“Introduzione all’archeologia classica come storia dell’arte antica” di Ranuccio Bianchi Bandinelli

Un’indispensabile guida introduttiva agli studi archeologici attraverso una trattazione semantica (Winckelmann – L’archeologia filologica – Le scoperte e le grandi imprese di scavo – Ricerche teoriche e storicismo agli albori del Novecento – Problemi di metodo), e insieme l’appassionata polemica di uno degli ultimi «grandi intellettuali» italiani contro le tendenze più recenti della disciplina in cui era maestro.

Prima edizione: 1976
Pagine: 212
Editore: Laterza
Formato: cartaceo

Il mistero di questa edizione è la scomparsa dell’importantissimo sottotitolo…

Il primo motivo che mi ha portato a leggere il libro è stato l’aver già apprezzato Roma – L’arte romana nel centro del potere (opera che però non ho portato qui sul blog) per la solidità del discorso che l’autore vi conduceva. Due ulteriori motivi, sin dalle primissime pagine di questa Introduzione mi hanno confermato nella scelta: il primo di carattere personale e affettivo; il secondo filosofico. Nella “Avvertenza” che precede il testo l’autore racconta la genesi dell’opera: sì la contingente contestazione del ’68 e le “esplicite richieste da parte
dei giovani, di abolire ogni insegnamento storico-artistico”, ma soprattutto la circolazione di dispense semi-clandestine dei corsi che egli stesso ha tenuto nel dopoguerra in varie università italiane. Chiunque ha fatto l’università non può farsi cogliere dalla nostalgia nel leggere parole di questo tenore.

Il secondo motivo è decisamente più pregnante. Così scrive Bandinelli poche righe dopo:

È indubbio che è necessario riprendere coscienza dei valori della cultura storica di fronte ai pericoli che un prevalere delle scienze tecnologiche possono rappresentare… perché in un prevalere del mondo che avesse per modello la tecnica io vedo un enorme pericolo per la libertà razionale dell’umano pensare e dell’umano agire. Il mondo costruito sul modello di una civiltà prevalentemente tecnica, che non ha bisogno di essere storicizzato, è retto, in realtà, dalle forze politiche che governano la tecnica.

Simili parole hanno grandemente accresciuto la stima che avevo nei confronti dell’autore, in quanto dimostrano una piena consapevolezza dell’evoluzione culturale europea e mondiale e una decisa presa di posizione “umana”.

La citazione più memorabile dal libro è quando Bandinelli deplora le due dittatture che hanno sconvolto l’Italia della prima metà del ‘900: il mussolinismo e il crocianesimo!

Cos’è l’archeologia?

Uno dei primi esempi di “archeologia”, ovvero “discorso o indagine sulle cose antiche” si trova già in Tucidide, quando racconta che gli ateniesi, liberata l’isola di Delo e purificatala rimuovendo tutte le tombe, scoprirono che essere contenevano per metà sepolture di fenici e carii, che dunque erano stati i primi abitatoti delle isole egee. Questo, secondo Bandinelli, è il primo esempio di deduzione storico da un dato archeologico.

Questo primo esempio non venne seguito. Gli eruditi antichi non andarono mai oltre la semplice curiosità sul passato. Per molti secoli, a partire dal presunto rinascimento, la ricerca archeologica fu figlia minore della filologia umanistica, la quale vedeva nella classicità greco-romana l’unica civiltà degna d’essere ricercata: riscoperta per imitare il passato, dunque, non per comprenderlo. Il punto culminante di questo fenomeno fu nel 1764 la pubblicazione e il sostanziale fraintendimento della monumentale Storia delle arti del disegno presso gli Antichi di Joahnn Winckelmann.

Quest’opera pose il campo per un’infinità incredibile di “danni” alla concezione storica dell’archeologia. Anzitutto, essa si basava per forza di cose su reperti archeologici precedenti l’epoca delle grandi riscoperte ottocentesche, vale a dire solo sulla riproduzione di copie di età romana dagli originali greci; in secondo, essa impose il primato di una concezione estetica fissista predominante su ogni discorso storicistico. Detto in parole povere: Winckelmann e i suoi successori “crearono” il concetto di “bello ideale” e lo posero su un piedistallo, dal quale fu possibile ignorare i processi storici sottesi ad un’opera d’arte e giudicare negativamente le opere che fossero espressioni di altri popoli o di altre epoche storiche, come l’età arcaica della Grecia o il romano tardo-antico. In sostanza: ogni discorso storico fu di fatto “abolito” in nome di un’astratta o comunque mal interpretata concenzione del “bello ideale”. Come esempio di ciò, Bandinelli riproduce per intero la pagina di descrizione liricheggiante dell’Apollo del Belvedere fatta da Winckelmann. Vale la pena citare Bandinelli che cita Winckelmann:

La statua dell’Apollo di Belvedere è la più sublime tra tutte le opere antiche, che fino a noi si sono conservate. Direbbesi che l’artista ha qui formata una statua puramente ideale, prendendo dalla materia quel solo che era necessario per esprimere Il suo intento, e renderlo visibile. Questa mirabile statua tanto
supera tutti gli altri simulacri di quel dio, quanto l’Apollo di Omero è più grande degli altri descritti da’ susseguenti poeti. Il complesso delle sue forme sollevasi sovra l’umana natura, e il suo atteggiamento mostra la grandezza divina che lo investe. Una primavera eterna, qual regna ne’ beati Elisi, spande sulle virili forme d’un’età perfetta i tratti della piacevole gioventù, e sembra che una tenera morbidezza scherzi sull’altera struttura delle sue membra. Vola, o tu che ami i monumenti dell’arte, vola col tuo spirito fino alla regione delle bellezze incorporee, e diventa un creatore di una natura celeste per riempire l’alma tua coll’idea d’un bello sovrumano, poiché in quella figura nulla v’è di mortale, nessun indizio si scorge dei bisogni dell’umanità!

L’Apollo del Belvedere oggi conservato ai Musei Vaticani

Senza dubbio un bellissimo brano di prosa, commenta Bandinelli, ma non certo il modo storico di approcciarsi ad un’opera d’arte!

L’evoluzione dell’arte greca: da Winckelmann allo storicismo

Winckelmann, pur avendo il merito di elevarsi dalla erudita ma vuota ricerca antiquaria, ebbe il demerito di fissare un criterio estetico alla base della ricerca storica in arte. Con il tedesco da un blocco monolitico di “arte dei secoli antichi” si passò ad una prima periodizzazione parabolica (ascesa, apice, declino) basata per l’appunto sull’evoluzione estetica: stile antico, stile sublime (V-IV con Fidia e successori), stile bello (età ellenista di Prassitele) e decadenza (un periodo lunghissimo). Bandinelli sottolinea come ogni fase creativa della civiltà greca nasca da una crisi: la crisi degli schemi geometrici porta al naturalismo arcaico, quella dei modelli arcaici conduce al classicismo, e via dicendo. L’arte greca, lungi dall’essere immutabile, è frutto di continue rotture, tensioni e rielaborazioni. Bandinelli ribalta così la prospettiva di Winckelmann:

Fondamentale equivoco quello che l’arte greca sia un’arte essenzialmente volta alla idealizzazione del vero, mentre da tempo a me sembra evidente che si debba riconoscere come l’arte greca sia stata più di ogni altra arte del mondo antico rivolta alla ricerca di un sostanziale realismo. Essa è l’unica, infatti, che abbandona la ripetizione di schemi figurativi fissi e simbolici; l’unica che inventa lo scorcio e la prospettiva e il colore locale, per afferrare l’aspetto realistico delle cose. Essa si pone precocemente sulla via del naturalismo per realizzarlo pienamente nell’età ellenistica.

Bandinelli descrive la nascita dell’arte greca come un processo di liberazione dalla rigidità geometrica dell’arte preellenica. Nei secoli VIII-VII a.C., si sviluppa una nuova attenzione al corpo umano e alla rappresentazione della vita e il miracolo greco consiste nell’umanizzazione dell’arte: si passa da figure schematiche (arte geometrica) a figure progressivamente più naturalistiche. I greci, tuttavia, dice Bandinelli, non copiano ma reinterpretano creativamente ogni stimolo, anche straniero. L’arte arcaica greca si sviluppa dunque come sintesi originale di elementi indigeni e influenze esterne, ponendo le basi per la futura classicità.

Ricostruzione del museo di Atene della statua del cavaliere Rampin (testa+busto): la testa è al Louvre, il busto è ad Atene.

Un esempio di questo è il “cavaliere Rampin”, un reperto di età arcaico la cui testa fu ricollegata al busto d’appartenenza solo nel ‘900. L’opera mostra ancora caratteri arcaici (rigidità dei tratti, sorriso arcaico, impostazione convenzionale del volto) ma rivela già uno sforzo verso una maggiore ndividualizzazione e vitalità espressiva rispetto agli schemi più rigidi dell’età arcaica precedente.

Storicamente, invece, al Winckelmann seguì nell’800 la scuola filologica, che dal Winckelmann prese le mosse per iniziare una faticosa opera di ricerca, individuazione e attribuzione delle opere ad autori singoli o a scuole: opera faticosissima, da condursi tramite sottili analisi, in cui l’arbitrio di partenza – dall’aderenza del filologo a questa o a quella teoria o dall’avere questo o quel pregiudizio – ha spesso inficiato il risultato. Bandinelli segue così le vicende di diversi filologi, archeologi, storici dell’arte tra ‘800 e ‘900 quali Alois Riegl, Gottfried Semper, Adolf Furtwängler e altri, ognuno portatore di una visione diversa su quale dovesse essere il metodo “giusto”.

Perchè studiare l’archeologia?

La consueta domanda a cui ogni studioso di “ambito umanistico” deve rispondere è l’utilità della propria materia. Bandinelli, dopo una lunga ricerca durata l’intero libro, ricerca in cui ha enucleato le risposte date in passato (in cui il vizio antiquario e il fraintendimento moderno oscurarono ragionamenti più profondi), afferma che la “cultura è comprensione dell’oggi attraverso una compresione critica del passato” e, da questo, la storia dell’arte come compresione dei documenti visiti prodotti da una civiltà, documenti visivi che sono prodotto della scoperta archeologica. Archeologia e storia dell’arte, dunque, procedono a braccetto, l’una interrogando l’altra e viceversa. Non v’è alternativa a questo modello, perché esso è l’unico che può veramente avvicinare l’antichità classica a noi, uomini e donne di 2000 anni dopo, che dai problemi contingenti che diedere luogo a quelle opere siamo per forza di cose lontani.

Parte dei marmi del frontone del Partenone , al British Museum di Londra. Bandinelli descrive anche la sorpresa che la loro scoperta provocò ad inizio ‘800.

Riallacciandoci all’introduzione dell’articolo e alla citazione che Bandinelli fa dei pericoli della tecnica, si può affermare che l’archeologia, lontana dall’essere una mera raccolta di curiosità polverose, si configura come una disciplina profondamente attuale perché custodisce la memoria storica dell’umanità e, addirittura, offre modelli alternativi rispetto a un presente dominato dalla tecnica. Essa insegna che le civiltà non sono mai monolitiche, ma frutto di stratificazioni e dialoghi, e ci educa alla complessità.

Questa riaffermazione del metodo storico-critico è il lascito, attuale ancora oggi, di Ranuccio Bianchi Bandinelli.

Una breve riflessione personale…

Il libro di Bandinelli risale agli ’70 del secolo scorso, dunque mezzo secolo fa (!). Bandinelli era già allora consapevole della distanza quasi incolmabile che separa il nostro sentire moderno da quello antico. Oggi, negli 2020, in un panorama culturale inevitabilmente nuovo e mutato rispetto a quello di cinquant’anni fa, giova ribadire, come fa Bandinelli, che il metodo storico-critico non è un lusso intellettuale, ma una necessità: senza un accurato lavoro di ricostruzione storica, ogni interpretazione rischia di essere una proiezione di ideologie contemporanee sui mondi del passato.


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