[SAGGIO] La grande storia della guerra (5) – John Keegan

BIO2483Dal risvolto di copertina: Che cos’è la guerra? Il semplice “proseguimento della politica con altri mezzi”, come riteneva l’illuminista barone von Clausewitz, oppure una necessità profonda e oscura, legata a quell’irrazionale istinto di morte cui Freud condanna la specie umana?

La grande storia della guerra di John Keegan non è un semplice saggio di storia militare. La narrazione e la ricostruzione di battaglie non occupano la parte centrale di questo libro. E’ invece un’opera multidisciplinare in cui si fa ricorso ad un ampio spettro di conoscenze, fonti, studi: dall’economia all’antropologia, dalla psicologia alla geografia. Obiettivo: esplorare ogni aspetto con cui la guerra si è manifestata e studiare le possibili cause della sua origine.

L’opera è lunga (ma non lunghissima) ed estremamente densa di informazioni, teorie, fatti; pertanto suddivido l’articolo in ben 5 parti (!), tante quanti sono i capitoli del libro:

  1. La guerra nella storia dell’uomo.
  2. La pietra.
  3. La carne.
  4. Il ferro.
  5. Il fuoco.

Siamo finalmente giunti alla fine di questa lunga serie di articoli su La grande storia della guerra di John Keegan. Oggi è il turno de Il fuoco, quinto e ultimo capitolo del libro, a mio giudizio uno dei più ispirati, i cui temi conduttori sono: la crisi sociale provocata dalle armi da fuoco (dal 1450 circa in poi), la lunga fase di assestamento (‘500-‘600-‘700) e poi la nascita della mortifera idea che ogni uomo è un soldato (dal 1789 in poi).

Puoi trovare gli altri nella sezione Saggistica del blog.

IL FUOCO

Questo capitolo, al contrario del precedente dedicato al ferro, mi è parso molto più ispirato. L’autore non si limita a fare dei riassunti di storia, ma mette in luce le scoperte tecnologiche e il cambiamento di mentalità conseguente.

Le armi da fuoco divennero effettive a partire dalla metà del 1400. Gli ultimi assedi della guerra dei Cent’anni e la caduta di Costantinopoli furono resi possibili da queste nuove armi, frutto di secoli di sperimentazione.

Nel 1477 Luigi XI di Francia estese ulteriormente la sua zona id controllo sulle terre avite utilizzando il cannone contro i castelli dei duchi di Borgogna. Di conseguenza, nel 1478 la casa reale francese ottenne per la prima volta dell’epoca carolingia, sei secoli prima, il pieno controllo del proprio territorio e fu in grado di erigere un governo centralizzato – sorretto da un sistema fiscale in cui i cannoni erano gli esattori ultimi di fronte a vassalli refrattari – che divenne in breve il più potente d’Europa.

Polvere da sparo e fortificazioni

La discesa di Carlo VIII in Italia, nel 1494, fu lo spartiacque di un’epoca e una rivoluzione militare. I suoi quaranta nuovi cannoni ebbero un impatto gigantesco sulla guerra e sulla politica.

A novembre, Carlo VIII entrò a Firenze da conquistatore; a febbraio dell’anno seguente, dopo aver sopraffatto in otto ore la fortezza napoletana di San Giovanni, che in passato aveva resistito otto anni a un assedio condotto con gli strumenti militari tradizionali, fece il suo ingresso a Napoli.

Le vecchie mura medioevali si erano sviluppate in altezza per impedire agli assedianti di farvi irruzione. Proprio quello che era stato il punto di forza divenne la debolezza: la maggior altezza esponeva le mura ai colpi del cannone. Ancor prima che in Italia, i re di Francia avevano sottomesso i vassalli riottosi della Borgogna usando il cannone. L’unificazione della Francia, che non era stato così unita dai tempi di Carlo Magno, passò attraverso la nuova arma.

Gli ingegneri militari, soprattutto italiani come i fratelli Sangallo, avevano trovato le  contromisure già prima dell’invasione francese; ma ci vollero anni perchè le principali città e fortezze fossero “aggiornate.” La soluzione era il bastione angolare: basso per non offrire bersaglio all’artiglieria e a forma di V, con la punta verso l’esterno, per colpire con un fuoco incrociato dagli altri bastioni la fanteria.

Le nuove fortezze sancirono, in molti casi, i confini degli stati fino all’età contemporanea, mentre le parti centrali di ogni paese ne rimasero sprovviste. Ad esempio la Francia e l’Olanda si dotarono di numerose fortezze al confine.

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 Invasione del campo francese e fuga delle dame e dei civili al seguito di Francesco I, il quarto dei sette arazzi che rappresentano la Battaglia di Pavia ad opera di William Dermoyen, conservato al museo nazionale di Capodimonte.

Le battaglie con la polvere da sparo nell’età sperimentale

Tra XV e XVI secolo l’introduzione delle armi da fuoco segnò un lungo periodo di sperimentazione dell’arte bellica. Era diventato chiaro che uno spiegamento misto di picchieri e tiratori era efficace contro la cavalleria in campo aperto, ma non era chiaro la proporzione tra i due. Dal 1550 in poi, fino alla sua definitiva affermazione ai primi del ‘700, il numero di picchieri andò progressivamente calando. Se la picca perdurò tanto come arma fu soprattutto per la facilità del suo utilizzo, che permetteva di armare migliaia di uomini in poco tempo.

A cavallo tra XV e XVI molte battaglie testimoniano l’ancora scarsa comprensione su come utilizzare le nuovi armi. Le battaglia di Ravenna (1512) e Marignano (1515) vedono in entrambi i casi dei contendenti in campo aperto trincerarsi volontariamente per resistere alle armi da fuoco avversarie o per supportare il tiro delle proprie. Soltanto alla Bicocca (1503) e alla Cerignola (1522) si intuì l’uso corretto delle nuove armi da fuoco portatili: un fuoco continuo e costante annientò migliaia di picchieri in poco tempo.

Arriviamo quindi ad un drastico cambiamento culturale che è diretta conseguenza dell’introduzione delle armi da fuoco.

Essi [gli aristocratici] volevano combattere a cavallo, come avevano fatto i loro antenati, e volevano che i fanti che li affiancavano affrontassero virilmente i rischi di schierarsi per ricevere la cavalleria in punta di picca. Se proprio i cannoni dovevano prendere posto sul campo di battaglia, che ciò avvenisse dietro i bastioni, a cui erano sempre appartenute le armi da tiro. Il soldato a cavallo non voleva vedere il gagliardo fante ridotto al livello dell’abile mercenario armato di balestra, e ancor meno voleva smontare da cavallo per apprendere la magia nera della polvere da sparo.
Le radici culturali della resistenza dell’aristocrazia a cavallo alla rivoluzione della polvere da sparo affondano nel passato remoto.

In particolare, affondavano le proprie radici nel mondo greco-romano, dove il combattimento elusivo, proprio dell’epoca primitiva, aveva lasciato il posto alla scontro faccia a faccia in una battaglia risolutiva.

La ragione di questa rinuncia conclusiva, in Occidente, alla psicologia e alle convenzioni del primitivismo e della loro persistenza in altre regioni sfida ogni analisi… la forza di questa tradizione “faccia a faccia” determinò la crisi del guerriero del secolo XVI.

In Germania e Francia la classe nobiliare fu più restia a “scendere da cavallo”, al contrario di quella inglese, italiana e spagnola; quest’ultimi in particolari furono assai pronti a mescolarsi con i fanti regolari o mercenari dei propri eserciti e a raccogliere numerose vittorie per oltre un secolo.

La polvere da sparo sul mare

I marinai si adattarono più rapidamente all’introduzione del fuoco. Cannoni e navi sembravano fatti l’uno per l’altro. Le galere del ‘500 sfruttavano appieno le nuove armi piazzando le armi a prua e a poppa, dove il rinculo non dava problemi. Tuttavia la natura stessa della galea (limitata autonomia, non adattabilità alle traversate oceaniche, poco spazio per l’artigliera) impediva una vera rivoluzione tattica dovuta alle armi da fuoco. Le guerre navali del ‘500 non sono molto diverse dalle precedenti o persino da quelle dell’antichità. La vittoria di Lepanto fu ancora una “battaglia di terra sul mare”, dove il ruolo delle armi da fuoco fu limitato. La battaglia fu importante non tanto per la perdita da parte degli ottomani delle navi, ma per la morte di numerosi arcieri addestrati all’uso dell’arco composto, un materiale umano difficilmente rimpiazzabile se non in decenni.

L’era delle esplorazioni e le nuovi armi da fuoco produssero i velieri (dalle caravelle ai vascelli di linea) che predominarono nell’arte della guerra navale per circa tre secoli, fino all’apparizione della corazza e del vapore, a metà dell’800.

I prodromi del dominio europeo sul globo sono tutti qua:

Le società che i primi navigatori europei incontrarono disponevano di poche strumenti per opporsi alle loro richieste, prima di diritti commerciali, poi di terre su cui costruire stazioni commerciali e infine di diritti commerciali esclusivi imposti con il controllo militare. I regni costieri africani, protetti da una barriera di malattie, sopravvissero integri fino all’Ottocento, ma soltanto a prezzo della complicità nel rastrellamento e nella tratta degli schiavi nell’entroterra, che fu terribilmente distruttiva e andò sempre crescendo. I giapponesi conservarono la loro società tradizionale sbarrando le frontiere marittime e sfidando gli europei a saggiare in battaglia il loro coraggio con quello dei samurai. La Cina si salvò dallo smembramento grazie alle dimensioni enormi e alla coesione burocratica, ma gran parte del resto del mondo si rivelò una facile preda.

La cultura bellica del guerriero, erede del falangita greco, emigrò sul mare, dove marinai e artiglieri si sfidavano faccia a faccia, dietro i loro cannoni, con esiti mortali.

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La HMS Victory a Trafalgar, dipinto di William Turner. Molto prima delle portaerei, la “proiezione di potenza” di una nazione si realizzava tramite questi grandi vascelli.

La stabilità della polvere da sparo

All’inizio del ‘700 si ha il definitivo superamento della picca per l’affermazione della baionetta. Il compromesso dei due secoli precedenti venne abbandonato in favore di una guerra molto più razionale e semplice. L’esercitazione ossessiva, ripetitiva e meccanica fece la sua comparsa sui campi d’addestramento degli eserciti europei. Ciò produsse una mutazione antropologica del soldato. Se nel ‘500-‘600 il soldato era ancora un individualista (come si può notare dalla ricchezza delle vesti, ad esempio), nel ‘700 esso diventa un servo, un lacchè, dotato di una propria livrea che identifica la sua rinuncia alla libertà e il suo sottostare ad altre regole spesso brutali, quelle del suo reggimento.

Dal punto di vista prettamente tattico, si produsse un equilibrio destinato a rimanere per circa 150 anni:

La fanteria era armata di moschetto che, pur essendo quasi inoffensivo a distanze poco superiori ai cento metri, poteva essere usato per sparare raffiche in massa onde creare una zona di fuoco micidiale proprio davanti alla linea di battaglia. L’artiglieria da campagna, sempre più mobile e in grado di sparare con frequenza maggiore, forniva il solo strumento sicuro per scuotere la solidità delle formazioni addestrate di fanteria, ma la sicurezza del suo spiegamento poteva essere minacciata da una carica tempestiva di cavalleria, sempre più impegnata in questa attività subordinata e nelle cariche contro la fanteria disorganizzata dal fuoco dell’artiglieria o nell’inseguimento dei soldati datisi alla fuga

Le guerre del ‘700 furono essenzialmente inconcludenti per l’equilibrio tra le tre forze sopracitate, motivo per cui si ricorse all’arruolamento di forze ritenute “esotiche” (come ussari e zuavi) nell’illusione di introdurre un elemento di novità.

In generale, gli eserciti europei ottennero grandi successi contro i popoli tradizionali (indiano, ottomani) ma scarsi e molto più difficoltosi contro i popoli primitivi (indiani d’America) le cui tecniche di guerriglia irregolare erano ancora efficaci.

Rivoluzione politica e cambiamento militare

Non si può correre il rischio di sopravvalutare l’effetto della rivoluzione francese e dell’epoca napoleonica sull’arte della guerra, soprattutto a livello sociale.

La rivoluzione francese vide la nascita di un esercito totalmente nuovo rispetto al passato. Oltre al totale ricambio generazionale e di classe nel corpo ufficiali, la rivoluzione vide l’affermazione dell’idea, fino ad allora sconosciuta all’Europa (soltanto marginalmente applicata nella rivoluzione americana) che ogni uomo era un soldato. Il soldato del ‘700 era un paria ed emarginato sociale ridotto al rango di lacchè e trattato non meglio di lui; il soldato rivoluzionario era un cittadino maschio di qualsiasi classe o ceto sociale. Con questo semplice mezzo, la rivoluzione e Napolone ebbero a propria disposizione centinaia di migliaia di uomini, come nessuno prima di loro.

Nell’arco di vent’anni, una società europea in cui soltanto gli uomini che si trovavano ai margini dell’economia rischiavano di essere assorbiti nelle file dell’esercito era stata militarizzata da cima a fondo, e gli splendori e le miserie della vita del soldato, fin lì noti soltanto a una minoranza ben disposta o più spesso riluttante, erano diventati un’esperienza comune a un’intera generazione. Come si era arrivati a questo?… dopo il 1792, quando si profilò la minaccia di un’invasione, la Francia ebbe bisogno in tutta fretta di un esercito consistente ed efficiente. L’antimiliratismo del 1789 era ormai stato dimenticato; era stata accettata la logica del diritto costituzionale americano di “portare le armi” e il possesso di un’arma da fuoco era ormai considerato una garanzia per la libertà del cittadino… all’inizio del 1793, 300.000 uomini furono chiamati volenti o nolenti sotto le armi, e il 23 agosto fu promulgato il decreto della levée en masse.

E’ questo l’humus in cui trovano terreno le idee di von Clausewitz. Le armate francesi si erano rivelate superiori per il retroterra politico in cui erano state indottrinate (provo a riformulare il pensiero: il retroterra politico francese permise di mobilitare e motivare masse mai così grandi di uomini, ecco perchè fu superiore).

Alla lunga, sono questi i prodromi del massacro della prima guerra mondiale.

Il fatto che mancassero sia una resistenza sia un sostegno ad essa ci suggerisce qualcosa di ben diverso da ciò che affermano coloro secondo cui von Clausewitz fu l’architetto della prima guerra mondiale. Gli architetti creano strutture, ma non possono determinare gli stati d’animo; riflettono una cultura, non possono crearla. Nel 1914 uno stato d’animo culturale assolutamente senza precedenti dominava la società europea, una società che accettava il dovere di ogni individuo abile di sesso maschile di prestare il servizio militare, che coglieva nell’adempimento del servizio stesso un esercizio necessario della virtù civica e rifiutava come pregiudizio superato l’antica distinzione sociale tra il guerriero e tutti gli altri.

Un anticipazione di questa catastrofe fu, per estensione, durata e mobilitazione, la guerra civile americana del 1861-1865.

L’idea della guerra santa, sostanzialmente estranea alla cultura europea e cristiana, anima gli uomini e i ragazzi nei fatali anni 1914-1918, come dimostrano le tristi vicende dei battagliano di universitari tedeschi lanciatisi al massacro nella battaglia di Ypres dell’ottobre 1914.

La potenza di fuoco e la cultura del servizio militare

Il registro delle perdite militari, dai primi dell’800 alla prima guerra mondiale, conosce un andamento ascendente senza sosta. Il miglioramento della nutrizione e dell’igiene non fecero altro che mettere a disposizione masse umani più grandi per la guerra. Il conflitto anglo-boero del 1902 fu l’ultimo in cui le epidemie debilitarono seriamente gli eserciti.

Verdun, la Somme, la Marna furono ecatombi cui i soldati francesi, nella primavera del 1917, risposero con quello che è stato definito in modo inesatto un ammutinamento, ma che più propriamente fu uno sciopero contro le operazioni militari su vasta scala. Sul fronte russo, la guerra annientò proprio le truppe su cui il governo zarista avrebbe potuto fare affidamente contro i rivoluzionari bolscevichi.

La verità era che tutti gli stati belligeranti avevano sottoposto le loro truppe a una prova troppo dura, un’ordalia che era stata tanto imposta quando provocato da loro stessi. Le popolazioni che nel 1914 avevano salutato con grande entusiasmo lo scoppio della guerra, avevano mandto i loro giovani al fronte nella convinzione che avrebbero conquistato non solo vittoria ma anche la gloria e che il loro ritorno con tutti gli onori avrebbe giustificato tutta la fede che avevano investito nella cultura del servizio militare universale e delle dedizione al combattimento. La guerra demolì questa illusione.

E ancora:

E’ vero che i popoli guerrieri avevano fatto di ogni uomo un soldato, ma si erano preoccupati di combattere soltanto con modalità che evitavano un conflitto diretto o prolungato con il nemico, consideravano il disimpegno e la ritirata  come risposte ammissibili e ragionevoli a una resistenza decisa, non idolatravano il coraggio disperato e sapevano dare una valutazione precisa dell’utilità della violenza.

Greci e Romani non avevano mai preteso la disfatta clausewitziana del nemico. Ciò non cambio nel Medioevo prima e nell’età Moderna, anche quando i conflitti religiosi esacerbarono gli animi.

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La guerra di trincea, la più sanguinosa della storia umana, fu la tomba della Vecchia Europa.

Nessuna società prima del 1789 considerò la carriera del soldato altro che una vocazione per pochi. La guerra era considerata a ragione una faccenda troppo brutale per chiunque salvo colore che la posizione sociale incanalava in quella direzione o che erano costretti ad arruolarsi dalla mancanza di qualsivoglia posizione sociale.

Le società pre-1789, in sostanza, avevano capito che la guerra è troppo brutale perchè sia un dovere che l’intera popolazione maschile deve esercitare. Da questo punto di vista, la Rivoluzione Francese fu la rivoluzione del “diritto” ad essere guerrieri da parte di tutti e non solo degli aristocratici e dei mercenari.

Tutto ciò portò all’ecatombe della prima guerra mondiale

Nel novembre del 1918 la Francia aveva perso 1 milione e 700mila giovani su una popolazione di 40 milioni di abitanti, l’Italia 600mila su una popolazione di 36 milioni, l’impero britannico 1 milione di uomini su cui 700mila dall’isola… La Germania 2 milioni su una popolazione di 70 milioni.

Le armi finali

Una minoranza trovò l’esperienza della guerra, nonostante tutto, esaltante. Tale minoranza prese il potere in alcuni paesi (Germania e Italia su tutti). Il riarmo tedesco fu possibile non solo perchè economicamente conveniente e perchè abbatteva la disoccupazione, ma anche per il ritrovato orgoglio nazionale.

La nuova guerra rivelò che l’empasse del precedente conflitto era stato superato. La Blitzkrieg, cioè l’uso di nuove armi per lo più economiche (carro armato, radio, aereo) furono la base della fede nazista nella vittoria.

La Blitzkrieg conseguì risultati negati ai comandanti del passato, la cui capacità di sfruttare il successo nel punto dell’attacco era limitata dalla velocità e dalla resistenza del cavallo.

Su Hitler, così si esprime Keegan citazione pag. 373

Retrospettivamente Hitler deve essere considerato il condottiero più pericoloso che abbia mai afflitto la civiltà, in quanto nella sua concezione si combinavano tre idee spaventosamente complementari che s’incontrano spesso separatamente, ma mai prima combinate in un’unica mente. Era ossessionato dalla tecnologia della guerra, di cui si vantava di conoscere i dettagli, ed era assolutamente convinto che la superiorità degli armamenti poteva essere la chiavi della vittoria… nondimeno, credeva anche nella supremazia della classe guerriera, che nei messaggi politici al popolo tedesco investì di un contenuto razziale spietato. Infine, era un clausewitziano convinto: considerava realmente la guerra una continuazione della politica… concepiva la vita come una lotta e quindi la guerra come lo strumento naturale con cui la politica razziale avrebbe conseguito i suoi obbiettivi.

In sostanza, in Hitler si univano lo sfruttamento di armi rivoluzionarie, l’ethos guerriero e la filosofia clausewitziana.

La fede di Hitler nelle nuove armi si rivelò ben riposta sulla terra, dove i tedeschi colsero importanti successi fino al 1942, ma fallimentare sul mare, dove gli U-Boot tedeschi non poterono mai colmare il gap con le flotte alleate e bloccare i rifornimenti dagli Usa alla Gran Bretagna, e in cielo, dove la Luftwaffe fu sconfitta e dal 1943 non poté impedire i devastanti bombardamenti sulla Germania.

Non meno importante il ruolo del Giappone nella guerra. Esso fu l’unico popolo extraeuropeo in grado di prendere la tecnologia europea e conservare il suo ethos pre-tecnologico, impresa in cui cinesi, indiani, egiziani e ottomani avevano fallito nel secolo precedente.

In questo contesto si inserisce la corsa alle “nuove armi” o “armi finali”. Se il carro armato e l’aereo avevano evitato gli orrori della trincea, allora nuove armi ancora più potenti avrebbero evitato la guerra tout court. Cosa che in effetti avvenne con le due atomiche di Hiroshima e Nagasaki.

Il diritto e la fine della guerra

La fine della seconda guerra mondiale vide due fenomeni. Da un lato la militarizzazione all’occidentale dei popoli asiatici e africani in precedenza colonizzati; dall’altro, l’avvento dell’era nucleare. Il primo non preoccupò troppo le elitè e i popoli occidentali. Ben diverso fu per le armi di distruzione di massa. E’ qui che l’analisi clausewitziana sembra fallire definitivamente:

Le armi nucleari hanno ossessionato la mente umana e le paure che hanno suscitato hanno smascherato una volta per tutte la falsità dell’analisi clausewitziana. Come può la guerra essere un’estensione della politica quando l’obiettivo finale di una politica razionale è di favorire la prosperità delle entità politiche?

Inoltre, come può la distruzione del pianeta e dell’umanità, resa possibile dalle armi nucleari, accordarsi con una qualsiasi forma di politica?  La risposta fu la “politica della deterrenza”, che prevedeva solo la minaccia e non l’uso delle armi atomiche. Sin dall’antichità, e ancora di più nel medioevo, si era tentato di definire il confine tra guerra giusta e ingiusta. In epoca contemporanea molti organismi (dalla Società delle Nazioni fino all’Onu) hanno tentato lo stesso.

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Ha ancora senso parlare di politica quando la guerra consente la totale distruzione del genere umano?

Bisogna voltare le spalle a von Clausewitz, afferma Keegan nelle battute finali. La guerra non è solo continuazione del procedimento politico con altri mezzi; non è inevitabile nè tantomeno necessaria.

Tutto ciò che abbiamo bisogno di accettare è che nel corso di 4000 anni di esperimenti e rivoluzioni la guerra era diventata un’abitudine. Nel mondo primitivo quest’abitudine era circoscritta dal rituale e dalla cerimonia. Nel mondo post-primitivo l’ingegno dell’uomo ha cancellato dalla pratica bellica il rituale e la cerimonia, e quindi i vincoli che imponevano alla guerra, autorizzando gli addetti alla violenza a spingerne all’estremo, e infine oltre, i limiti di tollerabilità… von Clausewitz non immaginava gli orrori a cui avrebbe condotto la sua logica filosofica, mentre noi li abbiamo intravisti. Sarebbe bene riapprendere le abitudini dei primitivi, loro sì rispettosi della limitazione, della diplomazia e del negoziato. Non sopravvivremo se non ci disferemo delle nuove abitudini che abbiamo imparato

Per concludere

E’ stata una lunga cavalcata che ci ha visto ripercorrere migliaia di anni di storia dell’uomo. Abbiamo analizzato in dettaglio ogni aspetto del fenomeno bellico: la sua nascita nelle comunità sedentaria della Mesopotamia, la resistenza primitiva al combattimento faccia a faccia e lo stile elusivo dei nomadi; le scoperte del ferro e del fuoco; soprattutto, l’influenza della cultura sulla guerra.

Concludo dicendo che la mia ambizione, se il tempo lo permetterà, è leggere altre opere  (come Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond) e farne dei riassunti ragionati come questo.

Per il momento, puoi trovare le precedenti puntate di questo riassunto nella sezione Saggistica del blog.


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Copertina

Fine del I secolo d.C. L’imperatore Domiziano, che si fa chiamare con l’appellativo di “dominus et deus”, annuncia la sua visita in una città del nord Italia. Per festeggiare l’evento, ordina che siano preparati in suo onore dei giochi tra gladiatori. Il nobile Gaio Valerio, organizzatore dei giochi, deve soddisfare la volontà dell’imperatore di veder combattere una gladiatrice. La prescelta è Eilis, schiava di origini britanniche che nell’arena si è guadagnata il soprannome di Fenice. Le richieste imperiali però non si fermano qui…

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