Il nuovo “Museo della Forma Urbis” – Roma, Parco Archeologico del Celio

Parco Archeologico del Celio, apertura 12 gennaio 2024


Molte opere dell’antichità hanno suscitato e suscitano grande impressione nell’immaginario di ogni epoca perché, almeno così credo, percepiamo che sono opere uniche, la cui realizzazione poteva avere luogo soltanto in quel particolare contesto storico, politico, culturale e sociale.

Nel caso della cosiddetta Forma Urbis, invece, siamo di fronte ad una realizzazione che, quasi sicuramente, non aveva velleità artistiche né propagandistiche (due aspetti da sempre molto vicini nell’antica Roma), ma rappresentò un avanzamento tecnico e concettuale altrettanto meritevole della nostra ammirazione. Il nome stesso “Forma Urbis” è moderno, anche se verosimile, perché di tale opera non ci è giunta alcuna testimonianza letteraria.

Cos’è dunque la Forma Urbis? È una pianta dell’Urbe che precorre, seppur con diversi limiti, le carte moderne. Fu realizzata su 150 lastre di marmo di varie dimensioni e misurava complessivamente 13 metri in altezza e 18 in larghezza (oltre 200 mq di superficie!). Conosciamo anche il luogo in cui era esposta: una parete interna del Tempio della Pace, che oggi fortunatamente sopravvive come retro della basilica dei Santi Cosma e Damiano e su cui sono ancora presenti i fori tramite cui le lastre vennero infisse verticalmente alla parete.

La città di Roma vi era rappresentata, tramite sottili incisioni nel marmo, in una scala di circa 1:240, sufficientemente dettagliata da distinguere i singoli vani degli edifici. Palazzi pubblici, case private, strade e giardini vi sono rappresentati con visuale quasi sempre dall’alto, al livello del suolo e con diverse soluzioni e convenzioni grafiche molto interessanti. La visuale non è quella per noi consueta, che pone il nord in alto, ma in cima figura il sud-est.

Qual era la finalità di questa grande opera? È difficile stabilirlo. La collocazione nel Tempio della Pace, che era divenuto nel tempo sede di “uffici amministrativi” della prefettura urbana, suggerisce funzioni di questo tipo: catastali, ad esempio. La disposizione verticale (la Forma Urbis era collocata a quattro metri dal livello del pavimento), però, rendeva quest’opera di difficile consultazione pratica, se non ricorrendo a scale e impalcature di vario tipo. Alcuni studiosi hanno quindi suggerito che fosse, a suo modo, un’opera di propaganda o di esposizione gratuita del potere dei committenti, cioè l’imperatore Settimio Severo.

L’attribuzione è certa, così come la datazione: tra il 203 d.C. (completamento del Settizonio, raffigurato in un frammento) e il 211 d.C., morte dell’imperatore (chiamato “nostro augusto” in un altro frammento).

L’opera non è esente da errori e imprecisioni. L’orientamento di alcuni edifici è sbagliato, come quello del tempio del Divo Claudio, spostato di circa 20°, e alcuni ripensamenti dovuti ad imprecisioni nell’incisione di alcune parole.

LA SCOPERTA DELLA FORMA URBIS

«…facendo cavare drieto a Templum pacis il… Cardinale (Farnese) ha trovato in centomila pezzi una parete, per chiamarla così, di muro, dove era intagliata la pianta di Roma, et fa raccorre diligentemente ogni pezzuolo per vedere di metterla insieme, et è già a quattro carrettate di piètre che si è fatto portare a casa».

La Forma Urbis venne scoperta casualmente dagli uomini del cardinale Alessandro Farnese, durante alcuni lavori di scavo nel 1562. I pezzi furono trasportati a Palazzo Farnese (oggi ambasciata di Francia) dove, dopo un iniziale entusiasmo, caddero nell’oblio e furono persino riutilizzato nei lavori di Villa Farnese sul Tevere. Nel ‘600 l’antiquario Giovan Pietro Bellori fece eseguire dei disegni che salvarono dall’oblio diversi pezzi oggi dispersi. Nel secolo successivo Benedetto XIV fece trasportare i pezzi sopravvissuti al Museo Capitolino e addirittura organizzò la prima esposizione in assoluto grazie all’opera di Giovanni Battista Nolli, architetto e incisore, realizzatore di una preziosissima mappa topografica di Roma (1748): della mappa del Nolli parleremo più sotto.

La mappa del Nolli del 1748. Per i più curiosi e coraggiosi su Wikipedia c’è la versione da 16000 pixel (50 MB di peso!).

Nel ‘900 i pezzi della Forma Urbis furono esposti nel Giardino Romano del Campidoglio (nel 1929) e poi “relegati” in un palazzo che ebbe vita breve e sfortunata, l’Antiquarium Comunale del Celio: realizzato nel 1929, fu lesionato irrimediabilmente dai primi scavi della metropolitana di Roma e demolito già nei primi anni ’40. Tale accidente comportò una sorta di stasi per la Forma Urbis, nonostante l’importante avanzamento per gli studi compiuto dall’archeologo Lucos Cozza, che nel 1948 dimostrò che un pezzo sopravvissuto della Forma Urbis combaciava con i fori retrostanti la chiesa di Cosma e Damiano. Infine, all’inizio del nostro secolo, venne finalmente intrapresa una nuova esposizione per la Forma Urbis, negli ex-locali della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) nei pressi del parco archeologico del Celio.

L’ESPOSIZIONE NEL MUSEO DEL CELIO

La più importante scelta è stata quella di predisporre un allestimento pavimentale per l’opera: nessun’altra configurazione avrebbe permesso di poter apprezzare l’opera nella sua interezza. La vasta superfice del museo è stata perciò addobbata, sotto un vetro che consente di camminarvi agevolmente, con la mappa del Nolli del 1748: questa mappa, più di ogni altra, può fare da ponte tra la città antica e quella contemporanea. In quella data, infatti, gran parte dell’area delimitata dalle antiche mura Aureliane era costituito da ruderi, ville e campagne, tranne l’abitato urbano addensatosi nel vecchio Campo Marzio.
I pezzi della Forma Urbis sono stati quindi inseriti in un livello sottostante quello della riproduzione della mappa del Nolli, nell’esatto punto in cui dovevano trovarsi, ma al tempo stesso illuminati in pieno.
Ciò che si trova davanti il visitatore che entra sono quindi le tessere luminose di un mosaico che rimarrà per sempre incompleto, ma che permettono di apprezzare alcuni dettagli dell’Urbe che fu 1800 anni fa.

IN GIRO PER ROMA ANTICA

Finalmente, parliamo di ciò che la Forma Urbis ci svela della città antica. In alcuni casi, i pezzi sopravvissuti sono l’unica testimonianza di edifici di cui non è rimasta traccia archeologica, come i “Saepta“, antichi recinti per il voto in età repubblicana poi monumentalizzati in età imperiale e il “Diribitorium“, dove i voti venivano scrutinati.

Ancor più ricca è la zona meridionale dove il portico di Livia, il teatro di Marcello, il circo Flaminio, sono ricostruibili con buona precisione. Per nostra fortuna, sono sopravvissuti anche i frammenti di due monumenti iconici dell’antica Roma: il Colosseo, di cui sono rappresentati gradinate e uscite, e il Circo Massimo, con tanto di botteghe sotto i fornici esterni. Di quest’ultimo abbiamo testimonianza indiretta anche tramite il frammento dove appare il “Vicus Stablarius“, così chiamato perché ospitava in origine le stalle delle diverse scuderie.

Oltre che per gli edifici famosi, la Forma Urbis è importante anche perché riporta con precisione le zone abitative e commerciali che, pur essendo spesso di difficile collocazione a causa del loro “essere anonime”, dicono molte di come fosse la topografia dell’Urbe. In questo, nell’allestimento compare un prezioso pannello che riporta la “legenda” della Forma Urbis e cataloga le diverse convenzioni grafiche, che spiccano per immediatezza e anche modernità, adottate dai creatori.

Infine, nella stessa sala della Forma Urbis e in quella contigua sono esposti (a parete) anche alcuni pezzi di incerta collocazione, fra cui un grande frammento di forma squadrata e dalle dimensioni notevoli, che non si può collocare perché non vi sono riferimenti che siano d’aiuto.

L’IMPORTANZA DELLA FORMA URBIS

Gli antichi Romani non avevano la concezione della “mappa” come l’abbiamo noi oggi, cioè una rappresentazione il più possibile fedele della realtà (con tutti i problemi che conseguono dal voler rappresentare su un foglio bidimensionale una superficie in realtà curva) . La cartografia è eredità del Medioevo, più che dell’antichità. I Romani, gente di terra, ragionavano in termini di distanze tra una località e l’altra. I riferimento a “mappe” sono abbastanza rari anche in epoca imperiale. Vegezio ne “L’arte della guerra” raccomanda ai comandanti di un esercito di dotarsi, prima di una campagna, di itineraria picta che riportavano distanze, strade, luoghi, città, fiumi eccetera; ma che aspettano avevano questi particolari itineraria? Un famoso reperto dell’antichità, giuntoci tramite copie medievale, è la Tabula Peutingeriana. È sufficiente uno sguardo per comprendere che una “mappa” del genere non ha alcuna finalità di rappresentazione della realtà. Si tratta di una serie di pergamene attaccate orizzontalmente (quasi 7 metri di larghezza per 34 centimetri di altezza).Ciò non la rende inutile, anzi: la Tabula riporta ciò che serve al viaggiatore; ai nostri occhi moderni, tuttavia, essa appare come un oggetto davvero strano.

La Forma Urbis, invece, nella sua concezione dello spazio e nelle soluzioni adottate per rappresentare gli edifici, è molto più vicina alla sensibilità e alle tecniche odierne. Chiunque vi riconosce immediatamente la natura di “pianta” di una città e anche le soluzioni grafiche adottate sono assolutamente intuitive ed immediate.

Un motivo per ammirarla nella nuova esposizione del museo del Celio.


LINK: https://www.sovraintendenzaroma.it/content/il-museo-della-forma-urbis

La guida ufficiale del museo, nonché principale fonte di questo articolo

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