9 d.C. Nella foresta di Teutoburgo, in un paesaggio segnato da burroni, querce centenarie e torrenti che scorrono lungo sentieri scoscesi, Arminio, alla testa di un esercito formato da sei tribù di germani, ha annientato tre legioni romane. Quasi ventimila uomini hanno perso la vita, massacrati senza pietà dai barbari. Il tradimento di Arminio ha sconvolto il Senato e la notizia del furto di tre aquile delle legioni ha raggiunto funesta il cuore dell’impero. Una pugnalata all’onore di Roma, ora costretta a ridimensionare i suoi domini entro il confine del grande fiume Reno. Ma come può un uomo omaggiato della cittadinanza romana arrivare a sfidare così clamorosamente l’impero? Quale sfrenata ambizione può avere spinto un soldato, addestrato dai più valorosi generali romani, a tradire coloro che si erano fidati di lui?
Arminio, principe della popolazione germanica dei Cherusci e organizzatore della disastrosa imboscata della Selva di Teutoburgo, è stato senza dubbio uno dei più grandi nemici della storia di Roma. La disastrosa sconfitta del 9 d.C., in cui perirono tre legioni e con esse le forze ausiliarie e i civili aggregati, infatti, arrestò la romanizzazione della provincia della Germania Magna. Roma non tentò più di conquistare in modo stabili le terre al di là del Reno. Per centinaia di anni il grande fiume rappresentò il limes, l’estremo confine (a volte “aperto” a volte “chiuso”) del mondo civilizzato.
Quest’ultima fatica di Robert Fabbri, uscita lo scorso 21 gennaio e che ho potuto leggere in anteprima grazie alla mia collaborazione con la Newton Compton Editori, ha il grande pregio di non limitarsi al racconto dell’episodio bellico di Teutoburgo. Il titolo originale dell’opera è Arminius. Il romanzo è infatti un biografia del più fiero avversario di Roma e del di lui figlio Tumelico sullo sfondo dei regni di Ottaviano Augusto e del suo successore Tiberio.
Ho detto “biografia di Arminio” ma non bisogna assolutamente pensare ad un’opera che si sviluppi in modo lineare con nascita, vita, opere e infine morte del grande condottiero (come si fa nelle biografie “pigre”). Il maggior pregio dell’opera di Fabbri, infatti, è la rielaborazione del genere biografico-storico, rielaborazione che coinvolge sia il modo della narrazione sia lo stile. Andiamo per ordine.

Il romanzo si apre nel 37 d.C. con Tumelico (latinizzazione dell’originale Thumelicatz), catturato dai Romani quand’era ancora nel ventre della madre Thusnelda per colpa del tradimento dello zio Chlodochar, fratello di Arminio e ormai pienamente integrato nella società romana con il nome di Flavo. Tumelico è stata avviato alla carriera di gladiatore ma, dopo molti scontri, ottiene finalmente la libertà. Cresciuto nell’odio e nel rancore, userà questa libertà per vendicarsi e per tornare in Germania presso il suo popolo.
Da questo prologo prende avvio il romanzo. Le vicende di Arminio e della sconfitta di Teutoburgo, quindi, non costituiscono il tempo “presente” del romanzo, ma il “passato”. Questo artificio da modo all’autore di rievocare la vita del condottiero germano usando diversi registri, cosa che depone decisamente a suo merito. Buon parte del romanzo è costituita infatti dalle memorie di Arminio. Si tratta quindi di lunghi brani in prima persona, in cui emerge la forte personalità del condottiero cherusco, descritto come un patriota spinto dal desiderio di libertà e indipendenza per la propria gente e pronto a tutto per questo fine, anche all’instaurazione di una falsa amicizia con il legato Publio Quintilio Varo. Tali parti, pur essendo preponderanti, non soffocano mai la cornice (e la trama) del presente rappresentata dalle vicende di Tumelico, in cui invece la narrazione è in terza persona.
Condivido due estratti. Ecco come iniziano le memorie di Arminio:
Era il tempo degli Dèi del Ghiaccio, nel mio nono anno, quando mia madre svegliò mio fratello Chlodochar e me presto, prima dell’alba. «Dovete entrambi venire in fretta», disse, accarezzandomi la fronte e guardandomi con una strana espressione che non le avevo mai visto negli occhi amorevoli, nei quali si rifletteva il chiarore morente del fuoco. Adesso ci ripenso e vi riconosco un’espressione di struggimento; struggimento per una vita che non sarebbe mai stata, una vita nella quale non avrebbe cresciuto i propri figli perché diventassero guerrieri dei Cherusci. In quel momento, lei sapeva di aver perso la propria vita per sempre; io no. «Cosa c’è, madre?», chiesi, deciso a non lasciarmi spaventare dalla sua espressione. «Tuo padre e la tua tribù hanno bisogno di voi due; siate coraggiosi e sappiate che quanto vi si chiede è per il bene di tutti noi».
Ed ecco un brano in terza persona preso dal Prologo:
Ancora dolorante e più gravato dall’equipaggiamento rispetto all’avversario, Thumelicatz sapeva di doverla finire subito, prima di stancarsi e non riuscire a sferrare un attacco efficace. Calò lo scudo e afflosciò braccio armato e ginocchia, come se avesse già raggiunto quel punto di sfinimento; con un ringhio di trionfo, il reziario balzò in avanti, affondando il tridente ad altezza petto. Con un movimento rapido e violento, Thumelicatz incrociò la traiettoria dell’arma con lo scudo, sbalzandola da un lato, e, con un montante della spada sul corto pugnale che seguiva il tridente, lo fece volare in aria con un clangore metallico. Continuò poi la traiettoria del braccio destro e abbatté il pugno, che ancora serrava la spada, sulla faccia di Synatos, appiattendogli il naso con uno scricchiolio bagnato di cartilagine. Il reziario fu sbalzato all’indietro, con il sangue che tracciava un arco nell’aria, e il tridente, sfuggito alla presa indebolita, cadde con un sussulto sulla sabbia dell’arena. Thumelicatz si fermò sul corpo della aria puzzolente di vomito, in respiri mozzi; il sudore gli bruciava gli occhi mentre guardava l’uomo che era quasi un amico, riverso ai suoi piedi.
Nel corso del romanzo, gli eventi del passato, rievocati dalle già citate memorie di Arminio e dalla testimonianza di altri personaggi (cosa che permette all’autore di variare ulteriormente sul registro linguistico), si intrecciano continuamente con il presente, costituendo un interessante gioco di rimandi.

Per quanto riguarda la ricostruzione storica, l’autore ha fatto un ottimo lavoro. Il complicato rapporto tra Roma e la Germania viene rievocato in tutte le sue fasi: dalle prime conquiste al tempo di Druso Maggiore (tra il 15 e il 6 a.C.) fino alle spedizioni di Tiberio e Germanico nel post- Teutoburgo (intorno al 15-16 d.C.). Oltre a questo, l’autore illustra con dovizia di particolare il modus operandi dell’imperialismo romano: l’integrazione delle elité nemiche tramite l’educazione e quella delle masse tramite l’arruolamento nelle coorti ausiliarie; l’urbanizzazione come via per rendere un territorio “conquistabile”; la strategia del divide et impera per separare le tribù germaniche; le tattiche legionarie e molto altro. Mi ha fatto molto piacere che l’autore abbia curato anche il lato germanico. I costumi, la religione e soprattutto la mentalità dei popoli d’oltre Reno è stata pienamente restituita senza edulcorazioni: la violenza “barbarica” dei Germani è presente e ben mostrata.
Ho apprezzato la nota a fine libro, in cui l’autore ci dice esplicitamente le fonti antiche a cui si è ispirato e gli eventi, invece, che ha dovuto ricostruire o inventare per colmare le lacune delle fonti, in alcuni casi molto rilevanti. Ad esempio di Tumelico, protagonista del romanzo, conosciamo le sfortunate vicende dell’infanzia, ma non quelle della maturità, perché esse erano contenuto nella parte mancante degli Annales di Tacito.

Ci sono alcuni difetti, ma sono decisamente minoritari rispetto alle qualità appena elencate. La traduzione non mi è sembrata eccelsa. Non ho letto l’originale inglese né tanto meno ho le competenze per giudicare tale aspetto, ma qualche passaggio qua e là mi è sembrato un po’ zoppicante (oltre ad un paio di refusi). Alcuni risvolti finali della trama non mi hanno molto convinto. Senza fare spoiler, dico soltanto che ho trovato alcuni ragionamenti di prospettiva storica fatti da alcuni personaggi, in particolare di Tumelico, troppo al di là delle possibilità di uomini di quell’epoca e di quel contesto. Devo anche segnalare un’eccessivo indulgere dell’autore, durante le scene d’azione, in particolare violenti e raccapriccianti. Personalmente non ho nulla in contrario (se la violenza messa in mostra è motivata), ma qualcuno potrebbe ritenere eccessivo il livello di violenza.
Per concludere la recensione, Le tre legioni è un romanzo che consiglio a tutti gli appassionati di questo periodo storico. Il tema della sconfitta di Teutoburgo è stato largamente affrontato (solo rimanendo in Italia mi vengono in mente i romanzi di Guido Cervo e Valerio Massimo Manfredi) ma, come detto, Fabbri lo ha fatto in modo decisamente esaustivo, narrativamente accattivante e offrendo una completa ricostruzione dell’espansione romana in Germania e le motivazioni del suo fallimento.
IL LIBRO SUL SITO DELLA NEWTON COMPTON
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