[SAGGIO] La grande storia della guerra (3) – John Keegan

BIO2483Dal risvolto di copertina: Che cos’è la guerra? Il semplice “proseguimento della politica con altri mezzi”, come riteneva l’illuminista barone von Clausewitz, oppure una necessità profonda e oscura, legata a quell’irrazionale istinto di morte cui Freud condanna la specie umana?

La grande storia della guerra di John Keegan non è un semplice saggio di storia militare. La narrazione e la ricostruzione di battaglie non occupano la parte centrale di questo libro. E’ invece un’opera multidisciplinare in cui si fa ricorso ad un ampio spettro di conoscenze, fonti, studi: dall’economia all’antropologia, dalla psicologia alla geografia. Obiettivo: esplorare ogni aspetto con cui la guerra si è manifestata e studiare le possibili cause della sua origine.

L’opera è lunga (ma non lunghissima) ed estremamente densa di informazioni, teorie, fatti; pertanto suddivido l’articolo in ben 5 parti (!), tanti quanti sono i capitoli del libro:

  1. La guerra nella storia dell’uomo.
  2. La pietra.
  3. La carne.
  4. Il ferro.
  5. Il fuoco.

Come se non bastasse vi sono anche quattro intermezzi tra un capitolo e l’altro: limitazioni alla guerra, fortificazioni, eserciti, logistica e approvvigionamenti.

Dopo aver trattato i primi due capitoli (qui e qui), oggi è il turno del terzo.

LA CARNE

L’avvento del carro da combattimento

Il capitolo è dedicato al cavallo e all’ascesa dei popoli che lo utilizzarono in modo massiccio. La selezione di un cavallo abbastanza robusto da portare l’uomo in sella e il suo addomesticamento furono un processo molto lungo, preceduto da una lunga fase in cui il cavallo non era altro che una fonte di cibo. In America gli antenati del cavallo vennero cacciato fino all’estinzione e ciò privò questi popoli di un’arma superba. In Asia e in Europa, invece, il cavallo fu spinto nella steppa dal diffondersi delle foreste nelle zone temperate.

L’uomo addomesticò il cavallo passando per la mucca e per la renna. Il bue era solido, affidabile ma irrimediabilmente lento. Buono per tirare l’aratro, nulla di più. E’ paradossale che un’arretratezza tecnologica nella realizzazione di una bardatura efficace risparmiò per lungo tempo al cavallo le fatiche agricole, destinandolo invece alla guerra. Proprio la necessità di avere uno strumento da traino leggero portò all’ideazione del carro, prima a quattro e poi a due ruote.

Il carro comparve in quelle zone di confine tra civiltà agricola e civiltà nomade delle steppe. La psicologia però che accompagnava questi guerrieri era la più letale mai apparsa fino ad allora sulla terra. Il contadino sedentario evita di uccidere i suoi animali per conservarli più a lungo possibile; la carne era solo una parte della sua alimentazione.

Per il pastore scegliere la vittima e ucciderla è cosa di ordinaria amministrazione. Nei confronti di pecore e capre egli deve essere privo di sensibilità e considerarle nient’altro che cibo a quattro zampe… di certo uccidevano la produzione annuale di giovani animali e le bestie più vecchie che allevavano… questo programma di uccisioni richiedeva la capacità di spacciare una creatura vivente con il minimo di danni alla carcassa e al suo contenuto prezioso e creando la minima agitazione possibile nel resto del gregge. Infliggere un solo colpo mortale, rapido e netto, era per il pastore una tecnica essenziale, senza dubbio accresciuta dalle nozioni anatomiche acquisite con la macellazione regolare, così come la necessità di castrare gran parte dei maschi del gregge, di assistere le pecore partorienti e di esercitare la rozza chirurgia veterinaria per il governo del gregge gli impartiva altre lezioni sul taglio delle carni. Fu dunque questo compito di assistenza del bestiame, insieme con la pratica della macellazione, a rendere i popoli dediti alla pastorizia tanto esperti e freddi nell’affrontare in battaglia gli agricoltori sedentari delle terre civilizzate.

La tattica guerriera elusiva ed elastica di questi popoli (unni, turchi, mongoli) deriva proprio dalla gestione del gregge: non c’è interesse a formare una linea di battaglia. Una formazione elastica, che sfrutta la mobilità per accerchiare il nemico, è più efficace per gli scopi di questi popoli.

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Diffusione del carro da guerra (date avanti Cristo). Le scoperte più recenti indicano nella Cultura di Sintashta il luogo d’origine del carro.

L’autore parla anche dell’arco da guerra composito, ma ho trovato l’analisi della sua origine carente. Non saprei dire se è per ignoranza generale su questo aspetto o per fretta, ma avrei voluto più notizie sulla comparsa di un simile oggetto ad alta tecnologia, così come poche pagine prima si è fatto per l’origine del carro.

La combinazione di carro leggero e arco composito fornirono i popoli della steppa (la cui esatta provenienza è tuttavia incerta) di una superiorità indiscutibile sui popoli stanziali. Nel 1700 a.C. tali popoli (qui chiamati Hyksos) invasero l’Egitto; nel 1525 a.C. la Mesopotamia; poco dopo cadde anche la civiltà dell’Indo e infine, nel 1400 a.C., i fondatori della dinastia Shang si stabilirono in Cina. Queste furono solo le prime di successive e ripetitive ondate che, partendo dalle terre centrali dell’Asia invasero le regione abitate da popolazioni stanziali. Quasi sempre, inoltre, i popoli del carro instaurarono tirannie brevi e inconcludenti, presto sopraffatte dal riemergere dei popoli sconfitti.

Il carro e l’Assiria

La reazione alla tecnologia del carro fu la creazione di eserciti permanenti e organizzati basati anche (ma non solo) sul carro stesso. Gli Assiri furono i primi a farlo.

All’apice del suo potere, ovvero nell’VIII secolo a.C., l’esercito assiro mostrava le caratteristiche su cui sarebbero stati modellati molti di quelli successivi di altri imperi; alcune di esse sono giunte fino ai giorni nostri. Spicca tra queste l’organizzazione logistica… l’esercito assiro fu il primo vero esercito a coprire grandi distanze, in grado di spingersi fino a quattrocento chilometri dalla base e di spostarsi a una velocità che non sarebbe stata superata fino all’avvento del motore.

La cultura del carro da guerra ebbe una conseguenza interessante: l’emergere di una concezione aristocratica della guerra. Vi sono molti resoconti (mesopotamici e non) che raccontano di re, eroi e guerrieri che sfidano il rivale dello schieramento avverso. L’Iliade riecheggia tutto ciò, anche se la lontananza dell’autore dai tempi narrati gli fa male interpretare l’uso del carro (come una sorta di banale “taxi” dall’accampamento al fronte).

Il cavallo da battaglia e i popoli a cavallo della steppa

Il successivo salto qualitativo avvenne quando dal carro si passò direttamente al cavallo. Questo fu di nuovo merito dei popoli della steppa. La caduta dell’impero assiro ad opera di popolazioni nomade di sciti e medi, alleatisi con i vassalli ribelli degli assiri, ne fu la conseguenza. Gli sciti e i medi furono i primi ad addestrare cavalli abbastanza robusti da essere cavalcati per lunghi periodi sul dorso. Da allora, le invasioni di popoli nomadi a cavallo, provenienti dal cuore dell’Asia e diretti verso le propaggini del continente euroasiatico, si successero con continuità per secoli. Da dove provenivano?

Keegan risponde con un’interessante analisi geografica della steppa. Così come la Siberia non è tutta la terra al di là degli Urali, così la steppa si può suddividere in varie fasce.

La steppa vera e propria è una fascia allungata di terreno erboso lunga 4500 chilometri e larga in media 750, che confina a nord con il subartico e a sud con il deserto e le montagne; all’estremità orientale da sulle valli fluviali della Cina e a quella occidentale sulle strade di approccio alle fertili terre del Medio Oriente e dell’Europa.

Perchè i popoli della steppa invasero a cicli continui i popoli stanziali? Sono state proposte molte spiegazioni. La prima è quella climatica: una variazione di temperatura, di umidità o di piovosità poteva alterare la ricchezza dei pascoli. La seconda è commerciale: i popoli della steppa volevano costringere i popoli stanziali a commerciare. Così come fecero gli inglesi con l’oppio in Cina, la forza è il miglior metodo per obbligare qualcuno a commerciare (cioè a fornire volontariamente le sue risorse e le sue capacità). Ciò è l’essenza dell’imperialismo.

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La steppa. La guerra sviluppatasi in questo ambiente era molto diversa da quella sorta presso le civiltà stanziali dei grandi fiumi o sulle coste europee.

Gli unni

Questo capitolo è estremamente interessante perchè contiene una bella spiegazione logistica del perchè Attila si ritirò dall’Italia nel 452. La base del potere unno era la fertile pianura ungherese, dove decine di migliaia di cavalli potevano essere mantenuti e cresciuti in piena efficienza per servire nell’esercito. Il logoramento delle risorse animali, con tutta probabilità, mise in ginocchio l’armata unna. Keegan cita come esempio i 347mila cavalli morti (su 518mila impiegati) durante la guerra anglo-boera del 1899-1902. In una situazione tecnologia più arretrata, le perdite degli unni devono essere state anche maggiori.

Ciò spiega anche perchè alla morte di Attila il potere unno crollò così rapidamente. I suoi successori non avevano più forze da usare.

Può darsi che il Flagello di Dio fosse tale anche per il suo esercito.

Così commenta con velata ironia l’autore.

L’orizzonte dei popoli a cavallo, 453-1258

Questo periodo vede l’ascesa e la definitiva affermazione di un nuovo tipo di forza militare. Fino agli unni, soltanto i popoli stanziali potevano finanziare un esercito vasto usando le eccedenze economiche (essenzialmente agricole). I popoli a cavallo dimostrarono che un’altra via era possibile. Inoltre, al contrario degli stanziali, i nomadi potevano spostare il proprio centro strategico anche di decine e centinaia di chilometri. Così fece Attila invadendo un anno la Francia e il seguente l’Italia, così faranno tutti i popoli della steppa. Anche la loro mentalità era diversa. I goti, stanziali, invasero l’impero per farsi assorbire in esso. I nomadi, no. Si accontentavano del bottino e della sottomissione completa del nemico. E’ il militarismo, ma in un senso diverso da quello occidentale.

I popoli della steppa combatterono in tutte le occasioni una guerra vera (qui uso la terminologia di von Clausewitz): ricerca della vittoria totale. Eppure, una cosa era profondamente diversa.

La loro guerra non aveva un obiettivo politico nel senso clausewitziano e non ebbe effetto di trasformazione culturale. Non fu uno strumento di progresso materiale o sociale ma esattamente il contrario, fu il processo grazie al quale ottennero le ricchezze necessarie ad alimentar un modo di vita immutabile, a restare esattamente ciò che erano stati fin dai tempi in cui i loro antenati avevano scoccato per la prima volta una freccia dalla sella.

Keegan analizza due popoli: gli arabi e i mongoli. I primi dimostrarono la potenza che le tecniche di guerra a cavallo potevano ottenere se combinate con un forte credo religioso, il cui merito era soprattutto quello di superare i tradizionali tribalismi dello stile di vita nomade. Il mondo era diviso in due: l’Islam e il non-Islam. Nel primo, tutti erano uguali sotto Allah senza che ci fosse alcuna distinzione basata sugli antenati.

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Arcieri mongoli attorno al 1200, dotati di arco composito. Un’analisi dettagliata degli effetti di quest’arma si trovano in “La grande strategia dell’impero bizantino” di Edward N. Luttwak.

Ancor più sorprendente è il travolgente successo dei mongoli. Non vi è una ragione specifica per cui propri i mongoli (e non altri popoli della steppa precedenti o successivi) costruirono un impero così grande spargendo un altrettanto immenso terrore. Ho trovato il paragrafo sui mongoli abbastanza confuso. Keegan scarta tutta una serie di ipotesi sulle cause del loro successo: superiorità tecnologica, organizzazione militare, debolezza dei nemici. Conclude facendo un paragone con la conquista araba: Gengis Khan aveva una forte convinzione religiosa anche se pagana di essere inviato dal Cielo (espressione comune in Cina) per ristabilire la giustizia. Inoltre egli seguì criteri rigidamente meritocratici nell’assegnazione dei comandi militari. Tuttavia non mi ha convinto appieno.

Il declino dei popoli a cavallo

I popoli della steppa declinarono inevitabilmente. Il loro lascito sull’arte della guerra in Europa (e in generale presso i popoli stanziali) fu invece molto più duraturo. Il meccanismo di allontanamento emotivo dell’uccisione, che la vita nomade e il tiro con l’arco comportavano, ebbe effetto sulla mentalità occidentale.

I popoli stabili trovavano terribile proprio il distacco emotivo dei guerrieri a cavallo, che si manifestava in ultima analisi nel loro deliberato esercizio di atrocità.

Alcuni dei meccanismi psicologici che l’uomo stanziale si era portato appresso dai tempi primitivi (l’elusione dello scontro e la ritualizzazione dello stesso) erano del tutto ignorati dai popoli nomadi. Tali popoli combattevano per vincere rapidamente e massacravano senza rimorsi. Per i guerrieri occidentali era sconcertate non poter individuare, sul campo di battaglia, la posizione del comandante nemico. La finalità della vittoria, ecco il lascito dei popoli della steppa (i mongoli più di tutti gli altri) ai popoli stanziali.

Gli eserciti europei dell’epoca dell’imperialismo dovevano uno dei pilastri della loro efficienza a un principio affermato fuori dalla steppa, quello dell’organizzazione burocratica, nato in Sumer in Assiria… dovevano ai greci un altro principio, quello dell’impegno nella battaglia campale. Tutti gli altri – le campagna a grande distanza, l’elevata velocità di manovra sul campo di battaglia, un’efficace tecnologia di tiro, l’applicazione della ruota alla guerra e soprattutto l’affiatamento tra cavallo e guerriero – avevano avuto origine nella steppa e nelle terre al confine con esso.

Fu questa cultura che Clausewitz incontrò in Russia nel 1812 e da cui rimase offeso, cosa che però non gli impedì di assorbirne inconsciamente alcuni principi.

Appuntamento a presto con il quarto episodio de La grande storia della guerra di John Keegan, dedicato all’effetto delle scoperte metallurgiche sulla concezione e la prassi militare.


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Copertina

Fine del I secolo d.C. L’imperatore Domiziano, che si fa chiamare con l’appellativo di “dominus et deus”, annuncia la sua visita in una città del nord Italia. Per festeggiare l’evento, ordina che siano preparati in suo onore dei giochi tra gladiatori. Il nobile Gaio Valerio, organizzatore dei giochi, deve soddisfare la volontà dell’imperatore di veder combattere una gladiatrice. La prescelta è Eilis, schiava di origini britanniche che nell’arena si è guadagnata il soprannome di Fenice. Le richieste imperiali però non si fermano qui…

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