[STORIA] Il Ludus Bellum: i giochi bellici nel medioevo – di Carlo Cavazzuti

Presento oggi un altro articolo di Carlo Cavazzuti, maestro di scherma storica, autore del saggio Gladiatoria e del romanzo storico Jean, che collabora da tempo con il blog. Oggi parliamo dei giochi bellici nel medioevo: giostre, tornei, quintane e bagordi!

L’articolo è il testo di una conferenza che Carlo terrà il 24 ottobre prossimo in quel di Ferrara. La locandina dell’evento è a fine articolo!

Buona lettura!


I GIOCHI BELLICI NEL MEDIOEVO

1. Cosa sono i giochi bellici?

Tutti hanno sentito parlare di tornei, giostre, gare di tiro con l’arco, palii, forse meno di sfide al saraceno, quintane, cacce e Bagordi, se non dal detto “Ci diamo/Si danno ai bagordi”. Proviamo a fare chiarezza su cosa sono, perché si sono sviluppati e quali sono le differenze tra essi, e perché no, dove ci sono arrivati i documenti, definirne le regole con esattezza.

Innanzi tutto possiamo dire che i giochi bellici, anche se si sviluppano in epoche diverse, hanno tutti uno scopo simile: mantenere allenati alla guerra i soggetti che dovranno compierla. In un certo modo possiamo dire che fossero gli sport dell’era di mezzo.
In un’epoca in cui non esistevano eserciti permanenti, non si aveva idea di cosa fossero le uniformi e ogni piccolo nobile o cavaliere poteva vantare il diritto di comandare anche solo una piccola parte di un grande esercito, la coesione tra queste persone, la conoscenza reciproca delle altrui capacità tattiche e strategiche, l’addestramento al combattimento diventavano punti focali della gestione delle forze armate.
Bisognava trovare un modo perché periodicamente nobili e cavalieri potessero incontrarsi, conoscersi e allenarsi.

Per apprendere cosa c’è di meglio di una simulazione?
Se devi imparare a fare la guerra, cosa andrai mai a simulare?
Una guerra per l’appunto. Imporrai delle regole, dei codici di comportamento, delle limitazioni, farai di tutto perché non sia letale come una guerra reale e poi combatterai sinché non hai imparato per bene, o finché non muori.
Anche se nessuno storico è riuscito a stabilire il luogo d’origine del primo Ludus Bellum medioevale si può con un’ottima percentuale di approssimazione affermare che esso ha preso il via tra il IX e il X secolo nell’attuale Francia, alla corte di Carlo Magno o Ludovico il Pio.

2. Il torneo

Sino da epoca carolingia, per la precisione dalle cronache dello storico Nitardo conte di Ponthieu, si hanno notizie sull’abitudine di indire battagliole organizzate e simulate, volute per evitare l’infiacchirsi dei cavalieri della corte.
Nitardo, che oltre a essere conte era pure abate laico di Saint-Riquier, nipote del più conosciuto Carlo Magno che gli era nonno da parte di madre e consigliere personale di Carlo il Calvo, scrive per la prima volta un testo in lingua romanza e in questo cita per l’appunto un hastiludium, un gioco di lance, facendoci noto che due squadre, la prima denominata ténants, i Tenenti, coloro che avevano lanciato la sfida, l’altra vénants, i Cacciatori, coloro che l’avevano accettata, si sarebbero scontrate su un campo aperto tourner, roteando, le armi tra di loro.

Proprio quel tourner porterà a svilupparsi la parola Torneo.
Vediamo allora nel dettaglio come si svolgeva davvero questo torneo, possiamo dire quello vero, senza contaminazioni dovute alla politica conservativa o alla Chiesa.
Il torneo veniva indetto di solito da un gran signore, un re o addirittura un imperatore che invitava quanti più cavalieri e nobili potesse permettersi di mantenere. Ipotizziamo ora di essere con Nitardo alla corte dell’imperatore Carlo il Calvo e veder arrivare tutti i cavalieri e i nobili del Regno dei Franchi. Ognuno di essi era tenuto a portare, come in guerra, almeno una Lancia. Una sola arma, direte voi? No, la Lancia era un’unità militare composta da circa una quindicina di persone e così composta: il cavaliere con il suo seguito personale, paggio, araldo e scudiero, tutti e quattro a cavallo, due sergenti, meglio se anche essi a cavallo e almeno sei fanti e tre arcieri.
Contando che all’epoca ci fossero circa trecento tra nobili con l’obbligo di corvée e cavalieri al servizio di essi o del sovrano, abbiamo a riunirsi un piccolo esercito di circa cinquemila persone. In base ad amicizie, vicinanze dei vari feudi, matrimoni e fidanzamenti si formano le squadre e  il patrono nomina quale delle due sarebbe stata quella dei tenenti.

A questo punto viene deciso il campo. Non dovete immaginare un recinto o un luogo di gara circoscritto, bensì, come cita Nitardo, un campo aperto, anche di grandi dimensioni. Per darvi un’idea, non sarebbe stato assurdo prendere come luogo del gioco un campo di cento o duecento chilometri per lato.
Di nuovo potreste ben pensare che in Europa un campo così non c’è e che in mezzo trovereste sempre colline, montagne, boschi, villaggi, e perché no, intere città. Infatti, erano proprio quelli i soggetti di sfida. Catturare o difendere un certo numero di villaggi, prendere o difendere la tale città, raggiungere il tal passo montano per primi, e così via, in un determinato tempo che difficilmente era inferiore alla ventina di giorni.
In summa, due eserciti di circa 2500 persone ciascuno che si scontrano su un appezzamento di terra pari a quello di una regione italiana con l’obbiettivo di fare il numero maggiore di prigionieri e vincere la sfida assegnata.

Lo scopo dell’organizzatore del torneo era quello già citato di allenare i propri guerrieri, quello dei singoli era fare prigionieri e distinguersi per gesta più o meno eroiche.
Un prigioniero corrispondeva a un futuro riscatto. Sicuramente di molto inferiore a quello che avrebbero ricevuto a catturare la stessa persona in guerra, diciamo una somma simbolica che dalle cronache a noi giunte poteva anche essere nel suo simbolismo molto cospicua: venti chili d’argento o cinque d’oro. Poi c’era la somma per il cavallo e le armi nonché per i propri seguaci. Insomma, venire catturati in questo antico gioco crudele era un affare che avrebbe potuto costare parecchio.
Prendere invece molti prigionieri poteva voler dire guadagnare un gran somma e addirittura terre e titoli.
Durante questa piccola guerra simulata dove le armi erano, però, le stesse che si sarebbero utilizzate per scannare i nemici in guerra, le limitazioni erano davvero poche. In primis tentare quanto più possibile di non uccidersi. Per prendere un prigioniero bastava gettarlo spalle o ventre a terra o afferrare le briglie del suo cavallo intanto che lo si dichiarava propria preda.

In secondo luogo, almeno per i cavalieri, essere tanto più onorevoli possibile.
Non ingannatevi troppo però. A quei tempi l’etica cortese che ormai contraddistingue la figura cavalleresca nell’immaginario comune è lungi da venire. Un cavaliere onorevole non tradisce il suo signore, non attacca mai un altro cavaliere alle spalle e mai senza averlo avvertito delle sue intenzioni e se possibile non combattere a piedi o contro delle persone di ceto troppo basso. Per tutto il resto bisognerà aspettare qualche secolo, quindi non c’è nulla di male ad ordinare alle proprie lance di attaccare un accampamento di notte o saccheggiare un villaggio per stanare la squadra avversaria, o, peggio ancora, ordinare a un proprio fante di sgozzare un feudatario fastidioso intanto che è accucciato dietro un cespuglio a espletare le proprie funzioni corporali.
A farla breve, un poco per fame di bottino, un poco per trame politiche e un poco per normali incidenti che a giocare con le armi possono accorrere, in un torneo morivano più nobili e cavalieri rispetto a una battaglia vera, in guerra, con nemici che mirano a uccidere e conquistare. Le devastazioni e le privazioni al popolo inerme erano le medesime di una vera guerra: saccheggi, incendi, campi che non avrebbero dato frutti perché dissodati dai cavalli, violenze sulle donne e omicidi non erano così infrequenti quanti si possa pensare anche se subiti dal proprio stesso popolo.
Fu per questo che nel 1130 papa Innocenzo II, in uno dei suoi primi atti da vescovo di Roma, dichiara la proibizione dei tornei sulle terre cristiane, la scomunica per tutti coloro che avrebbero partecipato a tali eventi sportivi e la proibizione della sepoltura cristiana a chiunque dovesse morire in torneo.

Questa imposizione papale ha un successo davvero marginale. In alcuni stati come l’Inghilterra la Spagna non viene neppure presa in considerazione, in altri si decide di continuare a torneare, ma in modo diverso, meno violento, con qualche regola e limitazione in più. Nascono così gli altri giochi bellici che, a differenza del torneo, sono giunti sino a noi quasi del tutto invariati e ancora praticati in buona parte del mondo occidentale, un poco come ricostruzione storica e un poco come veri e propri sport a livello agonistico: la giostra, il bagordo, le gare di tiro, la quintana e il saraceno. Uniti in un unico evento prenderanno sempre il nome di Torneo che avrà perso però molta della sua faccia violenta e distruttiva.

3. La giostra

Eccoci giunti a quello che malamente si pensa sia il torneo medioevale, ma dobbiamo subito dire che così non è.
La giostra, dal latino juxtare, avvicinarsi, è uno sport figlio del torneo, che avrà un’evoluzione indipendente e un successo eccezionale.
Le differenze sono davvero moltissime e alcune lampanti. Prima di tutto la giostra è riservata solamente a nobili e cavalieri, non c’è traccia alcuna di fanteria anche se nei primi anni di questo sport era consentito dopo aver disarcionato il nemico, di combattere entrambi a terra fino alla resa di uno dei due contendenti.
La seconda differenza lampante è che il campo è chiuso, un grande recinto di un centinaio di metri sul lato lungo con intorno costruite tribune e palchi per il pubblico che paga anche cifre cospicue per assistere all’evento da posizioni ravvicinate.
La terza e più importante differenza è la presenza di arbitri, del tutto assenti nel torneo primigenio, che possono punire con la squalifica il contendente che non rispettava le regole previste dal gioco.

Come detto la giostra evolve indipendentemente dai fratelli nati dal torneo e la modalità di combattimento alla resa viene rapidamente abbandonata perché assai pericolosa e troppo vicina al duello giudiziario, ma ancora di più difficile da gestire in fatto di arbitraggio. Si sviluppa così la giostra come ce la si immagina: due cavalieri si scontrano tentando di colpirsi a vicenda con una lancia di circa tre metri.
Quello che pochi sanno è che non è sempre uno scontro in singolar tenzone. Nelle giostre erano consentite e molto incoraggiate le quadre di più cavalieri. Sfidandone uno si sarebbe sfidata tutta la squadra quindi avremmo potuto vedere scontri di una ventina di cavalieri, dieci per parte o anche non alla pari.
Dobbiamo sempre pensare che le armi non sono quelle da zogo, da gioco, ma sono sempre le stesse usate in guerra: le lance sono di pino e con una punta aguzza e le spade sono affilate e appuntite. I feriti e i morti sono cosa comune anche nella giostra e qualcosa bisogna pur fare per limitarli. Si iniziano a porre ulteriori limiti alla contesa che diventa uno scontro solo tra due cavalieri, ma anche questo non basta, si iniziano a usare lance di frassino (più leggero e frantumabile del pino delle lance da guerra) con la punta in acciaio stondato: le armi à plaisance. Ai due contendenti però era concesso scegliere anche di scontrarsi à outrance, ossia con il vecchio metodo con armi da guerra. Si prosegue con gli incidenti impone la regola con cui per vincere non è necessaria la resa dell’avversario, ma un conteggio ai punti su uno scontro alle tre lance assegnando tre punti alla testa, due al torso e uno alle braccia e gambe, la vittoria immediata per disarcionamento.

Anche così morti e feriti non si contano tanto che di nuovo il papa ci mette bocca, sempre senza grandi risultati.
Solo nel XIII secolo con le regole che imponevano lo scontro à plaisance e la proibizione di colpire la testa papa Martino IV toglie le proibizioni emanate dai suoi predecessori.
Nel XV secolo viene introdotta la staccionata a dividere gli avversari per evitare che abbattuti si possa finire sotto gli zoccoli del cavallo avversario e così si giunge all’immagine stereotipata dello scontro dei due cavalieri che ancora oggi viene praticato in campionati internazionali in cui partecipano anche atleti di gran fama.

4. Il bagordo

Figlio anch’esso del torneo è molto meno conosciuto della sorella giostra, forse perché in un certo qual modo meno spettacolare.
Questa parola è giunta a noi come sinonimo di baldoria e gozzoviglio, ma ha un’origine del tutto diversa; solo nei secoli si è arrivata ad associarla ai festeggiamenti, che sempre seguivano un gioco d’armi e che vedevano impegnati nobili, cavalieri e vincitori delle varie prove. Nel medioevo il bagordo era una festa sanguinosa.
Il bagordo è un gioco tra fanti o comunque contendenti appiedati all’interno di un grande recinto denominato lizza e si sviluppa in due forme parallele e coeve e prende il nome dalla parola francona behurdan, circondare con una siepe o approntare il recinto, dove per l’appunto i contendenti si sfidano.
La prima forma che verrà descritta è quella che vede scontrarsi solamente due contendenti uno contro l’altro in diverse categorie di armi utilizzate. Si ci poteva scontrare alla spada, alla lancia, alla mazza, all’azza (un grosso martello da guerra di oltre un metro e ottanta), alla daga, in armis o sine armis ossia con o senza armatura.
In questo modo si dava spazio ai fanti più o meno armati di allenarsi e conquistare denari e fama che gli erano preclusi nella giostra. Anche molti cavalieri partecipavano al Bagordo in singolar tenzone, ma regole volevano che potessero combattere solamente nelle categorie in armis.

Le regole erano semplici anche se variavano spesso a seconda della locazione geografica in cui si svolgeva il gioco.
Due avversari armati alla pari si scontravano davanti ai giudici in un campo circoscritto (circa otto metri di lato) per un certo tempo, o in alcuni casi per un certo numero di colpi tirati. Ogni colpo portato a segno corrispondeva a un punto, chi avesse costretto alla resa l’avversario (si ci arrendeva palesemente dichiarandolo o venendo gettati a terra) o fatto più punti entro la fine del tempo o dei colpi regolamentari si sarebbe aggiudicato la vittoria.
Tante altre regole non è che ci fossero. Non si poteva lasciare la lizza, non si poteva cambiare arma durante lo scontro e salvo incidenti non si doveva uccidere l’avversario.

Anche qui inizialmente le armi erano le medesime utilizzate in battaglia, solo con parecchi anni di morti e feriti si arrivò ad utilizzare le armi à plaisance e introdurre alcune regole per favorire la sicurezza come per esempio quella che proibiva di colpire l’avversario dopo averlo disarmato.
Gli incidenti sono continuati facendo sì che il bagordo in singolar tenzone diventasse via via sempre meno cruento diventando quello che oggi possiamo vedere in alcune città sotto forma di tornei di randello e scudo.
La seconda versione del bagordo è quella meno conosciuta, ma forse la più spettacolare delle due.
Si svolgeva nello stesso recinto della giostra e vedeva scontrarsi due squadre di contendenti armati a piacere, ma sempre come fanti.
Tali squadre venivano organizzate dagli stessi partecipanti sempre secondo lo stesso metodo di alleanze per amicizia, matrimonio, vicinanza di terre e così via e potevano andare dalle due persone ad oltre una cinquantina, anche qui in scontri che potevano vedere due schieramenti affatto alla pari.

Vi erano uno o più capitani per squadra e quello che si andava a fare era una piccola battagliola con tanto di formazioni e manovre dove lo scopo ultimo era gettare a terra ogni avversario. Non vi era un conteggio di punti, né un limite di tempo.
Era il vero successore del torneo: da una guerra simulata a una battaglia simulata. Di nuovo però si ci trova davanti al problema dei morti e dei feriti che come sempre abbiamo visto viene in parte arginato limitando l’uso di armi o colpi.
Il bagordo a squadre non ha però avuto la fortuna dei suoi fratelli e nei secoli si è andato a perdere sino all’età moderna in cui, ormai una quindicina di anni fa è stato ripreso, studiato e rimesso in voga e che ad oggi vede campionati ad ogni livello, sino ai mondiali.
Poche sono le tracce che ha lasciato che possiamo vedere tramandate direttamente sino a noi, una di queste è il famoso Gioco del Ponte di Pisa in cui anticamente si svolgeva un bagordo tra i della Gazza e i del Gallo. Tale bagordo diventò poi un gioco con il mazzascudo e infine ciò che si può ammirare ogni estate a tutt’oggi.

5. Gare di tiro

Queste sono forse le ultime grandi figlie del torneo.
Si è visto come si è evoluto per i cavalieri e per i fanti, ma nella Lancia c’erano anche gli arcieri, o in epoca più tarda e per chi poteva permetterseli, i balestrieri.
Bisognava allenare anche loro.

In verità arcieri e balestrieri, come i frombolieri che nel corso del medioevo vedono la loro scomparsa, si sono sempre tenuti più al margine delle battaglie combattendo da lontano con le proprie frecce e i propri dardi. Non avevano molte occasioni di combattere in una mischia in battaglia, anzi. Erano necessari anni per formare un arciere degno di questo nome e potendo colpire a distanze anche ragguardevoli sono uomini preziosi in battaglia, perderli dentro una mischia disordinata non era interesse del loro signore che faceva quanto poteva per preservarli.
La loro parte la facevano più che bene anche senza conoscersi nel vivo perché, non me ne vogliano gli amici arcieri, non serve più di tanta coordinazione a seguire tutti assieme gli ordini di incoccare, tendere, lasciare dati dal proprio comandante.
Non avevano bisogno di provare e riprovare le formazioni da tenere, gli ordini da dare, riconoscere le livree dei compagni, imparare a muoversi appesantiti da chili di ferro. Dovevano solamente incoccare, tendere e lasciare.

Oggi come allora le gare di tiro sono le stesse. Si lancia da distanze diverse verso bersagli di legno, pelle o paglia con i punteggi delimitati da zone da colpire.
L’unica cosa davvero degna di nota da sottolineare è che erano aperte a ogni categoria sociale che potesse permettersi arco e frecce. Tutti, uomini e donne, potevano a dispetto della loro classe sociale tentando di vincere il premio messo in palio. Non pochi sono i casi nelle cronache, spesso inglesi e italiane, in cui un contadino, che probabilmente cacciava abitualmente di frodo, vince una gara di tiro e viene premiato con una sacca di danaro e l’incarico di addestrare i futuri arcieri del signore, assieme a un soldato di professione, garantendosi un lavoro di un livello sociale maggiore e meglio pagato.
Assieme ai giochi equestri minori erano la parte del Nuovo Torneo che veniva meno seguita dal pubblico nobile, ma sono anche quelli che giungono a noi con meno variazioni se non sulla complessità delle armi utilizzate.

6. La quintana

Questi giochi vedono una genesi più “privata” dei precedenti non derivando direttamente dal vecchio torneo già descritto. Prima di salire alla ribalta e trovarsi un pubblico erano svolti all’interno delle case private dei cavalieri e dei signori.

Pur essendo dei giochi, come per i casi precedenti avevano uno scopo ben preciso: allenare i giovani ragazzi che avrebbero dovuto, un giorno, prendere l’ordine cavalleresco.
La quintana, assieme alla caccia erano i primi giochi bellici a cui un giovinetto di buona famiglia si avvicinava. Oltre al puro divertimento la caccia addestrava a seguire le tracce, muoversi su terreni accidentati e gestire i primi manipoli di uomini, battitori per lo più, e animali sotto forma del proprio cavallo, sempre difficile da gestire in presenza di predatori boschivi e non facile da manovrare tra i rami e il sottobosco, e i cani della muta. Il giovane imparando a cacciare imparava a vivere all’aperto in una piccola guerra tra i cacciatori e le prede, imparava a gestire sé stesso e il cavallo in situazioni anche abbastanza rischiose, ma mai quanto una battaglia.

La quintana invece aveva già obbiettivi più ristretti. In questo gioco equestre si pone il cavallo al galoppo e si tenta di infilare un anello, sempre più piccolo a ogni passaggio, sulla punta di una lancia. Quello che può sembrare difficile a primo acchito in realtà non lo è poi troppo sinché l’anello ha dimensioni elevate, ma comunque il futuro cavaliere, per eccellere, era costretto a imparare a gestire una lancia di circa tre metri su un cavallo al galoppo mirando un bersaglio preciso che poteva facilmente essere spostato in alto o in basso con l’aiuto di una cordella.

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La giostra della quintana di Foligno.

7. Il saraceno

Il saraceno è il passo successivo: un macchinario antropomorfo è dotato di uno scudo su un lato e una mazza o una corda con un peso nei primi tentativi. Una volta colpito con la lancia lo scudo il macchinario ruota su un cuscinetto e scaglia il peso sulla nuca del malcapitato che dovesse trovarsi ancora a portata.
Lo scopo del saraceno era quindi insegnare a gestire l’andamento del cavallo durante lo scontro. Per non essere colpiti è infatti necessario dare di sprone un istante prima che la punta della lancia tocchi lo scudo in modo da far reagire il cavallo per tempo portandolo ad una piccola accelerazione sufficiente a sfuggire al colpo di rimando. Se non si fosse riusciti era allora indispensabile imparare a scansare il colpo rimanendo in sella e non impartire involontariamente ordini al cavallo spostando troppo il peso da un lato, colpendolo malamente con le gambe o tirando in strani modi le redini. Tutte abilità indispensabili quando si dovrà caricare un nemico del tutto intenzionato a ucciderci o abbatterci di sella per lasciarci in mano alla fanteria.

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La “giostra del Saracino” di Arezzo.

8. Altri giochi equestri minori

Un altro gioco che pian piano prese piede assieme al saraceno e alla quintana come secondo piano dei nuovi tornei fu il giavellotto a cavallo.
Il contendente parte al galoppo da un lato dello steccato della giostra e a metà distanza dovrà chinarsi per raccogliere un giavellotto infisso a terra, fatta la curva per trovarsi dall’altro lato avrà già sistemato la presa sull’arma e inizierà a mirare al bersaglio che si troverà sempre a mezza distanza. Sempre senza rallentare il cavallo dovrà scagliare il giavellotto sul bersaglio tentando di colpirne il centro.
Simile, ma non del tutto, è anche il tiro con l’arco dal cavallo al galoppo che però in Europa ha avuto poca fortuna a differenza dell’Oriente e dei Paesi Slavi che invece lo apprezzarono e lo apprezzano moltissimo a tutt’oggi.
Più apprezzato, ma comunque non più di tanto portato avanti al pubblico era un percorso più o meno tortuoso e accidentato di bersagli da colpire con la spada tenendo il cavallo al galoppo.

Ognuno di questi giochi bellici equestri, come già scritto, era inizialmente relegato alla fase di addestramento dei giovani in vista della nomina a cavaliere, ma con l’avvento dell’epoca cortese, la “necessità” di dimostrare il proprio valore con le armi davanti alle dame iniziò ad essere sentita anche da paggi araldi e scudieri che avevano con questi giochi uno spazio a loro dedicato nei tempi morti delle più seguite giostre e bagordi.
Un poco perché meno violente e un poco perché assai meno dispendiose nell’organizzazione, coi i secoli sono perdurate molto di più che i loro cugini da farsi in armatura tanto che a tutt’oggi possiamo contare diverse città con contese alla quintana o al saraceno mai interrotte (guerre mondiali a parte) da secoli mentre giostre e bagordi hanno rivisto la luce con un certo successo solo negli ultimi anni dello scorso secolo.

9. Palio e gladiatori?

E il Palio, e i Gladiatori vi chiederete voi?
Semplice, il palio non è e non è mai stato un gioco bellico bensì sempre e solo una corsa, di solito a cavallo, ma abbastanza spesso anche a piedi o a dorso d’asino, indetta a festeggiare un evento di qualche tipo: ricorrenze religiose, avvenimenti importanti quali vittorie in battaglie o guerre, inaugurazioni di grandi palazzi pubblici e così via.
Il nome stesso deriva da Pallium, un velo o una veste tipica della Grecia antica e solo dopo il drappo prezioso donato ai vincitori delle gare equestri.
Indubbiamente i palî sono uno sport medioevale come gli altri infatti il primo codificato e a tutt’oggi in vigore di cui si ha notizia è quello di Ferrara corso per la prima volta nel 1259 per festeggiare la vittoria delle truppe del Papa agli ordini di Azzo VII Este su Ezzelino III da Romano al comando delle truppe imperiali.
Sicuramente avvincenti e spettacolari, ma nulla hanno a che fare con l’allenamento alla guerra.

Stessa conclusione è per la Gladiatura romana. Nessuno dei giochi bellici medioevali discende da essa. I Ludi erano, e nelle loro ricostruzioni attuali molto meno sanguinose sono, degli spettacoli per intrattenere un pubblico. Quando venne giocato il primo torneo molto probabilmente nemmeno uno dei suoi partecipanti avrebbe saputo rispondere alla richiesta di descrivere un gladiatore o una giornata di giochi in arena perché da diversi secoli non esistevano più.

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L’autore dell’articolo è presente nella foto!

Conclusione

Ora mi permetto una nota personale. Escludendo il vecchio torneo perché sono quasi mille anni che non esiste più e altrettanto facendo per un palio in quanto non sono un fantino, ho praticato ognuno di questi giochi, gladiatura compresa, nella sua forma più antica e di alcuni anche nelle sue derivazioni moderne: scherma, tiro con l’arco e equitazione. Di alcuni di essi sono, in un certo qual modo, annoverato tra i patroni della loro ripresa, di altri oltre che a praticarli sono anche un maestro certificato di alcune discipline e per altre un arbitro ufficialmente abilitato a livello internazionale.
Posso dare quindi un parere abbastanza corretto su quanto esse siano complesse a livello psicofisico e pratico.

Il tiro con l’arco, rigorosamente storico, realizzato in legno con frecce altrettanto storiche l’ho trovato una disciplina molto più faticosa di quanto pensassi, ma una volta giunto a un livello accettabile di abilità estremamente soddisfacente. Fare un centro a cinquanta metri di distanza in un giorno ventoso con un arco nudo ti fa sentire davvero bravo!
Per quanto possa sembrare assurdo ho sempre trovato i giochi equestri, ad esclusione del tiro con l’arco in sella che ho trovato il più complesso di tutti giochi qui raccontati, i più facili da apprendere e da eseguire. La quintana è forse il più facile di tutti seguita a mezza lunghezza dai giochi con la spada e con il giavellotto.
Più complessa la giostra, ma non a livello tecnico quanto per il puro coraggio che necessita. Galoppare ai 50-60Km/h incontro a un cavaliere di media di ottanta o novanta chili, con trenta di armatura, su un cavallo da sei quintali che ti galoppa incontro similmente per colpirti con tre metri di lancia, il tutto in meno di quindici secondi netti, è davvero spaventoso. La forza d’urto è facilmente calcolabile come quella di un proiettile di medio calibro e anche con una buona armatura addosso la tentazione di girare il cavallo è tanta; un tempo come ora è oltre che una prova di abilità marziali ed equestri è una grande prova di coraggio.

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Per ognuno dei giochi a cavallo serve una preparazione di anni con animali ben addestrati in quanto comandare un cavallo con armatura, elmo, scudo e lancia non è per nulla simile a farlo nella tranquillità del maneggio.
Prima di iniziare anche solo a prendere in mano le armi il mio istruttore, in oltre un anno, mi portò a comandare un cavallo al galoppo stando senza redini e senza staffe su una sella inglese, su cui a mio modestissimo parere mi ci stava solo una mezza chiappa, utilizzando solo il peso del corpo e la posizione delle gambe sull’arcione. E già cavalcavo “tradizionalmente” da parecchi anni.
Mesi e mesi sono stati anche impiegati per imparare le manovre in squadra che mi furono molto utili anche per il mio lavoro letterario.
Per il bagordo in armis due sono le modalità e due i giudizi.
Sono stato tra i primi in Italia a tornare a praticare la scherma storica in armatura gareggiando in discipline individuali sino a livello europeo e posso assicurarvi che senza una preparazione fisica eccellente e mirata e uno studio delle armi molto complesso difficilmente si riuscirebbe a portare a termine un solo assalto dei tanti previsti dai gironi alla finale. Non tanto perché si verrebbe sconfitti quanto per il peso dell’armatura, la mancanza d’aria all’interno dell’elmo e l’incapacità di saper assorbire i colpi che, anche con armi à plaisance, sono assai duri.

Per quanto riguarda il bagordo a squadre le considerazioni fatte in merito alla prestanza fisica e tecnica non cambiano. Forse, avendo squadre con armi tra le più svariate e non necessariamente le stesse per i due schieramenti, la conoscenza tecnica e la preparazione ad assorbire grossi urti diventa ancora più importante. Con la competizione in squadra entra in gioco una conoscenza profonda dei compagni, di schemi, manovre, gestione degli spazi del tutto simile a quello di una battaglia storica.
Insegno come maestro a diversi allievi che si vogliono cimentare in bagordo, sia singolo che a squadre, e a tutti consiglio almeno un paio di anni di lezioni e allenamenti prima di cimentarsi in una gara anche di basso livello.

Questi giochi e questi nuovi e allo stesso tempo vecchi sport sono splendidi da osservare e intensi da praticare, ma bisogna sempre ricordarsi, che siate in lizza o spettatori, che sono giochi di guerra.


Se volete saperne di più e a viva voce, potete trovare Carlo Cavazzuti alla Contrada San Giacomo, Via Ortigara 14 di Ferrara giovedì 24 ottobre alle 21:30 come relatore della conferenza Una notte di bagordi.

LINK: http://www.contradadisangiacomo.it/

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