Dalle più semplici macchine ossidionali alle prime armi da fuoco.
Articolo di Carlo Cavazzuti
Non tanto spesso capita di vedere sugli schermi delle scene di assedio e ancor meno capita di leggerne in qualche romanzo. È presto detto il perché: sono dannatamente noiose!
Un assedio che si rispetti ha tempi morti lunghissimi fatti di preparativi, da parte degli assedianti, e di attese paurose per gli assediati; basti pensare che spesso le città venivano prese per fame e sfinimento attendendo anche anni prima di poterle dire conquistate. Immaginate voi di leggere o vedere lunghissime scene in cui non succede un bel nulla perché il comandante di turno ha deciso di prendere, proprio in questo modo, la città. Ma quando questo non succedeva come si conquistava un luogo fortificato?
Sin dai tempi più antichi si costruivano macchine ossidionali, capolavori di ingegneria bellica atti a fendere le difese della città, del castello, del forte o borgo che fosse.
Andiamo assieme a vedere cosa fossero queste macchine ossidionali, come e perché venissero utilizzate, ma prima vediamo di suddividerle per tipologia. Possiamo per prima cosa definirle: una macchina ossidionale, anche detta artiglieria, è qualsiasi oggetto costruito dall’uomo per fendere, danneggiare o distruggere le misure difensive altrui.
Innanzi tutto dobbiamo dividerle in artiglierie a freddo, ossia senza l’utilizzo della polvere da sparo, le più antiche, ma anche le più utilizzate nei secoli; le artiglierie a fuoco nate nel 1300; quelle manesche, cioè portate a mano dai soldati e infine quelle da posta.
Le artiglierie “a freddo”
Partiamo dalle artiglierie a freddo. Le prime a comparire con tracce descritte Dionisio di Siracusa il Vecchio nel 357 a.C., sono tutte quelle macchine che scagliavano proiettili grazie alla fisica meccanica. Esse si sono evolute nei secoli passando dalle prime macchine nevrobalistiche, azionate dalla forza sprigionata dalla torsione si una corda, sino a quelle a contrappeso in cui il proietto veniva scagliato grazie alla caduta di una massa calibrata o, addirittura, dalla trazione umana, tipiche dell’epoca medioevale.



La più antica di tutte è l’Onagro, una sorta di catapulta in grado di scagliare un masso di oltre sessanta chilogrammi a ben più di seicento metri di distanza.
Esso, sviluppato in epoca greca classica ebbe però il suo più grande utilizzo in epoca romana venendo adottato anche sulle galee come arma di bordo alla stregua dei cannoni dei secoli successivi. Altro non era che un lungo braccio di legno a cui era fissata una corda con un cesto il cui secondo capo veniva agganciato allo stesso palo principale diventando così una immensa frombola dello stesso tipo utilizzata dagli ausiliari romani o dal più famoso Davide contro Golia.
Sempre tra le nevrobalistiche troviamo la conosciutissima Catapulta. Essa si sviluppa ponendo direttamente sul braccio di azione una cavità che possa contenere il proietto permettendo una mira migliore e un carico offensivo molto maggiore, a discapito della gittata ridotta, arrivando a scagliare massi di centocinquanta chilogrammi a circa duecento metri di distanza. A differenza dell’Onagro che si evolverà in altre macchine ossidionali molto più efficienti, la catapulta rimarrà sostanzialmente la stessa per secoli, utilizzata per terra e per mare anche a scopo difensivo oltre che offensivo.
L’ultima delle macchine nevrobalistiche è altrettanto conosciuta anche grazie a una tavola del Codice Atlantico del nostro Da Vinci: la Ballista. Anch’essa sviluppata dai greci venne migliorata dai genieri di Alessandro Magno che ne escogitarono un utilizzo non prettamente ossidionale, modificando il sistema di trazione della corda dell’arco rendendolo meno ingombrante e permettendo di costruirne di più piccole e maneggevoli. I romani, carpito il segreto di queste armi, proprio dai macedoni, ne svilupparono una versione ancora più ridotta e maneggevole che denominarono Scorpione; le montarono sulle mura delle città, sulle navi e su carri da guerra utilizzandole come armi difensive e offensive su larga scala.


Il funzionamento è quello che possiamo vedere anche nelle moderne balestre con il solo fatto che l’arco tensivo, estremamente potente, poteva scagliare dardi anche di ottanta chilogrammi a quattrocento metri di distanza, era caricato con un martinetto a corda arrotolata. Nel medioevo, la scarsità di tecnici in grado di costruirne di efficienti e la complessità del loro utilizzo la portarono a essere messa un poco da parte rispetto ad altre macchine, magari più complesse e costoso, ma molto più efficaci. Nel XVI secolo, con l’affermarsi della polvere da sparo sui campi di battaglia, e l’ultima delle macchine d’assedio a scomparire. I secoli si affrettano avanti e se c’è una cosa che l’essere umano sa fare bene è sviluppare modi per distruggersi l’un l’altro e di seguito l’Onagro di epoca classica si evolve nelle macchine a contrappeso.
La prima di esse è il Mangano. Il braccio della frombola viene ora azionato a “braccia motrici”. Esso non è più fissato alla base della macchina, ma posto su un perno innalzato a formare il fulcro di una leva: da un lato ci sarà la corda con il cesto contenente il proietto, dall’altra dei lacci di trazione azionati dai soldati che, a forza di braccia, scagliavano il masso. Il Mangano permetteva di scagliare oggetti di quaranta chilogrammi sino a distanze superiori ai cinquecento metri e quelli meglio costruiti avevano il braccio montato su un perno girevole per poter orientare facilmente il tiro. Ma che evoluzione è se tira a meno distanza e proiettili più piccoli? Direte voi. L’evoluzione è nella facilità di costruzione e di puntamento che con l’Onagro era tutt’altro che alla portata di tutti. Il Mangano lo si poteva costruire nella metà del tempo con legni interi sgrossati e corse e, come detto, prevedeva la possibilità di cambiare angolazione ad ogni tiro.
Non contenti di questo, forse perché per quanto sottoposti a corvée faticare così tanto non piaceva ai soldati medievali, si arriva al Trabucco. Le prime tracce di questa macchina si trovano In Terra Santa dove vengono utilizzate dai mori per fendere le difese delle prime piazzeforti crociate. Il trabucco altro non è che un Mangano dove la forza delle braccia viene sostituita da un grosso pero in caduta. I più grandi, come il modello in foto, avevano addirittura ruote in cui camminavano all’interno degli uomini per poter permettere al contrappeso di rialzarsi grazie a delle carrucole.
I modelli più grandi scagliavano pesi superiori ai cento chilogrammi a ben cinquecento metri di distanza. Sì, è vero, si perse la possibilità di brandeggio, ma si guadagnò in forza. Non erano facili da costruire e nemmeno da calibrare, ma una volta pronti sarebbero stati sufficienti pochi colpi per abbattere le mura più resistenti.
Le artigliere “da posta”
Vegezio, nel suo Epitoma rei militaris del IV secolo, fornisce diversi esempi di macchine ossidionali da posta ossia quelle passive da posizionamento, quelle da sfondamento e le mine. Esse, mutate ben poco nel corso dei secoli sono forse quelle più durature in quanto, alcune di quelle, sono utilizzate a tutt’oggi come l’Ariete, fornito ad alcuni reparti delle forze dell’ordine per sfondare le porte dei criminali.
In questa distinzione andiamo a porre per primo proprio l’Ariete: un grosso palo solitamente attaccato a una struttura in legno da corde o catene utilizzato per sfondare porte o muri grazie alla sua oscillazione.

(Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, III, 7.19.215-217.)
Sempre tra queste e spesso associata all’Ariete c’è la Vinea o Vigna, una tettoia mobile di vimini che si posizionava formando lunghi corridoi sotto i quali i soldati potevano muoversi in relativa sicurezza. La sua diretta evoluzione è la Testuggine, costruita in legno con il tetto spiovente coperto di argilla e pelli era in grado di assorbire urti maggiori a quelli che avrebbero distrutto il vimini. Il Muscolo è la versione ancora più robusta cioè una tettoia in legno, solitamente montata su ruote, che veniva sovrastata da uno strato di cemento e mattoni per sostenere il peso di oggetti molti pesanti lanciati dagli assediati.
A volte, però, c’era chi le mura non le voleva proprio abbattere e si limitava a scavalcarle con macchine create proprio a questo scopo: il Sambuco e il Tolleno.
Il Sambuco venne utilizzato per la prima volta dai greci, ma la prima traccia scritta la troviamo nel 214 a.C. con l’assedio di Siracusa. Esso altro non è che una ponte levatoio mobile di sambuco, resistente, leggero e flessibile, che veniva poggiato inclinato sulle mura permettendo ai soldati di salire su di esso e scavalcarle.

(Polibio, Le Storie, VIII, 5. Descrizione di Onagri e Sanbuche)
Il Tolleno è, invece, l’antenato del nostro moderno ascensore. In un cesto di vimini, in una botte, o in un qualsiasi altro contenitore in grado di trasportare un certo peso, prendevano posto uno o più soldati che venivano issati a forza di braccia fin sopra le mura grazie a un meccanismo del tutto identico a quello del Mangano: una leva di legno. E quando proprio si voleva fare le cose in grande si costruivano le torri d’assedio.
Anche queste inventate dai greci, sviluppate dai romani e utilizzate sino al XVI secolo con mille e più varianti.
Erano vere e proprie torri montate su ruote con al loro interno lo spazio per alloggiare decine di tiratori o alcune coppie di buoi per poterle spostare sul campo di battaglia sino a ridosso delle mura cittadine. Al loro interno prendevano posto i soldati che potevano salire sino alla sommità protetti da strutture di legno e in casi rari anche in mattoni e calce. Su di esse venivano montate altre macchine ossidionali: Balliste, Catapulte e a volte anche piccoli Trabucchi e Mangani così da continuare a tormentare le mura lungo il percorso dal luogo di costruzione della torre alle mura stesse.
Altre volte erano montate in forma sessile al solo scopo di poter avere più gittata per gli arcieri o le altre macchine su di esse, insomma, torri contro torri come una gigantesca partita a scacchi. Altre tre macchine ossidionali da posta le troviamo come barricate mobili o semi mobili che i soldati spingevano avanti a loro per proteggersi. Il Pluteo era una piccola barricata di legno e pelli bagnate di forma semicircolare, o a angolo retto, montata su tre ruote che veniva spinta avanti per riparare i soldati o coloro che spingevano le altre macchine d’assedio nelle posizioni più ravvicinate alle mura. Una sua variante sviluppatasi in epoca medievale è la Panthera ossia una barriera di legno su ruote munita di sperone e a volte con ruote munite di falci e fori per far fuoriuscire le lance dei soldati riparati dietro di essa.
Quando diverse di queste barricate puntute venivano montate sui lati di un carro in modo da proteggere i soldati su esso quando avanzava, prendeva il nome di Plaustrella. Essa era molto utilizzata dal punto di vista difensivo specialmente in epoca comunale quando ne venivano costruite diverse e messe a barricata degli accampamenti o ancora a creare delle piccole cinte protettive mobili sul campo di battaglia. Solitamente erano spostate grazie alla trazione di buoi anch’essi riparati sotto delle Testuggini o delle Vinee. Il famoso carroccio della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa era proprio una Plaustrella.



Infine, ma non per importanza e anche con un poco di difficoltà, possiamo inserire l’ultima delle macchine ossidionali da posta.
Perché però con difficoltà? Perché non è una macchina vera e propria.
La Mina che tutti intendono è quell’ordigno esplosivo che salta al contatto con un corpo di qualche tipo, ma nei secoli passati essa era tutt’altro: una galleria sotterranea, scavata e puntellata, sotto le mura avversarie per giungere direttamente dentro la città o, una volta fatta crollare appositamente, per far cedere spezzoni di muro o torri intere dei difensori.
Si può ben capire che non sia una macchina, ma è altrettanto vero che è stata utilizzata in assedio sino all’ultima guerra mondiale guadagnandosi un posto di tutto rispetto se non tra le macchine ossidionali vere e proprie, almeno nelle tecniche d’assedio.
Le artiglierie “manesche”
Nelle armi d’assedio manesche vediamo una costante su tutte: la scala seguita subito dopo dalle pale e i picconi per riempire e scavare fossati o per costruire le mine di cui sopra; sempre presente fin dai tempi più remoti anche il rampino a corda utilizzato per agganciarsi alle mura e salire. Pochi hanno però idea di cosa sia un coltello da breccia o una falce muraria. Bene, il loro nome aiuta già un poco a comprendere cosa siano questi oggetti: il primo è un coltellaccio robusto munito di punte varie utilizzato per svellere le pietre delle brecce e una volta entrati in città per combattere corpo a corpo mentre la falce muraria era, per l’appunto, una lama a forma di falce montata su una lunga asta simile a una lancia per grattare la manta dai muri più alti o da lontano. Anch’essa, una volta entrati, veniva utilizzata come arma corpo a corpo.
Altre che poco si conoscono sono i carretti a mano delle fogge più assurde che venivano usate per farsi largo tra i nemici grazie alle innumerevoli lame poste su essi e, successivamente all’avvento della polvere da sparo, utilizzati come grandi granate a spinta facendo srotolare una lunga miccia. Più conosciuti, anche perché in questi giorni di guerra tra Ucraina e Russia sono tornati alla ribalta nelle immagini, i cavalli di frisia e i triboli. Uno la versione gigante dell’altro non sono che ferri acuminati posti a terra per bucare ruote, piedi o zoccoli o per impedire il passaggio in una strada.


Le artiglierie da fuoco
Infine, anche per filogenesi, arriviamo alle artiglierie a fuoco. Sviluppate a partire dal ‘300 si sono presto diffuse in tutto il mondo grazie alla semplicità di utilizzo e alla loro potenza sul campo.
La prima “ricetta” affidabile della polvere da sparo è descritta dal frate francescano e alchimista inglese Ruggero Bacone a metà del XIII secolo nell’opera “De Secretis Operibus Artis et Naturae” e consiste di sette parti in volume di Salnitro, cinque di carbone di nocciolo e cinque di zolfo. Bacone tiene a precisare che il composto è “ben noto a tutti”, dato l’uso che già allora se ne faceva per disturbare e spaventare le persone, aggiungendo che basterebbe creare ordigni più grandi con involucri in materiale solido per provocare danni molto maggiori. Le prime artiglierie a fuoco usate sul campo si registrano a Ghent, in Belgio, nel 1313, ma avevano forme ben diverse dagli odierni cannoni, come si vede nella prima immagine di un pezzo di artiglieria a fuoco in un testo di Walter de Milemete del 1326.
Ben presto si fusero Canones a Firenze, si fecero Bombarde a Udine e Brescia, Mortaretti e mortari a Ferrara, Falconi e Falconetti a Venezia. Nella seconda metà del 1400 non c’era esercito senza armi da fuoco, nel 1500 erano ormai di uso più che comune.
Le forme di queste armi erano e sono praticamente sempre le stesse: una camera di scoppio riempita di polvere e tappata dal proietto che scorre in una canna che viene puntata sul bersaglio lanciando direttamente o a parabola a seconda dei modelli che ben presto divennero maneschi con l’invenzione delle Bombardine, dei Mosconi, degli Archibugi, non più usati per gli assedi, ma per la guerra in campo aperto.
Ma chi erano gli uomini che costruivano e dirigevano queste macchine?
Colui che durante un assedio aveva il compito di dirigere le macchine e gli uomini a loro addetti veniva spesso conosciuto con il titolo di Mastro Tormentorum (Maestro dei tormenti). Egli era solitamente un cavaliere ormai avvezzo all’arte dell’assedio, ma molto spesso anche un civile di alta cultura: un Geniere, che aveva anche il compito di progettare e costruire le macchine stesse. Ci sono prove, se pur scarse, di monaci impiegati in questo compito.


Uno, forse il più famoso della sua epoca, era un tale Konrad Kyeser, l’autore del Bellifortis, di cui si è già parlato in un altro articolo che vi invito a leggere se non lo avete già fatto.
Ora che sapete con che cosa si espugnava una città forse sarete in grado di identificare il lavoro degli avi di alcune persone con cognomi particolari come Manganelli, Tolleni, Minati o Ballistini.