Le origini di Settimio Severo, l’imperatore venuto dall’Africa

In occasione dell’anniversario dell’ingresso di Settimio Severo in Roma (giugno 193 d.C.), dopo aver disperso le scarse forze fedeli a Didio Giuliano e aver ordinato l’esecuzione delle stesso, indaghiamo quali furono le origini sociali e culturali di questo importante imperatore. Scopriremo così il vero successo dell’impero: la capacità di integrare i popoli sottomessi.

La situazione nell’aprile del 193, cioè nel momento in cui Severo riceve notizia, a Carnuntum, dell’assassinio di Pertinace.

L’INGRESSO DI SETTIMIO SEVERO A ROMA

“Dopo aver fatto ciò Severo venne a Roma, e poiché era giunto a cavallo fino alle porte [della città] in abito equestre, indossò la toga civile e procedette a piedi: lo accompagnava l’intero esercito, fanti e cavalieri tutti quanti in armi.”

Cassio Dione in Storia Romana

I primi giorni di giugno dell’anno 193 d.C. videro l’ingresso in Roma del nuovo imperatore Settimio Severo con al seguito le proprie truppe, fra cui sicuramente vexillationes delle fedeli legioni della Pannonia, di cui Severo era stato governatore fino al momento della acclamazione imperiale (11 aprile 193).

Le fonti sono contrastanti su ciò che accadde esattamente a Roma. Severo, è certo, aveva ben preparato il suo ingresso. Il predecessore Didio Giuliano, considerato usurpatore di Pertinace e incapace di organizzare una resistenza, era stato ucciso su suo ordine. Una delegazione di senatori si era recata il 1° giugno ad Interamna, in Umbria e, alla ricerca di rassicurazioni, aveva reso omaggio al sovrano vittorioso.

Ancor di più, con un atto davvero senza precedenti, la guardia pretoriana, diretta responsabile dell’assassinio di Publio Elvio Pertinace (28 marzo 193), era stata attratta in uno spiazzo fuori città, circondata dalle truppe pannoniche e congendata con disonore, senza armi e senza stipendio; gli assassini dell’imperatore (ovvero i circa 200-300 pretoriani, che avevano dato l’assalto al palazzo imperiale e ucciso Pertinace nelle sue stanze) erano stati giustiziati.

Secondo il senatore Cassio Dione, storico e testimone degli eventi che di Severo fu solo parziale estimatore, l’ingresso dei soldati, dopo il clamoroso gesto di Severo di svestire i panni militari in favore di una toga civile, fu trionfale:

“Fu lo spettacolo più straordinario al quale avessi mai assistito: tutta la città, infatti, era agghindata di fiori e di allori, era ornata da paramenti variopinti e risplendeva per le fiaccole e l’incenso profumato. La gente, vestita di bianco e lieta, prorompeva in gioiose acclamazioni, e i soldati procedevano fieri in armi come durante la celebrazione di una festa; noi, infine, avanzavamo in base al nostro ordine. La folla smaniava per vederlo e per sentirlo parlare, come se egli avesse mutato la sua condizione grazie alla fortuna; alcuni, poi, si sollevavano a vicenda per poterlo vedere da una posizione più elevata.”

Le parole di Dione sono fin troppo positive per non leggere in esse una sottile ironia, come sostiene Anthony Birley nella estesa biografia che dedica all’imperatore. Altre fonti primarie riportano che l’occupazione della città fu molto dura: senza più una guardia pretoriana, i soldati di Severo, uomini rudi e agli occhi degli abitanti della città non troppo dissimili dai barbari, occuparono i templi e i portici, per la prima volta da più di un secolo, e vessarono la popolazione.

Ma da dove proveniva il nuovo imperatore? Quali ambizioni lo avevano mosso?

Dipinto di Elena Njoabuzia Onwochei-Garcia.

LEPTIS MAGNA, LA ROMANIZZAZIONE PERFETTA

Il caso di Leptis, non ancora Magna, rappresenta un esempio da manuale di come funzionava (nei casi migliori) l’integrazione delle terre esterne all’impero e degli abitanti di queste terre nella compagine imperiale romana. Leptis non fu mai “conquistata” dalle legioni ma, semplicemente e gradualmente, entrò nell’orbita imperiale romana come città libera e alleata, in contrapposizione ai minacciosi regnanti numidici prima e mauritani e nomadi del deserto poi. Nella prima metà del I secolo d.C. (durante la dinastia Giulio-Claudia) le epigrafi rinvenute in città ci dicono che la lingua primaria era ancora il punico, punici erano i nomi dei magistrati così come i loro titoli. L’élite locale, riconoscente alla protezione di Roma, con Augusto ancora in vita, tra le prime città dell’impero, istituisce un culto dell’imperatore nella struttura oggi chiamata Chalcidicum.

Lentamente, nel corso dei decenni successivi, nomi latini o latinizzati iniziano a comparire accanto a quelli punici. Il territorio di Leptis non vide una massiccia colonizzazione da parte di soldati veterani, come in altre zone dell’impero, ma molti suoi notabili iniziarono a cambiare nome per relazionarsi con il governo provinciale di Cartagine. L’Africa era difatti uan provincia senatoria.

Durante il regno di Vespasiano accade un fatto importantissimo: alla città viene concesso lo ius latii, cioè il diritto latino. Una città che dunque prima era una comunità “peregrina”, straniera, viene riconosciuta come “municipio”. Ai magistrati viene automaticamente riconosciuta la cittadinanza romana. I nomi punici scompaiono dalle liste dei suffeti e degli edili.

Qui compare il più antico antenato accertato del futuro Settimio Severo, forse bisnonno dell’imperatore: si tratta di un giovinetto omonimo, a cui il poeta Stazio, durante il regno di Domiziano, dedica una commossa poesia. Questo rivela che la famiglia di Severo, segnalatasi nel notabilato di Leptis, aveva già iniziato a stringere legami con l’Italia: inviare i propri figli a studiare a Roma era la via sicura per l’integrazione futura nell’impero.

In alto: ricostruzione di Leptis Magna ad opera di Jean-Claude Golvin. In basso: iscrizione bilingue, latina e punica, proveniente dal teatro cittadino.

“FIGLIO D’ITALIA, SEI TU…”

“Non è punica la lingua da te parlata, né punica è la tua figura, non ha nulla di straniero la tua mentalità: figlio d’Italia, figlio d’Italia sei tu.”

Continua il nostro viaggio nelle radici puniche di Settimio Severo. Nel precedente post abbiamo visto la romanizzazione di Leptis Magna, patria del futuro imperatore. Oggi ricordiamo un’importante testimonianza letteraria, contenuta nel libro quarto delle “Silvae” del poeta Stazio, attivo durante il regno di Domiziano.

La quinta poesia è dedicata ad un certo “Settimio Severo”, sicuro bisnonno o nonno dell’imperatore, che fu anche il primo della sua famiglia a studiare sin da giovane in Italia. L’epoca dei Flavi è quella in cui l’élite libica e punica di Leptis Magna viene integrata, tramite la concessione della cittadinanza, nello stato romano.

Il componimento è un’appassionata accorazione del poeta verso l’amico, dal quale vuole allontanare i “sospetti”, chiamiamoli così, legati alla sua origine punica.

“È possibile dunque che a te abbia dato i natali nelle lontane Sirti l’impervia Leptis?… chi potrà mai credere che il caro Settimio non abbia mosso i primi passi su ognuno dei colli di Romolo? Chi oserà negare che, una volta svezzato, si sia nutrito bevendo alla fonte di Giuturna? Non deve sorprendere la tua virtù: prima ancora di conoscere l’Africa dai bassi fondali, tu entri subito nei porti degli Ausoni e, adottato, ancora piccino navighi sulle onde d’Etruria.

Quindi cresci fanciullo tra i figli della Curia, pago dello splendore di una stretta striscia di porpora, ma attendi con spirito patrizio alle tue immense occupazioni. Non è punica la lingua da te parlata, né punica è la tua figura, non ha nulla di straniero la tua mentalità: figlio d’Italia, figlio d’Italia sei tu.

Vi sono nell’Urbe e fra le torme dei cavalieri romani persone cui converrebbe essere stati nutriti dalla Libia. La tua voce risuona serena anche in mezzo ai turbini del Foro, ma la tua eloquenza non è venale e la tua spada riposa nel fodero, se i tuoi amici non ti preghino d’impugnarla.

Ma più spesso a te stanno a cuore la campagna e il riposo, ora nella dimora paterna e nel territorio di Veio, ora sui boscosi monti Ernici, ora nell’antica città di Curi. Tu qui svolgerai parecchi temi in forme e ritmi qua e là propri della prosa, ma memore frattanto di me, raddoppia gli accordi della lira che se ne sta nascosta in un antro.”

La poesia ci dice tantissimo. Nella mentalità romana, il ricordo delle guerre puniche e della minaccia annibalica era ancora ben vivo. Non c’è dubbio che l’apparizione in Italia dei primi cittadini libici e punici dovette suscitare non pochi commenti e diffidenze, che il poeta Stazio vuole fugare: la parlata e la mentalità dell’amico Severo sono italiche, perché egli è cresciuto in Italia. Voglio sottolineare come, nel discorso poetico, non vi siano accenni di alcun tipo ai tratti fisici del nostro: non erano questi motivo di diffidenza nell’antichità.

In epoca moderna ci si è chiesti quale fosse il colore della pelle di Severo. Stabilirlo è impossibile, perché le uniche fonti che ne parlano (Giovanni Malalas) sono tarde e imprecise; i contemporanei ritratti e dipinti possono risentire della convenzione di dipingere le donne con un tono di pelle chiara e gli uomini più scura. Ciò che sappiamo è che Severo era discendente di una famiglia libico-punica per parte paterna e per parte materna di una famiglia di italici (i Fulvii) stabilitisi da tempo a Leptis e mescolatisi con l’élite locale.

Catullo legge i propri poemi di Stefan Bakalowicz.

FILOSOFIA GRECA, ASTROLOGIA ORIENTALE, AMBIZIONE ROMANA: LE TRE ANIME DI SETTIMIO SEVERO

“Severo era sufficientemente istruito nella letteratura latina, erudito nella lingua greca e più fluente nell’oratoria in punico, perché era originario di Leptis in provincia d’Africa.”

Con queste parole viene descritto, dall’anonimo autore della “Epitome de Caesaribus“, la figura di Settimio Severo. Tre anime, dunque, che convissero lungo tutta la sua vita. All’originale retroterra punico, che fu sempre presente nella mente del nostro sia come retaggio culturale sia come risorsa da cui attingere uomini fedeli (come il potente prefetto del pretorio Plauziano) per i posti chiavi dell’amministrazione e dell’esercito, si somma dunque l’educazione ricevuta, che fu latina. La giovinezza del futuro imperatore è quella di un tipico figlio della nobiltà provinciale che viene inviato in Italia per studiare e farsi conoscere negli ambienti che contano, con la prospettiva di intraprendere una carriera prestigiosa. Come detto sopra, i Severi possedevano da tempo un podere nei pressi di Veio, non lontano da Roma: la legge voleva che ogni senatore avesse dei possedimenti in Italia.

A questo, si aggiunge però una genuina passione, sulla scia di altri grandi sovrani come Adriano e Marco Aurelio, per la cultura greca. Sappiamo infatti che, di ritorno dal comando della legiona IV Scythica, di stanza in Siria, Severo (la cui carriera non fu fulminea), si fermò a lungo ad Atene per motivi di studio e per la voglia di visitare con calma tali luoghi. Strinse anche contatti con diversi intellettuali e filosofi che saranno poi accolti alla sua corte, benvoluti anche dall’imperatrice Giulia Domna, non meno colta del marito.

Nonostante ciò, la politica di Settimio Severo non fu mai influenzata da argomenti filosofici. La predilezione che egli mostrò per i militari aveva senza dubbio le basi in un solido realismo suggerito dalle esperienze tragiche di Commodo e Pertinace. Più difficile, per noi, è comprendere invece la vera e propria “fede” che spinse un oscuro nobile africano, nei lunghi anni di sfavore politico e carriera stagnante (dei numerosi contendenti l’impero dopo la morte di Commodo, Severo è il meno “titolato”), a credere fortemente in se stesso e nel proprio destino. Nell’anno 190, Severo fu processato per aver chiesto a degli astrologi di profetizzare le proprie possibilità di divenire imperatore (un reato, a quei tempi).

Le moderne tecnologie hanno permesso di ricostruire la posizione degli astri alla data di nascita di Severo (11 aprile 145 d.C.): abbiamo così avuto la conferma di come i pianeti fossero in posizione grandemente favorevole secondo gli standard antichi. Non dobbiamo perciò sorprenderci quando le fonti ci raccontano di un astrologo, in Libia, che, nell’esaminare l’oroscopo di Severo, esclamò:

“Dammi il tuo vero oroscopo, non quello di un altro!”

Cassio Dione aggiunge che l’imperatore, una volta asceso al potere, fece dipingere il proprio oroscopo sul soffitto della propria stanza, nel palazzo imperiale. Addirittura, ci è stato tramando che Severo, prima di partire ormai anziano per la spedizione in Britannia (208 d.C.), sapeva già che non avrebbe fatto ritorno.

In questo articolo ho volutamente tralasciato la figura, non meno importante di Severo, di sua moglie, l’imperatrice Giulia Domna (che fu scelta come sposa, secondo le fonti, per l’oroscopo favorevole), che mi riprometto di approfondire in sede separata.


Altre info sul dipinto di Elena Njoabuzia Onwochei-Garcia.

Imprenscindibile consiglio di lettura su Settimio Severo.

5 pensieri su “Le origini di Settimio Severo, l’imperatore venuto dall’Africa

  1. Carlo Barranco

    Purtroppo i tratti somatici erano eccome motivo di diffidenza nell’antichità.
    Proprio parlando di Settimio Severo, nell’Historia Augusta, si riporta come questi fosse estremamente diffidente verso le persone di colore.
    Non ha importanza che questo episodio sia realmente avvenuto o sia precisamente come descritto nell’HA (improbabile): il solo fatto che sia scritto vuol dire che la diffidenza verso le persone fisicamente differenti era concepibile per l’autore e credibile per i lettori.
    Nessuna attinenza con questo ha il fatto che non ci siano descrizioni fisiche del bisnonno di Settimio Severo, dato che anche fosse stato puramente punico, i punici non erano chiaramente distinguibili dagli altri popoli mediterranei usando soli criteri fisici.
    Riguardo Leptis Magna, sappiamo con certezza che sia stata oggetto di immigrazione da parte di coloni italici, e l’articolo stesso riporta l’esempio dei Fulvii, non sarebbe quindi sorprendente che tutte le maggiori famiglie di Leptis Magna avessero origini miste.

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    1. Grazie per il commento Carlo! Sì, ovviamente le persone si rendevano conto dell’esistenza di tratti somatici e che essi fossero caratteristici di alcuni popoli (i celti erano alti e di pelle chiara, i nubiani di pelle scurissima ecc. che si riflettevano anche nel pratico, ad esempio alcuni popoli più o meno resistenti alle fatiche ecc.) e vi erano anche molte diffidenze: non ricordo più dove l’ho letto, ma ricordo con certezza che per molti incontrare durante un viaggio un nubiano dalla pelle nera era un segno di sfortuna, un po’ come passare sotto le scale da noi, e andava espiato con un sacrificio! Aneddotto che persino l’illustre accademico Harry Sidebottom fa accadere in un suo romanzo… Il mio discorso, forse espresso male, era più a livello alto cioè delle élite, per cui le principali differenze erano sociali ed economiche e solo in ultimo piano somatiche/etniche.

      Devo però essere chiaro su Leptis Magna, il territorio non subì colonizzazione romana, dove per colonizzazione si intende l’insediarsi di una colonia composta da migliaia di veterani (come accadde in altri posti d’Africa e dell’impero, portando un’influenza italica un po’ ovunque), ma solo immigrazione di singole famiglie. Le epigrafi sono abbastanza chiare nel mostrare una continuità tra l’élite punica di lingua punica del I secolo d.C. che diventa élite punica di lingua latina qualche decennio dopo, motivo per cui anche il biografo più importante di Severo, cioè Anthony Birley, autore della biografia più documentata sull’imperatore, lo ritiene quasi certamente punico da parte paterna e italo-punico da parte materna, essendosi i Fulvii stabilitisi da tempo a Leptis.

      Tutti questi discorsi su etnie e affini, per quanto importanti, li ritengo comunque decisamente secondari di fronte allo studio e alla ricostruzione del pensiero e dell’educazione dell’imperatore, perché l’etnia non determina il comportamento di Severo e la sua azione nella storia; il suo pensiero e la sua formazione culturale invece sì.

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      1. Carlo Barranco

        Grazie Vladimiro per la cortese risposta!
        Concordo pienamente con l’ultimo paragrafo, che reputo fondamentale.
        Molto spesso si discute delle appartenenze etniche (o addirittura nazionali, proiettando nel passato identita` presenti) dei personaggi antichi concentrandosi su remotissime origini familiari e sottovalutando invece quanto formazione culturale e sfera sociale abbiano un’influenza determinante nel definire l’identita` di ogni persona.
        Riguardo Leptis Magna, ho infatti parlato di immigrazione, proprio per non intendere che la citta` fosse stata fondata o ri-fondata come colonia, e mi scuso se aver chiamato gli italici “coloni” puo` aver causato fraintendimento.
        Quel che intendevo e` che i Fulvii non erano un unicum, ne` era ununicum il matrimonio tra un Settimio e una Fulvia. Matrimoni tra persone delle famiglie influenti della citta` (come vediamo in innumerevoli altri contesti) prescindevano l’origine etnica e, come giustamente indichi nel primo paragrafo della tua risposta, la classe sociale era la variabile fondamentale, che metteva in ombra tutte le altre.
        Lo vediamo anche con la famiglia reale di Emesa (da cui proviene Giulia Domna) che vanta matrimoni utili con personaggi influenti del mondo greco e latino.

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      2. Verissimo Carlo, concordo su tutto. Io come scrittore infatti rifletto sempre attentamente sul non proiettare idee e concetti del presente sul passato, come invece vedo fare ahimé molte volte in giro, motivo per cui il mondo romano è “strattonato” un po’ da tutti per le cause più disparate… su Giulia Domna tornerò assolutamente in futuro, essendoci per fortuna giunti numerosi reperti che permettono di vedere, ad esempio, la differente rappresentazione dello stesso soggetto a Roma o in provincia.
        Grazie per l’interessante scambio, comunque!

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