di Stefano Basilico
«Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce — umana sorte! men infelice degli altri chi men la teme.»
Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis – lettera del 13 maggio
«Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.»
Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, vv.91-96

Un lungometraggio permeato di «humana pietas». Un messaggio profondo: il senso del ritorno a casa, spoglie mortali ormai consunte dal tempo che tuttavia conservano incorrotto l’oggetto del ricordo, un senso di ritrovata pace in chi ha reso possibile questo ritorno: malgrado la consapevolezza della caducità delle cose terrene.
Un montaggio molto curato. Immagini che si susseguono, sul filo della memoria: nella memoria di chi c’era, di chi ricorda, di chi è rimasto; di chi è andato a ricercare i fili di questa memoria: per riannodarli. Il dolore silenzioso e riservato di una donna, nell’arco dei decenni, quale unico punto d’incontro tra un padre e un figlio che mai ebbero l’opportunità di conoscersi. Scenari marini, con le onde cristalline del Mar Rosso, in alternanza con un paesaggio di colline piemontesi: ombre lunghe, boschi e gruppi di case; come a riallacciare un discorso antico, in un legame indissolubile tra l’Africa Orientale Italiana e la Provincia di Cuneo: da Castiglione Falletto a Peveragno. Peveragno, paese di nascita del Maggiore Pietro Toselli, caduto al Passo dell’Amba Alagi il 7 dicembre 1895 alla testa del suo leggendario IV Battaglione di Ascari: quel Pietro Toselli che nelle lettere al fratello Enrico, rimasto in patria, aveva descritto a lungo il suo sogno di fondare sull’altopiano etiopico la “Nuova Peveragno”. Dopo l’annientamento degli Ascari del IV, famosi per il fiocco nero sul «tarbusc», era toccato al Maggiore Giuseppe Galliano con il suo III Battaglione di truppe indigene misurarsi in un impari scontro con le truppe del Negus Menelik, resistendo per oltre un mese a Macallé, dopo essersi asserragliato nel forte di Enda Yesus. E proprio a Macallé era intitolato il Sommergibile della Regia Marina dove era imbarcato il Sottocapo silurista Carlo Acefalo: la cui figura aleggia sul lungometraggio, e ne è il protagonista postumo.


Una curatissima fotografia, la voce narrante che si intercala con i dialoghi, diari e documenti d’epoca; il viaggio, sia geografico che a ritroso nel tempo; la inevitabile trafila dei rapporti diplomatici tra Stati, un itinerario di avvicinamento: storico e umano al tempo stesso. Alcune brevi sequenze a ricostruire le vicende di quei giorni di giugno del 1940: immagini dall’uscita del battello dal porto di Massaua alla navigazione in Mar Rosso in direzione di Port Sudan, a caccia di naviglio nemico; il malessere ingravescente dell’equipaggio, messo in gran parte non in grado di svolgere i suoi compiti per un’intossicazione da cloruro di metile, nemico subdolo ed invisibile. Il sommergibile che viene abbandonato, dopo che uscito di rotta era andato a infrangersi contro l’isolotto roccioso di Barra Musa Kebir, in una notte di tempesta: il lento scorrere del tempo, dopo essere riusciti a sbarcare in un territorio ostile; l’attesa, in un alternarsi di angosciosa incertezza e di speranza di salvezza legata all’arrivo di una unità amica. L’equipaggio del Macallé fu in effetti tratto in salvo dal Sommergibile Guglielmotti, ma prima di poter lasciare l’isolotto gli uomini al comando del Tenente di Vascello Alfredo Morone avevano dovuto seppellirvi un loro compagno, che già molto provato dall’intossicazione non era sopravvissuto agli stenti del naufragio.
Il ritorno in quei luoghi, a distanza di decenni, per compiere come detto un gesto di «humana pietas»: riportare a casa i resti di Carlo Acefalo, perché possa riposare accanto alla madre Francesca Destefanis. Una postura di grande rispetto nel tratto dei protagonisti della spedizione, malgrado la grande e certosina cura degli aspetti tecnico-scientifici per il compimento della missione. Vento e sole nel silenzio: lo sbarco sull’isolotto, quasi procedendo in punta di piedi in un paesaggio che si indovina aver conservato un aspetto non dissimile da quello che accolse i naufraghi, ormai vari decenni or sono. Le parole dell’esperto in Archeologia Forense, ad accompagnare e raccontare – come coinvolgendo lo spettatore, rifuggendo da aridi tecnicismi professionali – le fasi di identificazione e raccolta di ciò che rimane del marinaio sepolto. Poi il ritorno a casa, con la cerimonia ufficiale e la tumulazione con gli onori militari; l’ultima immagine, la foto di Carlo Acefalo accanto a quella di sua Madre, e poi la dedica a tutti i sommergibilisti che non hanno avuto la fortuna di poter tornare a casa: né allora, né mai. Con un pensiero finale dedicato dal regista ai 44 marinai caduti sul sommergibile argentino ARA San Juan, scomparso in Atlantico Meridionale nel novembre 2017.
Una visione che ha avuto l’effetto di suscitare un insieme di riflessioni, anche sulla base di letture e studi più antichi: dalla letteratura alla storia, e poi alla tossicologia industriale. Il primo diretto riferimento è Ugo Foscolo, quasi inevitabilmente: il fascino incorrotto, la potenza di una prosa e di una poesia che richiamano anche il messaggio del poema di Tito Lucrezio. Il senso di un’evoluzione quasi filogenetica: quell’umanità primitiva potentemente disegnata dal grande poeta latino nel libro V del De rerum natura (vv. 925-1010), che progredisce nel nome di un patto condiviso; il patto fondativo di un embrione di società civile, la societas come alleanza tra individui in nome della comune condizione umana:
«Dal dí che nozze e tribunali ed are»…


La guerra navale
Lo studio e l’approfondimento delle strategie e tattiche per il controllo di mari e oceani interpretati come strumento della politica e della dialettica tra i popoli e le società, tra gli Stati e gli Imperi: da Salamina a Milazzo e alle Isole Egadi, dalla Meloria a Lepanto, da Gravelines a Capo Trafalgar, da Tsushima allo Skagerrak; i concetti di “potere marittimo” e “potere navale”. In questo caso, il lungometraggio ci porta nell’epoca della Seconda Guerra Mondiale: dove la accresciuta e micidiale efficacia dell’arma sottomarina (che già aveva dimostrato il suo grande potenziale nel precedente conflitto 1914-18, nel quale ci fu un momento in cui i successi colti dai battelli della Kaiserliche Marine sembrarono poterne decidere l’esito a favore degli Imperi Centrali) insieme soprattutto al potere aeronavale marcarono un salto epocale, letteralmente un ante e un post.
Ma dove, ugualmente, l’episodio del Macallé si inserisce in un quadro più ampio: e dove emerge una volta di più la sostanziale inadeguatezza della Marina Italiana rispetto allo scenario bellico che si andava delineando. Situazione della quale, già all’epoca dei fatti, c’era consapevolezza: paradigmatico, a tale proposito, un documento del 14 Aprile 1940 a firma dell’Ammiraglio Domenico Cavagnari, con il quale l’allora Capo di Stato Maggiore della Marina Militare esprimeva fondate perplessità su un conflitto nel quale appariva ormai imminente il coinvolgimento dell’Italia. Il documento riveste indubbiamente assoluto fondamento, in particolare nell’esprimere ampie riserve sui compiti di strategia offensiva inizialmente attribuiti alla Arma marittima; tuttavia, non può non suonare quasi paradossale che sia stato proprio Cavagnari – che fu il responsabile della politica navale italiana a far tempo dal 1933, condizionandone di fatto gli orientamenti dottrinari nonché le decisioni sulla costruzione di nuove unità ovvero l’ammodernamento di altre già in servizio nella flotta – a spazzare illusioni a lungo cullate, nonché errori concettuali.


Come ben noto infatti, la politica navale italiana, successivamente alla Prima Guerra Mondiale, fu caratterizzata da fasi diverse anche non del tutto coerenti tra loro. Da un lato, dopo essersi dovuti misurare con la flotta austro-ungarica, rimase la sensazione che l’epoca delle corazzate fosse ormai giunta al tramonto: essendo conseguentemente necessario dare impulso all’aviazione e all’arma sottomarina; d’altro canto, le polemiche e le gelosie reciproche tra gli Alti Comandi Militari influirono negativamente sulla possibilità di proseguire seguendo una visione più moderna. In estrema sintesi, due furono gli elementi che impedirono alla Regia Marina Italiana di costruire una Marina che fosse all’altezza: 1) il fare sistematicamente riferimento alla Francia come nemico, nella prospettiva della costruzione e varo di nuove unità, senza tener conto che il vero avversario di riferimento avrebbe dovuto essere la Royal Navy britannica; 2) non considerare la costruzione di navi portaerei (rinunciando così aprioristicamente alla componente aeronavale), sulla base di un assioma totalmente erroneo: che la stessa penisola italiana, dovuto alla sua posizione geografica, fosse una potente e gigantesca portaerei.
Era stato proprio lo stesso Cavagnari, in un discorso alla Camera in data 15 marzo 1938, a ribadire la assoluta appropriatezza della scelta di non puntare sulla costruzione di navi portaerei, dopo che a partire dal 1937 aveva preso corpo un colossale programma che prevedeva la costruzione e il varo di una nuova serie di quattro corazzate (classe “Littorio”): veloci e potentemente armate, totalmente adeguate all’impiego nello scacchiere del Mar Mediterraneo. In precedenza, si era deciso di abbandonare il progetto delle corazzate classe “Caracciolo” (unità che avrebbero potuto adeguatamente misurarsi con le omologhe britanniche): optando invece per sottoporre a lavori di profonda ristrutturazione le più antiquate navi da battaglia della classe “Duilio” e classe “Cavour”, totalmente sulla misura delle omologhe unità francesi. Si decise inoltre di costruire e varare una lunga serie di incrociatori: tra essi, per esempio, le unità della classe “Condottieri”, classe “Zara”, classe “Trento” e classe “Cadorna”. Il tutto comportò un impegno tecnico e finanziario molto oneroso, che andò a detrimento della possibilità di poter sviluppare una flotta equilibrata e omogenea nelle sue diverse componenti, anche relativamente alle forze leggere di superficie.
I sommergibili



Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. l’Italia contava con una delle prime flotte subacquee del mondo: un totale di 117 battelli, di cui 40 del tipo “oceanico” e 77 del tipo “costiero”. Tuttavia, alla grande numerosità non corrispondeva un adeguato livello qualitativo dal punto di vista tecnico né una dottrina strategica per l’impiego della flotta; per ciò che attiene alle caratteristiche tecniche, oltre alle deficienze generali nel campo per esempio delle apparecchiature di scoperta o delle centrali di direzione del lancio dei siluri, così come dei tempi lunghi della fase di immersione o delle eccessive dimensioni delle torrette, nel caso dei battelli di base a Massaua il clima torrido del Mar Rosso rappresentò un aspetto di alta e specifica criticità. Per esempio, la grande umidità atmosferica risultò in grado di influire pesantemente sulla efficienza delle apparecchiature di bordo, con conseguenti dispersioni nei circuiti elettrici e negli apparati motore; anche se si era tentato di ovviare a tale inconveniente mediante l’installazione di impianti di condizionamento dell’aria, il fatto che i medesimi impianti utilizzassero come gas refrigerante il cloruro di metile portò già nel periodo prebellico all’insorgenza di quadri acuti di intossicazione collettiva a bordo dei battelli, come conseguenza delle esalazioni del composto, particolarmente subdolo in quanto praticamente inodore.
Le segnalazioni di tali eventi non ebbero seguito, malgrado la tipicità delle sindromi osservate (effetto acuto a livello del sistema nervoso centrale, con successivo obnubilamento del sensorio ingravescente al protrarsi dell’esposizione, fino alla perdita di coscienza: quadro che può condurre al coma e poi all’esito letale) rispetto alle caratteristiche di tossicità dell’agente chimico. All’inizio delle ostilità, i battelli della Regia Marina Italiana uscirono pertanto in missione con gravi perdite di cloruro di metile dall’impianto di condizionamento dell’aria: immediatamente prima del caso del Macallé, particolarmente grave fu la situazione verificatasi a bordo del sommergibile oceanico Archimede il cui equipaggio andò incontro a una massiva sindrome di psicosi manifestatasi attraverso altalenanti fasi di euforia, depressione, smania, allucinazioni e frenesie, comportamenti di etero- e auto-aggressività, fino al decesso di alcuni marinai prima del faticoso rientro del battello ad Assab; a fine agosto, l’Archimede sarebbe uscito per una nuova missione, dopo la avvenuta modifica dell’impianto di condizionamento in modo da poter utilizzare il freon come gas refrigerante.



I successivi studi specialistici nel campo della Tossicologia, medica e industriale, avrebbero permesso di comprendere appieno la dinamica degli avvenimenti registrati sugli equipaggi dei sommergibili italiani. Un quadro di intossicazione acuta: paradigma da un lato dell’applicazione del concetto di dose secondo la geniale intuizione di Paracelso (1493-1541), padre della tossicologia come disciplina autonoma: «Omnia venenum sunt: nec sine venenum quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non sit»; d’altro canto, l’analisi delle proprietà chimico-fisiche del cloruro di metile come elementi in grado di condizionarne le proprietà tossicocinetiche e tossicodinamiche: la marcata lipofilia a determinarne la distribuzione selettiva prima e il meccanismo dell’azione lesiva poi, quale analogo paradigma dell’applicazione dei principi espressi da Mateo Buenaventura Orfila (1787-1853), padre della moderna tossicologia scientifica.
La storia, in particolare a far tempo dalla Prima Guerra Mondiale, ha fornito numerosi – e drammatici – esempi di applicazione delle conoscenze tossicologiche a scopo bellico. Il caso del Regio Sommergibile Macallé, nella sua peculiare atipicità, può essere considerato un vero “caso di scuola”: come tale, ha potuto essere citato in un manuale accademico specialistico ovvero essere oggetto di presentazione e discussione in occasione di lezioni e seminari universitari.

La visione di questo lungometraggio ha riproposto, nel suo insieme, un intreccio di variegate emozioni e sensazioni: una serata che è stata un compendio di autentico e profondo umanesimo.
Poi, un pensiero subitaneo: il ricordo di una lettura antica che reca la memoria di Bernhard Herrmann, un marinaio tedesco imbarcato sull’incrociatore ausiliario HSK Atlantis e ugualmente sepolto in terre lontane. Deceduto conseguentemente a una caduta accidentale, nel dicembre del 1940 venne sepolto nelle Isole Kerguelen; un arcipelago ubicato nella parte meridionale dell’Oceano Indiano che James Cook aveva chiamato “Isole della Desolazione”, di cui il giornalista e scrittore Jean Paul Kauffmann ha lasciato questa descrizione:
“Spazzate senza tregua dai venti implacabili dell’ovest che soffiano tutto l’anno con la forza di una tempesta, isolate in mezzo a un mare in perenne burrasca, con le onde spietate che s’infrangono su nude rocce taglienti e scoscesi speroni in basalto, perse nella nebbia e nella gelida pioggia che cade insistente a crudeli intervalli. Così si presentano, all’occhio di chi si avventura nell’oceano, le Kerguelen.”
«Dal dí che nozze e tribunali ed are»: mi piace poter pensare che anche Bernhard Herrmann possa un giorno essere riportato a casa, e sepolto in terra tedesca…

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