostium castra esse.”

“Nessun accampamento è più nemico di quello in cui si covano tali pensieri.”

Commenta così, con felice formula, Tito Livio. Scipione ne è perfettamente consapevole. Si reca nell’alloggiamento di Metello, interrompe il conciliabolo dei giovani, sguaina la propria spada e pronuncia le parole che ho riportato sopra. Non a caso, viene evocato Giove Ottimo Massimo, il dio supremo.

L’effetto è assicurato.

Atteriti come se si trovassero al cospetto di Annibale vincitore, giurano tutti e sono essi stessi a porsi sotto la custodia di Scipione.

Lo so, il Giuramento degli Orazi di David non c’entra niente, ma la scena non sarà poi differita molto…

Poco dopo, giunse notizia che almeno un console era sopravvissuto al massacro e aveva radunato altri superstiti a Venosa: si tratta di Terenzio Varrone, tra i responsabili del disastro, ma che, tornato a Roma con i resti dell’armata, verrà dal Senato ringraziato per non aver dubitato della patria all’apparenza perduta.

La sconfitta di Canne fu l’apice del genio di Annibale: un esempio tattico che avrebbe affascinato storici e generali per molti secoli. La reazione a tale disastro, tuttavia, fu anche un tributo alla caparbietà romana, che non vacillò neanche di fronte ad una così tragica sconfitta, l’ennesima dopo soli tre anni di guerra e decine di migliaia di morti.

Per Annibale e Cartagine la Nemesi sarebbe arrivata quattordici anni dopo, nella pianura di Zama, quando l’esercito romano, guidato dallo stesso Scipione e costituito proprio dalle legioni sconfitte a Canne, avrebbe posto fine alla guerra.


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