Sono lieto di continuare ad ospitare i contributi di Carlo Cavazzuti, maestro di schermo storica, autore del saggio Gladiatoria e del romanzo storico Jean, che ho recensito poco tempo fa.
Questa volta vi propongo un suo racconto autoconclusivo. Protagonista è un cavaliere. Vi sfido ad individuare tutte le componenti dell’armatura che vengono citate senza andarle a cercare!
L’ultima visione
Mi sveglio, è l’alba. L’infausto dì di ieri s’è concluso con uno strano lampo verde. È uno dei colori di famiglia, forse mi sarà di buon auspicio.
Da dentro la tenda sento l’odore della rugiada che sicuramente questa notte ha nettato il campo. Apro gli occhi e davanti a me vedo uno stivale. Il mio paggio è già desto e mi ha preparato le vesti. Bravo, oggi non dovrò batterlo. Sento i tamburi e uno squillo di chiarina. Stanno chiamando l’adunata alle coorti, non avrò il tempo di spezzare il digiuno come si vede. Mi farò bastare la pernice avanzata da ieri sera.
Quando esco il farsetto d’arme mi impaccia un poco, ma presto sarà una seconda pelle. Lo stalliere sta già dando la biada al mio stallone. Spero non troppa. Lo voglio gagliardo e iroso.
I fanti e gli arcieri si stanno già schierando intorno ai vessilli per ricevere gli ordini. Devo davvero sbrigarmi.
Mi distrae da questi pensieri il ritmo ferroso della cote e subito vedo Giacomo, che sulla panca mi sta affilando la spada. Colpi secchi di pietra e poi dritta davanti a sé per saggiarne il filo. Gli trema la mano. Sarà la sua prima, vera battaglia. Che Iddio me lo conservi.
Al banco del duca ci sono quasi tutti. Guardiamo le carte, decidiamo il percorso e lo schieramento. Tanto saremo troppo pochi comunque. A scorgere gli altri cavalieri almeno moriremo nel fasto. Non ve n’è uno che non abbia addosso gioielli e sete. Nomanco dovessimo andare a corte invece che a scannarci! Sentiamo gli ordini secchi dei serragenti e il batter sordo dell’unghie dei cavalli, ma nessuno se ne cura.
Alfonso è fuori sull’altro versante, si starà facendo allacciare gli spallacci nuovi. Lo vedo nella mente che si sistema il cannone al braccio e lo stringe bene con il cinghiolo. Spero di non incontrarlo in campo. Lo conoscevo prima che tradisse suo fratello.
Vado dal mio cavallo. Un buon cavaliere non farebbe mai sistemare la sella da altri, foss’anche Nostro Signore. Gli passo la brusca sulla schiena vedendone fremere le carni. Gualdrappa, sella ben salda. Allaccio la fredda vulva al quartiere, Giacomo vi metterà l’acciaio.
Poco distante uno dei miei uomini mi fa un cenno a cui rispondo chinando il capo e socchiudendo gli occhi. Mi avvio con lui.
Padre Covilo ci attende. La terra è fredda e bagnata sotto le calze, ma stare genuflessi è d’obbligo. Sento la benedizione bagnata arrivarmi sul capo assieme alle parole del frate.
«Et benedictio Dei omnipotentis. Patrem et Filium et Spiritum Sanctum descendat super vos et maneat semper. Dominus vobiscum.»
«Et cum spiritu tuo pater, amen»
Non v’è Corpo né Sangue oggidì, se andrà male sarò già abbastanza congiunto con il Creatore.
Esce dal padiglione anche Bartolomeo intanto che si mette il giaco. Dietro di lui sortisce anche una putta. Si cinge le spalle e le moppe nude con una stola di lana che ha visto albe migliori. Si alza la veste e si netta la potta in un mastello. Mi è sempre piaciuta la sfacciatezza delle donne di branda. Non sono mai vigliacche. Ah, che donna lesta dovrebbe esser stata la Maddalena!
Padre Covilo adocchia lesto qual donnola vogliosa. Sarà uno di quei frati che non son soliti al sollazzo con i conversi.
Mi metto le scarpe d’arme, gli schinieri e i cosciali grossi. Li stringo bene, l’arcione è duro e non voglio che si smuovano. Giacomo è già vestito e pronto. Allargo le braccia e mi cinge con il gonnello di ferro e mi infila i gheroni sui bracci sin sotto le lesine. Poi il peso sicuro della corazzetta mi cade sulle spalle. Mi faccio stringere bene sul fianco, dove le scaglie si sovrappongono. Il cingulum arriva subito dopo con la daga ben pizzata sulle reni e la spada a destra. Mi d’occhiano sempre tutti per questo, ma son’io che devo usarla. Lego le catene all’else delle due armi. Non vorrei il soggolo di ferro, ma le frecce sono scaltre e ogni varco è cosa loro. Me lo faccio serrare sulla nuca e mi faccio metter le braccia con le piastre. Mi lego la cuffia imbottita e dispenso Giacomo che mi porti il cavallo e l’elmo.
Siamo tutti lì. Pronti davanti a quel grande campo ondulato. Almeno non c’è nebbia e non piove. Vediamo tutti garrire i drappi e i cenci. Le masnade e le lance sono pronte davanti a noi, schierate. Aspettano solo i loro capitani. I miei venti mi salutano intanto che passo davanti a loro a cavallo. Li conosco tutti da quando son vivo. Con alcuni ho giocato ad alquerque perdendomi anche le braghe, altri mi hanno bastonato quando ero piccolo. Che strano adesso.
Filippo, il futuro conte Della Rosa mi fa segno da lontano intanto che suo fratello Federico, un frate, benedice anche lui.
Ho in mano l’ascia d’arcione e non voglio lo scudo, nemmeno lo scapezzato piccolo. In sella mi ha sempre dato fastidio. Era così anche mio fratello. Lui avrebbe dovuto diventar conte, non io.
Davanti a noi vedo bene che si stanno preparando, la loro cavalleria è già ben distesa, polita, innanzi ai tiratori.
Freme gagliardo il vello della coppa del mio cavallo, sente anche lui che da qui a breve saremo nella mischia. Stringo bene le cosce sui quartieri. Attendo.
Un passo. Un altro passo. Il piccolo trotto. Eccoli!
Un colpo di sprone, un urlo e dietro di me la mia lancia mi segue.
Con il becco di corvo dell’ascia mi abbasso la visiera e subito tutto diventa scuro e ottuso. Prendo coscienza di ogni mio respiro. Rimbomba nell’acciaio e mi scalda gote e naso. L’elmo oscilla un poco e il lacciolo mi stringe sotto ‘l mento. Le fessure per gli occhi e i fori per respirare stringono il mondo in due strisce luminose, e stelle tonde, nel buio ondeggiante.
Lo stallone si stabilizza sul passo di trotto veloce e io mi preparo.
Mi passa avanti il viso di mia madre quando partii la prima volta verso la magione dei Goletti, per il mio apprendistato; mia sorella nel giorno del suo matrimonio con il suo abito di damasco verde e azzurro, come i colori che porto adesso sulla sovracotta, Il corpo di mio fratello disteso davanti all’altare con lo stemma di famiglia a coprirgli il volto freddo; il volto di monna Liala, il suo collo pallido e i ricci biondi, le labbra piene.
Sulla destra stanno già scaramuzzando. Me ne accorgo dal rumore sordo dell’acciaio che entra nelle carni.
I loro cavalieri deviano, non puntano più su di me. Solo villici e uomini d’arme mi intralciano la strada in quel bellissimo campo d’erba verde.
Il primo lo abbatto travolgendolo senza nemmeno accorgermene, se non dallo scarto tra le mie gambe. Il secondo cade con l’ascia che gli fende il viso. Poi un terzo e un quarto. Forse anche un quinto. Il braccio inizia a faticare ad alzare e abbassare la pesante lama. La mia inforcatura scalcia e morde schiumando. Bene.
M’appare di sfuggita la gualdrappa verde e blu del vecchio Sassoli. Sessanta e più inverni e ancora l’arme addosso. Mi giro e lo vedo che vien lanciato a terra da una bardica in petto, ma subito è in piedi, con le setole della barba che fuggon feroci dai fori dell’elmo.
Andrei subito a lui, ma, per i denti di Dio, m’han sgarrettato la bestia.
Vili senza nomanco l’onor di nettarmi il deretano!
Lo stallone s’accascia e io con lui. L’erba verde e odorosa m’entra tra le fessure della visiera e mi solletica il naso intanto che il sudore gocciola, fastidioso, in un occhio. Ho perso l’ascia.
M’alzo a fiacca, indolenzito. Adesso mi tocca andar dove si patirà dolore. Seguo la catena che dal petto scende all’elsa della spada e la prendo svelto. Con la manca m’apro la visiera e detergo gli occhi. Aria. Troppa aria che si muove. Cadono le prime frecce, ma non me ne cale. La mia pelle di ferro farà il suo. Di più non posso, se non confidare in Dio. Afferro l’arma con ambo le mani, la manca sulla lama a guidarla bene.
Ormai intorno a me c’è quel rimane della mia lancia e innanzi solo gente d’arme che sa maneggiar le lame. Non benissimo.
Mi faccio strada con una gomitata al primo che mi si mette in fronte. Sento cedere il naso e un paio di denti colpiti dal ferro del mio braccio. Non bado a lui, chi mi segue farà quel che deve o Iddio lo punirà prendendolo a sé. Il secondo lo spaccio con la punta che gli scalotta il cappello d’arme dal capo. Un terzo ha la mia guardia che gli sfonda il giaco sotto la lesina.
Vedo Stefano. È attorniato da tre cavalieri, anch’essi a terra come noi. Lo salva solo ‘l fatto che sia tozzo. I colpi gli passan sopra, o lo colpiscono rigando l’elmo e poco più.
Grido.
«Stefano! Di qua!»
Non mi sente. È sordo di per suo, con l’elmo ancora chiuso sentirà solo il campanare di colpi che gli arrivano addosso.
Corro da lui sperando che qualche buona anima segua il suo signore a difenderne un altro.
Un cavaliere dai drappi verdi mi si fa innanzi. Tenta di afferrarmi al cubito. Torco il braccio e gli lascio scivolare la lama sulle mani guantate di ferro. Salta indietro, ma la mia punta lo segue fin sotto il mento. E oltre.
Sto quasi per toccare la spalla di Stefano quando un gran colpo mi giunge sul coppo. La visiera issata si chiude di scatto, come la bocca che mi fa batter i denti. Sento il savor del sangue.
Mi scuoto con un altro colpo. Questa volta tra il braccio e la schiena. Il gherone ha ceduto e sanguino.
Mi giro e di fronte a me trovo gli uomini migliori di Alfonso. Uno con la bardica, è quello che ha abbattuto Stefano, l’altro con una mazza e uno scudo all’ungherese. Siamo soli, io e loro. Nessuno dei miei famigli è a portata di voce.
Lo scudo mi colpisce al fianco e mi piego a incassar la botta. Restituisco il favore e con il pomolo tiro un paio di colpi all’elmo del primo che resta schiacciato dal mio petto contro la sua stecca.
Fo quel che posso e mi barcameno contro l’uomo con lo scudo che continua a colpirmi con esso e lascio le terga a quello con la bardica.
Brutto gestire, avrei dovuto fare altrimenti.
Un gran colpo mi arriva dietro, poco sotto le nadeghe del culo. Le gambe cedono.
Davanti a me di nuovo verdeggia.
Proprio come ieri sera.
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