di Matteo Nasi
Quante volte vi è capitato di alzare gli occhi verso la volta celeste in una limpida nottata estiva (magari durante un campeggio in montagna) e affermare davanti ai vostri amici “Ehi! Hai visto? Ho appena visto sfrecciare un UFO in cielo!”. È successo anche a me ovviamente. L’ignoto, l’inspiegabile ha affascinato da sempre l’essere umano; dal mito antico del Minotauro fino al leggendario continente di Atlantide citato persino da Aristotele in uno dei suoi scritti.
Torniamo ai nostri dischi volanti e affini. Attorno a questo mito nel corso del secolo precedente, si è formata la famosa “Teoria degli antichi astronauti”. Come afferma lo storico Marco Ciardi nel suo libro Il mistero degli antichi astronauti:
“Per raccontare questa storia, la cosa migliore da fare è indubbiamente quella di attingere soprattutto alle testimonianze dei suoi protagonisti. Verificare testualmente le loro affermazioni, mettendole a confronto, rappresenta infatti un elemento essenziale per comprendere la natura e l’originalità delle argomentazioni messe in campo”.[1]
Impossibile dargli torto. Il confronto delle teorie, la ricerca della veridicità di esse, e la condivisione di queste ultime con la comunità scientifica e le sue ramificazioni (dall’archeologia alla storia, ad esempio), è il primo passo per applicare il famoso metodo scientifico creato da Galileo. Senza di esso sarebbe impossibile sostenere tesi di alcun tipo, specialmente su un argomento come questo. Infatti, è facilissimo inciampare in millantatori e guru sul web che si fregiano dell’aggettivo “esperti”, e incantano il loro pubblico con affermazioni spesso strampalate e fuorvianti, e che molto spesso si contraddicono da sole.

In questa rubrica andremo a osservare da vicino le varie sfumature che hanno arricchito questa teoria: dalla radio al cinema, dalla filosofia al mondo dei fumetti fino ad arrivare ai movimenti spirituali. Vedremo anche come i grandi astronomi del passato hanno studiato il nostro sistema solare con i loro mezzi a disposizione; questi primi studi (da Hershell a Schiaparelli) sono stati molto importanti perché hanno contribuito a smascherare le prime “fake news” dell’esistenza di umanoidi su Marte o sulla Luna.
Molto conosciuta, ad esempio, è la scherzosa trasmissione radiofonica perpetrata da Orson Welles del 30 ottobre del 1938, riprodotta dalla CBS: fu talmente impressionante e magistralmente architettato, che molti americani si fecero prendere dal panico quando alla radio veniva comunicato loro che astronavi aliene venute da Marte erano sbarcate nel New Jersey.
La certezza di abitare in universo densamente popolato era molto diffusa nel passato fin dai tempi remoti. Molto di più di quanto la si possa immaginare. Quando nel 1835 uscì sul “New York Sun” un articolo attribuito all’astronomo inglese John Herschel[2], i lettori non ebbero difficoltà a credere e ad immaginare gli extraterrestri lunari descritti nell’articolo. Fu una delle più clamorose fake news sul tema “alieni e affini”. Infatti, il vero autore del pezzo, Richard Adam Locke, riuscì benissimo nel suo intento perché la base della credenza da cui era partito per orchestrare la bufala (gli extraterrestri esistono e popolano il nostro sistema solare) era ben radicata.
E la comunità scientifica? Al tramontare dell’800 le possibilità offerte dal progresso della tecnica sradicarono ogni possibilità, con buona pace dei “complottisti” dell’epoca, l’idea di una possibile esistenza di forme di vita (in ogni loro forma) extraterrestri nel nostro sistema solare. È doveroso, prima di addentrarci nei processi scientifici, di dare voce a uno dei più grandi scrittori di fantascienza del periodo, J. Verne, leggiamo quindi le sue parole:
“Non v’era opera che indicasse la mano dell’uomo, non ruina che attestasse del suo passaggio, non una agglomerazione di animali che accennasse la vita ad un grado inferiore. Dei tre regni che si dividono lo sferoide terrestre, uno solo era rappresentato sul globo lunare, il regno minerale.”[3]

Attorno alla credenza di possibili abitanti lunari e del suo paesaggio fantastico, si è cimentato anche Herbert George Wells, nella stesura del suo libro The first Men in the Moon: il racconto è centrato sui “seleniti”, gli abitanti del satellite, e sul suo paesaggio (ricco di vegetazione e di atmosfera). Anche sul Pianeta rosso gli studi scientifici a quell’epoca erano vulcanici e sempre più innovativi. Un fenomeno scientifico che aiutò lo studio della geografia marziana a cavallo tra l’Ottocento e i primi del Novecento fu, senza dubbio, la costruzione di telescopi sempre più potenti e precisi.
Anche la letteratura iniziò negli stessi anni a regalare al suo pubblico storie ambientate su Marte. La questione dei canali marziani sollevò un vero e proprio dibattito all’interno della comunità scientifica. Nel 1877 Virgilio Schiaparelli, direttore dell’osservatorio di Brera, rilevò sulla superficie marziana una serie di allineamenti che denominò “canali”. Subito non prese alcuna posizione al riguardo; solo ritenne che questi fossero valli o solchi naturali dove scorreva l’acqua.
Il polverone fu causato dalla traduzione. In inglese la parola “canali” non venne tradotta con “channel”, termine che sta per “canali”, ma con “canal”[4], parola che sta a indicare costruzioni artificiali. Immaginatevi le conseguenze. Ulteriore confusione ci fu quando, nel 1882 lo stesso astronomo affermò di avere rilevato lo sdoppiamento dei canali. Definì questo fenomeno “geminazione”.
La curiosità della scoperta creò non poche domande nella mente dell’astronomo: come avevano fatto a formarsi questi sdoppiamenti dopo pochi anni? E se fossero il risultato di qualche civiltà marziana? Ovviamente oggi sappiamo che sono formazioni naturali. Tornando alla letteratura, in quegli anni la produzione fu molto fertile. E la causa scatenante fu il dibattito scientifico sulle nuove scoperte del suolo marziano. Tra i sostenitori dell’esistenza di alieni sul Pianeta rosso spicca l’astronomo francese Camille Flammarion; le sue tesi sono sostenute nell’opera “La Planète Mars et es conditions d’habitabilitè”.[5]

Percival Lowell, uomo d’affari americano, andò ad ingrossare le file dei sostenitori della vita extraterrestre. Nel 1894 egli fece edificare un osservatorio a Flagstaff, in Arizona. Grazie al telescopio più potente sul mercato dell’epoca, Lowell e il suo team poterono avviare ricerche sistematiche sulla superficie di Marte. Le tesi dell’origine artificiale dei canali marziani di Lowell ebbero moltissimo seguito; nel 1895 infatti fece pubblicare il suo primo romanzo “Mars”.
La comunità scientifica dell’epoca si dichiarò scettica e respinse le teorie strampalate di Lowell. Ma ciò non contribuì a spegnere l’entusiasmo dell’opinione pubblica. L’idea che Marte fosse un pianeta abitato da civiltà intelligenti rimase solida nella mente delle persone per lungo tempo.
[1] M. Ciardi, Il mistero degli antichi astronauti, introduzione
[2] M. Ciardi, Il mistero degli antichi astronauti. P. 11
[3] M. Ciardi, ivi, p. 12
[4] M. Ciardi, ivi, p. 13
[5] M. Ciardi, ivi, p. 14
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