Foto in copertina tratta da qui
In questo articolo mi propongo di ricostruire le vicende della nota battaglia tra la Lega Lombarda e l’Impero. E’ doveroso premettere anche che ciò che state per leggere è del tutto scevro da qualsiasi riferimento politico: tale scontro infatti assunse ben presto una forte valenza simbolica che perdura ancora oggi, la cui storia è altrettanto interessante ma che non è oggetto di quest’articolo. Nell’articolo uso indistintamente gli aggettivi “germanico” e “tedesco” per le forze imperiali e “italiano”, “italiano del nord” e “lombardo” per le forze della Lega; del resto, le stesse cronache dell’epoca usano i termini in modo abbastanza interscambiabile.
I due principali riferimenti bibliografici sono “29 maggio 1176. Barbarossa sconfitto a Legnano” di Alessandro Barbero e Le grandi battaglie del Medioevo di Andrea Frediani; meno estesamente ho usato European Medieval Tactics di David Nicolle, prezioso però dal punto di vista iconografico. Le mappe con le varie fasi delle battaglie le ho tratte dal sito Ars Bellica. I riferimenti esatti sono nella bibliografia.
Detto questo cominciamo.
LE CAUSE (1): DA DOVE VIENE IL POTERE? LA DIETA DI RONCAGLIA
La battaglia di Legnano ha la sua ragione profonda in una questione che, allora come oggi, era estremamente importante: l’origine del potere. Proprio in quel periodo (gli anni centrali del XII secolo) i sovrani feudali d’Europa cercavano di ricostuire un’autorità statale e centrale. Tra essi vi era Federico I Barbarossa, il cui intento era reso difficile dal fatto di voler imporre la sua autorità su due paesi, l’Italia del nord e la Germania, separati geograficamente e molto diversi per condizioni sociali ed economiche (ci tornerò a breve).
Nel 1158 Federico riunisce vicino Piacenza, a Roncaglia, i principali giuristi dell’università di Bologna e i rappresentati dei comuni italiani. Il suo scopo è avere una sanzione legale del diritto dell’imperatore e dei suoi privilegi. Il risultato di questa Dieta di Roncaglia è la Constitutio de Regalibus che specifica in modo preciso su cosa il sovrano abbia autorità. La fonte di questo potere è il diritto romano, un diritto che si era sviluppato avendo come origine la figura dell’imperatore.

Così scrive Alessandro Barbero:
Nel 1158 [Barbarossa] raduna una grande assemblea a Roncaglia, a cui partecipano i rappresentanti delle città e i principi italici, e lì i maestri di Bologna presentano ufficialmente l’elenco di quelle funzioni e di quelle responsabilità pubbliche che per definizione spettano al re, e che dunque non possono essere gestite da nessun altro senza la sua autorizzazione, nell’interesse pubblico. L’elenco comprende il controllo delle strade e dei ponti, e quindi anche i pedaggi, il controllo dei corsi d’acqua, i diritti di caccia, la facoltà di battere moneta, e naturalmente la giustizia, e il diritto di imporre delle tasse. È da molto tempo che in Europa nessuno affrontava più questi problemi; adesso i giuristi sollecitati dall’imperatore ci ragionano, e inventano anche un termine per definire ciò che spetta al re: li chiamano gli iura regalia, o per semplicità i regalia. La nostra parola «regalo» deriva direttamente da lì, perché ciò che spetta al re nella percezione della gente tende poi a ridursi al fatto che tocca tirare fuori dei soldi, e quindi in definitiva il re era percepito come quello che si aspettava dei regali. Ma di fatto il concetto è molto più sofisticato, perché si è chiarito che ci sono certe cose che nell’interesse pubblico devono spettare al monarca.
A questa concezione si contrappongono i Comuni. Cito ancora da Barbero:
Il comune invece nasce quando gli abitanti della città cominciano a riunirsi in assemblea e a dichiarare: noi abbiamo degli interessi comuni, che non sono quelli della res publica, del re e di tutta la cristianità, sono i nostri, quelli dei milanesi, dei comaschi, dei pavesi; noi vogliamo occuparci dei nostri interessi e prenderli in mano senza delegarli a nessuno. L’assemblea dei capifamiglia maschi, dove probabilmente alcuni avranno contato molto e altri molto poco, ma che formalmente è l’assemblea di tutti i cittadini, elegge dei rappresentanti, e tutti giurano: quelli sono i nostri consoli, per un anno obbediremo ai loro ordini, se dobbiamo fare la guerra ci comanderanno loro; se ho una lite la sottoporrò a loro e accetterò la loro sentenza. Questo è il comune.
Aggiungo una nota personale. L’immagine che emerge del Medioevo da queste considerazioni è molto diversa da quella trasmessaci dalla leggenda dei “Secoli Bui”. Gli uomini del Medioevo sono ben consapevoli che il potere e l’autorità non emergono dalla violenza e alla forza, ma devono avere un’origine legale e riconosciuta da tutti: è questo “contrattualismo” che costituisce una delle peculiarità della civiltà occidentale che, da quel che so io almeno, è assente nelle altre grandi civiltà (come quelle orientali ad esempio).
LE CAUSE (2): ITALIA E GERMANIA, PAESI DIFFERENTI
Abbiamo detto che nell’Italia del nord i Comuni avevano una concezione del potere diversa da quella imperiale. Come mai si era giunti a questo? Il motivo è semplice: solo in Italia il tessuto urbano di origine romana era riuscito a sopravvivere alle devastazione delle invasioni barbariche. Molte città italiane, infatti, erano dirette eredi delle omonime città di epoca romana (ad esempio Milano, come vedremo tra poco, aveva la stessa pianta e gli stessi monumenti di epoca romana).
Abbiamo visto sopra la definizione di “Comune”. Un’altra importante considerazione è di ordine geografico: l’Italia e la Germania sono separate da una grande catena montuosa, le Alpi. Il sovrano, che si trova in Germania, ha quindi a disposizione solo pochi mesi all’anno per effettuare le sue visite in Italia o, se serve, delle campagne militari. Un’altro fatto importante è la non eccessiva differenza di forza militare: le cifre sono incerte, ma alla battaglia di Legnano il Barbarossa può schierare non più di 2500 cavalieri. Il motivo è semplice: ogni cavaliere ha dietro un feudo che lo sostiene e lo mantiene. Nelle città italiane, invece, come fa notare l’ecclesiastico e cronista dell’epoca Ottone di Frisinga, la ricchezza economica e demografica permette di armare molti cavalieri, tanti quanti ne può mettere in campo l’imperatore stesso (pur non essendo essi di origine nobiliare).
I PRODROMI: LA DISTRUZIONE DI MILANO (1162)
Finora ho parlato di Italia del nord e Germania. E’ importante sottolineare che i due “blocchi” non sono granitici. Le città italiane, come è noto, sono divise da contrasti molto profondi che genera uno stato endemico di contrapposizione. Non pochi comuni parteggiano per l’imperatore e lo chiamano, di tanto in tanto, in soccorso contro la prepotenza di un rivale più forte. E’ il caso di Como e di Milano, città acerrime nemiche. Tuttavia è sbagliato pensare anche l’opposto, cioè che non esistesse un sentimento comune tra le varie città italiane, sentimento ancor più forte quando arrivava qualcuno da Oltralpe con l’intento di imporre la sua autorità e che tuttavia non impediva i contrasti insanabili tra città e città di cui ho detto sopra. In campo tedesco la disunione era a livello di singoli feudatari e non di città, ma nella sostanza era la stessa: Enrico il Leone rifiutò di aiutare il cugino Federico nella campagna del 1176.

Torniamo alla narrazione. Alcune città non accettano il risultato della Dieta di Roncaglia. Nel 1161 l’imperatore pone l’assedio a Milano e, dopo un anno, la conquista. La punizione è durissima: la città viene rasa al suolo e i suoi abitanti dispersi tra i centri vicini.
Il Barbarossa promette salva la vita agli abitanti, ma decide che la città deve sparire: i milanesi hanno otto giorni di tempo per uscire con tutte le loro cose e andarsene in campagna, poi Milano verrà rasa al suolo, non soltanto le mura ma l’intera città. Una volta che i milanesi sono usciti, Barbarossa assegna il compito di distruggere la città a tutti gli altri lombardi, i quali felicissimi vanno ciascuno a distruggere il quartiere che gli è stato assegnato: quelli di Lodi demoliscono Porta Orientale, quelli di Cremona distruggono Porta Romana, quelli di Pavia spianano Porta Ticinese, quelli di Novara distruggono Porta Vercellina, quelli di Como Porta Comacina, e finalmente gli abitanti del Seprio e della Martesana radono al suolo Porta Nuova. Quanto al Duomo, sembra che non volessero distruggerlo, avevano deciso di buttar giù soltanto il campanile, però purtroppo il campanile crollando è caduto sull’edificio e l’ha demolito.
La situazione tuttavia muta rapidamente nei cinque anni seguenti. La scomparsa di Milano e l’installazione dei giudici imperiali nelle varie città ribalta tutto. I comuni lombardi e veneti sentono adesso l’oppressione imperale e si ribellano.
Così scrive Andrea Frediani:
Per giunta, nell’aprile 1167 la filoimperiale Cremona si costituiva in lega con Mantova, Bergamo e Brescia, secondo la tradizione presso il monastero di Pontida tra Bergamo e Lecco, chiedendo il ritorno delle prerogative imperiali ai più blandi regimi della casata di Franconia, ma deliberando anche di ricostruire le mura di Milano…nel dicembre dello stesso anno si arrivò alla fusione della lega veneta con quella cremonese, e alla creazione della “Societas Lambardiae”, ovvero la Lega Lombarda: ne facevano parte, allora, Venezia, Verona, Padova, Vicenza, Treviso, Cremona, Brescia, Bergamo, Milano, Lodi, Parma, Piacenza, Mantova, Ferrara, Bologna e Modena.
La situazione del Barbarossa si aggravò anche dal punto di vista religioso. La morte di papa Vittore aveva portato ad uno scisma. Gli italiani sostenevano papa Alessandro, cui dedicarono una città nuova, Alessandria; l’imperatore sostenne alcuni, in verità poco carismatici, antipapi (come Vittore IV, Pasquale III e Callisto III).
Il principale risultato del patto del 1167 è l’impegno di ricostruire Milano. Così scrive Barbero:
Sono le altre città lombarde, e questo fa vedere quante cose siano cambiate in questi anni, a decidere che adesso l’avversario principale è l’imperatore con le sue nuove pretese e che è necessaria la presenza di Milano per ricreare un equilibrio. E quindi Milano viene ricostruita, già nel 1167: la firma della Lega Lombarda si accompagna alla ricostruzione della città, evocata nel celeberrimo bassorilievo di Porta Romana, oggi al Castello Sforzesco, in cui si vedono i milanesi che rientrano in città, dietro il loro arcivescovo Galdino: tanto per far vedere che l’identità cittadina è sempre in bilico fra il comune e la Chiesa ambrosiana.
Problemi interni trattengono l’imperatore in Germania per alcuni anni. Solo nel settembre del 1174 può ridiscendere in Italia.
I PRODROMI (2): L’ASSEDIO DI ALESSANDRIA (1175)
Il primo obiettivo di Federico, sceso attraverso il valico del Moncenisio, fu la città di Susa. Ciò bastò perché molte città filoimperiali abbandonassero la Lega. Il successivo obbiettivo fu Alessandria, città antimperiale per eccellenza; ma la stagione era già inoltrata.
Le fortificazioni di Alessandria e la tenacia dei suoi difensori si rivelarono un ostacolo troppo arduo da superare, nonostante che l’imperatore del Sacro Romano Impero potesse fruire degli effettivi e di tutti macchinari ossidionali necessari per espugnare una città. A partire da fine ottobre, l’esercito tedesco trascorse un rigidissimo inverno davanti alle porte della roccaforte, ottenendo il solo risultato di dar modo alla lega di riprendersi e radunare un cospicuo esercito da contrapporgli… ma l’assedio non si risolveva, e nell’aprile 1175 Federico tentò il tutto per tutto cercando di entrare in città tramite le gallerie scavate dai suoi minatori. Ma i difensori se ne accorsero e, dopo aver eliminato il pericolo uccidendo gli addetti allo scavo, condussero una sortita che permise loro di incendiare le macchine tedesche. All’imperatore non rimase che rinunciare alla prospettiva di conquistare la città e prepararsi ad affrontare l’esercito della lega, ormai prossimo.
Tra Casteggio e Voghera, nel maggio del 1175, l’esercito imperiale e quello della lega sono uno di fronte all’altro, ma sono entrambi intimoriti dalla prospettiva della battaglia. Si tentano delle trattative che falliscono. Barbarossa ha così modo di entrare in Pavia e trascorrervi l’inverno alla ricerca di alleati e rinforzi sia dall’Italia che dalla Germania. Tuttavia, il cugino Enrico il Leone, duca di Sassonia e suo rivale, gli rifiutò l’aiuto.
L’inverno 1175-1176 vede i due avversari cercare di radunare più forze possibili. Le cifre sono incerte per entrambi i contendenti. Così Frediani sull’esercito imperiale:
Quando arrivò la stagione bellica, Federico poteva disporre di un modesto contingente arrivato da Oltralpe attraverso il passo di Lucomagno; al suo comando c’era il cancelliere dell’impero, l’arcivescovo di Colonia Filippo, e tra i suoi maggiorenti spiccavano l’arcivescovo di Magdeburgo, il langravio di Turingia, il duca di Zahringen e il conte di Fiandra. Il Barbarossa li ricevette a fine maggio a Como, e di lì i tedeschi si spostarono per congiungersi con le forze alleate italiane, principalmente tramite da Pavia e dal marchesato del Monferrato. Per una delle campagne che reputava più importanti per il suo prestigio l’imperatore, il sovrano più potente dell’impero d’occidente disponeva solo di un migliaio di cavalieri tedeschi e di qualche migliaio di alleati italiani, in gran parte provenienti da Como, sebbene si aspettasse di rimpinguare le proprie forze a Pavia.
Un cronista coevo all’episodio cita esplicitamente 50 cavalieri da Lodi, 200 da Piacenza, 300 da Vercelli e 900 da Milano, più un numero imprecisato di cavalieri dalle altre città lombarde e venete. Le cifre sulla fanteria sono più incerte ma devono pensarsi attorno a qualche migliaio, forse tre o quattromila.
Nel maggio del 1176, l’imperatore è quindi a Como, dove ha ricevuto i rinforzi dalla Germania. Il suo intento è tornare a Pavia per ricongiungersi con le forze italiane sue alleate. Le forze della lega cercano di impedirglielo. Da questa precisa ragione strategica nascono le condizioni perché la battaglia possa avere luogo.
I milanesi e gli alleati della lega escono dalla città. Come dice Barbero:
I milanesi si portano dietro anche quello che da molto tempo è il simbolo della loro città quando va in guerra, il carroccio. Non si tratta di un’idea specificamente milanese e nemmeno italica: si trova anche altrove nel Medioevo quest’uso di portare in guerra un carro tirato da buoi, intorno a cui le truppe si possono aggregare. Nelle raffigurazioni risorgimentali il carroccio era una macchina gigantesca, con una folla sopra. In realtà il carroccio lo tenevano in sacrestia e doveva uscire dalla città attraverso le stradine strette e le porte della cinta muraria, e quindi in realtà era un comunissimo carro agricolo, un grande carro da fieno, dipinto di colori vivaci, di bianco e di rosso; ma aveva un’enorme valenza simbolica. Ci piantavano sopra un bel tronco di pino, ci appendevano lo stendardo della città con la croce rossa in campo bianco, e ne traevano una grande forza morale in battaglia. Non soltanto per motivi simbolici, ma anche perché nel caos spaventoso del combattimento rappresentava un punto di riferimento sicuro, specialmente per gli uomini a piedi, che erano tutti artigiani e mercanti, e non facevano la guerra di mestiere. L’ordine era: state tutti intorno al carroccio, lo stendardo si vede da lontano, e lì si piantano le picche per terra.
LA BATTAGLIA
1. L’intercettamento
La mattina del 29 maggio 1176 l’esercito della lega si incamminò a scaglioni alla volta di Legnano, ai margini dell’area sotto il controllo di Milano, per bloccare la via d’accesso a quest’ultima. Il trasferimento avvenne con una relativa calma, nella convinzione che l’imperatore fosse ancora lontano: si diceva, secondo quanto riportato negli annali piacentini, che fosse addirittura a Bellinzona. In realtà Federico, che stava tornando a Pavia, aveva pernottato a Cairate, sull’Olona, a nord-ovest di Legnano, e la mattina stessa si era rimesso in marcia alla volta della linea del Ticino.
La cavalleria bresciana e milanese arriva a Legnano, circa 20 km lontano da Milano, con l’intento di perlustrare la zona verso Como. Poi arriva anche la fanteria con il Carroccio, che si dispone davanti ad un fossato scavato appositamente o forse un dirupo naturale, così da avere le spalle protette.
Gli esploratori non fecero neanche cinque chilometri che, tra Legnano e Borsano, verso mezzogiorno si ritrovarono di fronte l’avanguardia dell’esercito imperiale, costituita da 300 cavalieri germanici. I due contingenti vennero subito alle armi, e probabilmente i lombardi vennero raggiunti da altri reparti di cavalleria, che resero ancor più pesante la superiorità numerica degli italiani.
La battaglia può ancora essere evitata senza troppe conseguenze tattiche per entrambi.
2. L’attacco imperiale
E’ il momento decisivo: se l’imperatore si rifiuta di intervenire, la scaramuccia rimarrà un fatto isolato. Tuttavia, una serie di fattori devono essere intervenuti nella scelta del Barbarossa di intervenire: da un lato fattori di prestigio (il morale delle proprie forze e dei già scarsi alleati sarebbe sceso), strategici (la via per Pavia poteva essere chiusa) e infine religiosi. Nel Medioevo, la battaglia è vista anche come un “giudizio di Dio”. Il vincitore è tale perchè scelto da Dio. Considerando inoltre lunghi anni che l’imperatore aveva passsato avanti e indietro le Alpi per sottomettere i riottosi comuni italiani, la possibilità di poterli sconfiggere in campo aperto dovette sembrare ghiotta.
Avvertito dello scontro in atto, l’imperatore rifiutò di accettare il consiglio del suo stato maggiore, che gli suggeriva di sottrarsi a un combattimento prima di aver riunito tutti gli effettivi a disposizione; “ritenendo indecoroso per la dignità imperiale fuggire di fronte al nemico”, scrive un annalista di Colonia, intervenne nella lotta alla testa del resto della cavalleria.
L’irruzione di Federico sul campo di battaglia sposta l’equilibrio a favore imperiale. Così scrive Barbero:
La cavalleria lombarda affronta la cavalleria tedesca, e succeda quello che deve succedere: i tedeschi sono tutti professionisti, nobili che vanno a cavallo fin da bambini, che sanno fare solo quello ma lo sanno fare molto bene. I lombardi, non tutti ma in parte, sono gente che ha fatto i soldi e si è comprata il cavallo da poco. Il risultato è che i tedeschi vanno avanti e i lombardi vanno indietro, si sbandano, si disperde la cavalleria milanese, e a questo punto potrebbe anche finire lì: di morti non ce n’erano mai tanti in questi scontri, non per niente i cavalieri erano ben corazzati, e aggiungiamo che se andavano in guerra è perché sapevano benissimo che la guerra è un meraviglioso affare in cui se ti va bene butti giù da cavallo l’avversario, ti prendi il suo cavallo, che vale quanto una Ferrari, e te ne torni a casa felicissimo; nessuno ha voglia di farsi ammazzare. Poteva essere una scaramuccia che finiva lì, ma il Barbarossa a questo punto decide che è lui a non accontentarsi.
La cavalleria della lega fugge, forse addirittura fin verso Milano e lascia i fanti privi di protezione. La battaglia sembra vinta ma Federico vuole e ha bisogno di una vittoria totale:
A quel punto comaschi e tedeschi pensarono bene di approfittare dell’apparente debolezza del nemico appiedato e caricarono con tutto l’esercito: “L’imperatore allora, vedendo che i militi lombardi si erano dati alla fuga e che erano rimasti solo dei fanti, sia pure in buon numero, credette di poterli facilmente superare”, scrive il contemporaneo arcivescovo di Salerno Romoaldo.
3. La fanteria lombarda resiste
La scelta di intervenire da parte del Barbarossa è stata decisiva perchè la battaglia avesse luogo. L’attacco della cavalleria imperiale contro la fanteria è un altro momento decisivo. Se la fanteria cede, il Carroccio è perduto e con esso l’intero esercito; il Barbarossa potrebbe presentarsi davanti Milano, assediarla e confidare sulle altre forze lasciate a Pavia. Così Barbero:
Allora succede quello che nel Medioevo capita ogni tanto, anche se raramente, quando di fronte alla cavalleria c’è una fanteria molto numerosa, molto motivata e che soprattutto sa che ne va della pelle, perché quando si vedono venire addosso la cavalleria ci sono solo due possibilità: o si molla tutto e si scappa, e allora però solo quelli che corrono molto veloci ce la fanno, oppure si sta lì, si sta lì col cuore in gola, con una paura tremenda addosso, però tutti insieme, tutti stretti, c’è il carroccio in mezzo, qualche migliaio di fanti a piedi, le picche ben piantate, ad aspettare che arrivino dentro i tedeschi. E i tedeschi arrivano dentro ed effettivamente si sbandano, si fermano, qualcuno finisce sulle picche, comincia una mischia nella quale nonostante tutto la fanteria milanese tiene: se arretrano, comunque sono talmente tanti che non riescono neanche ad arretrare. Tengono, la battaglia si spezzetta in una serie di mischie individuali, i cavalieri a questo punto hanno perso la loro forza d’urto, che è la cosa principale: tutti quelli che li descrivono, e specialmente quelli che vengono da un altro mondo come i bizantini o gli arabi, dicono che un cavaliere occidentale quando carica è una forza irresistibile, sfonderebbe le mura di una città, ma solo quando carica – quando la carica è finita, il cavaliere è uno come gli altri.
Le fonti non sono chiare. Sembra che la fanteria comunale fosse disposta su un semicerchio di 2 o 3 km attorno al Carroccio, su più linee, con le lance ben piantate verso l’esterno.

La resistenza della fanteria lombarda è decisiva, come scrive Frediani:
Ebbe inizio una serie di tentativi di sfondamento da parte dei cavalieri germanici, che però andarono a cozzare contro il muro di scudi e lance che i lombardi avevano eretto a difesa loro e del Carroccio. Forse i fanti costituirono più linee difensive, di cui gli imperiali riuscirono a valicare le prime quattro, prima di trovare un ostacolo insormontabile nella quinta; almeno, ciò è quanto racconta Goffredo di Viterbo, uno dei cronisti meno avari di informazioni e più vicini all’evento.
4. L’imperatore cade da cavallo: la rotta dell’esercito imperiale
Le sorti della battaglia si capovolgono. Legnano ha molto in comune con la battaglia di Zama, dove il ritorno della cavalleria numidica e italica segnò il successo di Scipione sulla fino ad allora invitta fanteria annibalica.
A quanto pare, furono i bresciani ad avventarsi per primi sugli avversari, piombando loro addosso improvvisamente e su un fianco, scompaginandone i ranghi e dando finalmente ai propri commilitoni a piedi il respiro di cui avevano un disperato bisogno. Man mano che anche gli altri contingenti si riversavano addosso agli imperiali, si vide come il numero dei lombardi fosse nettamente superiore a quello dei tedeschi, tanto da far dire ai cronisti germanici che i loro soldati avevano combattuto contro un esercito immenso.
Federico Barbarossa, nel centro della mischia come ogni buon re medievale, viene balzato giù di sella.
Gli imperiali non furono in grado di opporre resistenza a lungo. Cadde il loro portastendardo, che finì sotto gli zoccoli del cavallo dopo che una lancia lo aveva trapassato, ma il colpo definitivo al morale dei tedeschi lo diede la caduta da cavallo dello stesso Federico, che per un pezzo scomparve nella calca. Ciò costituì, verso le tre del pomeriggio un orario attestato tanto negli annali bergamaschi che in quelli veronesi – il segnale definitivo della fuga di massa dell’esercito germanico, che proseguì fino al Ticino con il fiato degli avversari sul collo; i lombardi riuscirono a uccidere parecchi nemici mentre attraversavano il fiume, e altri li videro affogare sotto il peso delle loro armature.
E’ soprattutto ciò che accade dopo questo avvenimento a decretare il successo della Lega. L’imperatore riappare a Pavia dopo molte ore, ferito, lacero, insomma poco regale. La voce della sua morte si era già diffusa. Nel frattempo, i milanesi possono diffondere il “bollettino della vittoria”, che traggo da Frediani:
‘Lo scudo dell’imperatore, il vessillo, la croce e la lancia sono in nostro possesso. Trovammo tra le scorte molto oro e argento; il bottino è tale, che non crediamo si possa agevolmente stimare: le quali cose non riteniamo tuttavia di nostra proprietà, bensì desideriamo che siano di comune proprietà del papa e degli italiani’, come riportato da Rodolfo di Diceto. Al bottino già cospicuo rinvenuto nel saccheggio del campo tedesco, si sommavano poi i molti prigionieri, anche di rango, come il conte di Andechs Bertoldo, il nipote dell’imperatrice e il fratello dell’arcivescovo di Colonia, oltre a 500 comaschi.
La vittoria non è tanto nel numero di morti (incerto) quanto nella fine della volontà di Barbarossa e degli imperiali di continuare la lotta. L’imperatore scrive a papa Alessandro e chiede la sua mediazione per la pace.
LE CONSEGUENZE
L’Impero e i Comuni firmarono una tregua di ben sei anni, che le due parti passarono in lunghi preparitivi per un accordo, che verteva sui seguenti punti: il riconoscimento dell’autorità imperiale sulle città italiane e il versamento di un tributo e, soprattutto, la garanzia delle libertà e degli ordinamenti ereditati dai padri e sanciti dalle istituzioni comunali. Così Frediani:
E fu proprio ciò che i comuni ottennero sei anni dopo, nella pace di Costanza del 1183: autonomia di elezione dei magistrati, di riscossione delle imposte, di amministrare la giustizia, di fortificare e di stipulare alleanze, pur sotto l’alta giurisdizione dell’imperatore.
I Comuni avevano quindi vinto, perché la pretesa imperiale di amministrarli direttamente era fallita. La battaglia di Legnano fu quindi, per usare termini di analisi militare, un conflitto perfettamente clausewitziano, in cui la battaglia fu la diretta continuazione di due idee politiche radicalmente differenti: l’autorità imperiale, proveniente dall’alto, e quella comunale proveniente dal basso. Due principi di potere contrapposti e irriducibili l’uno all’altro. Se è quindi vero dire che Legnano non fu una battaglia di italiani contro tedeschi (dato che nell’esercito imperiale militavano non pochi italiani) è però vero che i contendenti avevano ben chiaro per cosa lottavano: come detto, due idee radicalmente diverse di concepire il potere (cosa che non esclude ovviamente le più banali motivazioni opportunistiche e campanilistiche, sia chiaro). E’ da questo punto di vista che, personalmente, ritengo si possa dire che Legnano fu una battaglia tra la concezione italiana (o nord italiana se vogliamo essere più precisi) di potere locale e quella tedesca di potere imperiale.
Concludo con una nota a margine: Alberto da Giussano e la Compagnia della Morte sono, con tutta probabilità, leggende nate circa un secolo dopo la battaglia, ecco perchè non appaiono in questo articolo. Voglio invece ricordare in chiusura il nome del comandante dell’esercito della Lega: Guido da Landriano, già più volte console di Milano e poi podestà di altre città lombarde.
BIBLIOGRAFIA
Le grandi battaglie del Medioevo, di Andrea Frediani, Newton Compton, 2007.
European Medieval Tactics (1), di David Nicolle e Adam Hook, Osprey Publishing, 2011.
29 maggio 1176. Barbarossa sconfitto a Legnano, di Alessandro Barbero, Editori Laterza, 2012.


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Bellissimo articolo!
L’analisi della battaglia con le foto é poi una chicca, adoro quando le trovo.
Mi hai fatto tornare in mente la lotta fra i Comuni e l’Impero, era dai tempi delle superiori che non ci pensavo.
Forse questa é una delle battaglie più importanti della nostra storia, se i Comuni avessero perso, ora saremmo tedeschi probabilmente 😅
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E io tremo all’idea di come sarebbe la cucina italiana hahaha
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