di Stefano Basilico
Flavio Claudio Giuliano, giovane imperatore e ultimo «Optimus Princeps›› della storia di Roma, cade in combattimento nel cuore della Mesopotamia: a Maranga, sulla strada per Samarra durante la risalita verso settentrione proveniente da Ctesifonte, dopo aver sconfitto il secolare nemico sasanide sotto le mura della sua capitale, sulle rive del Tigri, il 29 maggio precedente.
Giuliano è una delle figure più rappresentative del IV secolo, quel periodo di grandi trasformazioni sociali e politiche dell’Impero Romano sullo sfondo del confronto/scontro tra il Cristianesimo e le altre religioni dell’epoca. Approfondirne la parabola personale e politica permette la riscoperta di un personaggio affascinante: campione di tolleranza ideologica e religiosa e grande figura di intellettuale e filosofo, non meno che eccellente condottiero militare ed accorto e capace amministratore e riformatore dello stato; interpretando il comando come autentico “spirito di servizio” per la Cosa Pubblica, secondo la logica che già fu di Marco Ulpio Traiano.
Giuliano ha scontato nei secoli una tradizione sfavorevole, a cominciare da quell’epiteto di “Apostata” che gli venne affibbiato dai suoi avversari e detrattori; appare tuttavia opportuno sottolineare, già in premessa, che tale qualifica è totalmente priva di qualsiasi fondamento logico, oltre che storico.
In primo luogo, nel periodo in cui vive e opera Giuliano (vale a dire dopo l’Editto di Milano del 313 d.C., promulgato da Costantino e Licinio), il cristianesimo era stato dichiarato ‹‹religio licita›› e tutti i culti potevano essere praticati liberamente nel territorio dell’Impero; in seconda istanza, Giuliano è sempre stato fedele a culti tradizionali come il Culto di Mitra e quello del ‹‹Sol Invictus››: non si è quindi reso autore di alcuna apostasia. Quel culto del ‹‹Sol Invictus›› che andava a simboleggiare la lotta diacronica tra la luce e l’oscurità, cioè tra il Bene e il Male, patrimonio comune alle diverse religioni: a riprova di una sostanziale continuità anche concettuale, nonché di un incessante scambio quasi osmotico tra filosofie e religioni in un’epoca di passaggio, il giorno più importante del culto del ‹‹Sol Invictus›› (di cui era stato seguace lo stesso imperatore Costantino) era il 25 dicembre, come ben noto successivamente “adottato” anche dalla religione cristiana.
Solamente dopo l’Editto di Tessalonica (380 d.C.), e soprattutto con i “decreti attuativi” (si direbbe oggi) promulgati nel 392-393 d.C. da Teodosio, il cristianesimo sarebbe stato adottato come religione esclusiva dell’Impero, con conseguente progressiva messa al bando degli altri culti. Per inciso, la promulgazione dell’Editto di Tessalonica appare essere stata pesantemente condizionata dal disastro di Adrianopoli (9 agosto 379 d.C.): un atto che appare essere espressione di miopia politica: un tentativo – maldestro e anche poco efficace – di voler “serrare le fila” in un momento di grave difficoltà per le sorti dell’impero stesso; ma che al contrario provocò ulteriori contrasti e scontri armati, in particolare tra Impero d’Occidente e Impero d’Oriente, e proprio in un momento in cui l’Impero in quanto tale avrebbe avuto bisogno della coesione delle sue forze e menti migliori, per fare fronte alle minacce esterne.

L’ultimo dei Costantinidi
Ma torniamo a Giuliano: ultimo esponente della stirpe dei Costantinidi, nato a Costantinopoli nel novembre del 331 d.C. e educato inizialmente agli studi religiosi e filosofici (e tenuto sostanzialmente in isolamento, prima a Nicomedia e poi nel “buen retiro” della residenza imperiale di Macello, in Cappadocia), crebbe in un contesto di stragi e faide familiari che avevano caratterizzato il periodo successivo alla scomparsa dello stesso Costantino.
Nominato, quasi a sorpresa “Cesare d’Occidente” dall’imperatore Costanzo II nel novembre del 355 d.C. ed inviato in Gallia con un esercito di meno di 400 uomini per fronteggiare gli Alemanni che avevano oltrepassato la frontiera del Reno, dette prova di sorprendenti e inaspettate capacità militari. Un Cesare capace di conquistarsi la fiducia dei suoi soldati, e poi della sua gente: che lo accoglie come un liberatore. Dietro la figura di quel principe con la porpora imperiale, si staglia nitida l’ombra di Germanico, il nipote del Divo Tiberio: anche Giuliano, personaggio frugale dall’etica solidissima e alieno da qualsiasi ostentazione, dorme per terra come i suoi legionari, parla un linguaggio che loro capiscono; condivide con loro le durezze ed asperità della vita castrense, e non esita ad esercitarsi con loro nel “mestiere delle armi” nei periodi di pausa, o di sosta delle operazioni; la sera, dopo una giornata di marcia, mangia e beve con i soldati, seduti tutti insieme intorno ai fuochi degli accampamenti.
Malgrado la tradizione sfavorevole che lo ha accompagnato attraverso i secoli, quasi una «damnatio memoriae», una serie di sue opere sono giunte fino a noi: restituendoci il fascino di una personalità profonda, tormentata e complessa. In più, dall’opera di Ammiano Marcellino (ultimo esponente della grande tradizione storiografica della letteratura latina) avanzano per fortuna anche i libri delle ‹‹Res gestae›› che lo vedono protagonista: nelle pagine di Ammiano troviamo non solo la testimonianza delle sue vicende, nel contesto storico e politico sul quale si sono dipanate, ma anche il resoconto testuale di suoi discorsi pubblici, in diverse occasioni.
Nelle parole di Giuliano, si avverte per l’ultima volta il senso di un Impero universalizzante inteso come “sentire comune”, l’eredità di un patrimonio spirituale e di cultura in cui genti diverse potevano mutuamente riconoscersi, senza iato: dall’Armenia alle Colonne d’Ercole, dalla Caledonia al Golfo Persico, dal Reno al Nilo, dal Danubio alla Numidia…
Ancora, il racconto di Ammiano ci guiderà poi accanto a Giuliano nell’itinerario dal Reno e la Gallia, poi attraverso il Norico e i Balcani fino a Costantinopoli e Antiochia, e poi fino alla fatale campagna mesopotamica. Per una curiosa coincidenza, malgrado ciò che rimane dell’opera di Ammiano inizi la narrazione a metà di ciò che era il testo originale, proprio all’inizio del libro XV lo storico ci riporta parole che hanno il sapore di una sorta di “discorso programmatico”:
«Utcumque potui veritatem scrutari, ea quae videre licuit per aetatem, vel perplexe interrogando versatos in medio scire, narravimus ordine casuum exposito diversorum; residua quae secuturus aperiet textus, pro virium captu limatius absolvemus, nihil obtrectatores longi (ut putant) operis formidantes. Tunc enim laudanda est brevitas, cum moras rumpens intempestivas, nihil subtrahit cognitioni gestorum» (XV, 1)
[Nei limiti in cui ho potuto indagare la verità dei fatti, ho narrato, seguendo l’ordine degli avvenimenti, ciò di cui mi fu possibile essere testimone nel corso della mia vita o che potei apprendere interrogando scrupolosamente coloro che ne erano stati partecipi. Ciò che è contenuto nei libri che seguiranno, sarà esposto compiutamentese le forze me lo permetteranno, senza alcun timore di coloro che criticano un’opera che ritengono lunga. Infatti la concisione è degna di lode solo allorché, spezzando indugi inopportuni, non pregiudica affatto la conoscenza degli avvenimenti.]

Il nuovo Cesare d’Occidente
Ma andiamo con ordine: una prima scena grandiosa, d’insieme, è quella della investitura di Giuliano a Cesare d’Occidente da parte dell’Imperatore Costanzo II, a Mediolanum (6 novembre dell’anno 355 d.C.). Quell’Augusto dalla personalità crudele e spietata che non aveva esitato a massacrare la famiglia di Giuliano, malgrado la parentela di sangue (erano cugini), presenta il giovane condottiero alle truppe schierate (XV, 8, 4-17). Un discorso a tratti surreale, ma accolto con favore dai soldati che acclamano il nuovo Cesare percuotendo ritmicamente gli scudi sulle ginocchia, in un clamore assordante; fu quello un primo bagno di folla per Giuliano, che rimase pensieroso e – pensando forse alle linee imperscrutabili di un destino che considerava già scritto – mentre abbandonava la piazza mormorò tra sè un verso di Omero, dal libro quinto dell’Iliade (v. 83):
«ἔλλαβε πορϕύρεος ϑάνατος ϰαὶ μοῖρα ϰραταιή»
[lo colse la Morte purpurea e la Parca possente]
Poi, dopo essersi separato da Costanzo sul fiume Ticino (non si sarebbero mai più rivisti), la risalita verso settentrione: prima a Augusta Taurinorum e poi il passaggio delle Alpi Cozie attraverso il Passo di Matrona (l’odierno Colle del Monginevro), per poi passare nelle diverse città della Gallia iniziando da Brigantium (oggi, Briançon). Malgrado l’oggettiva esiguità numerica delle truppe sotto il comando di Giuliano (il che suggerisce l’ipotesi che Costanzo volesse di fatto liberarsi del cugino, affidandogli una missione apparentemente impossibile), la gente accolse con entusiasmo il passaggio del corpo di spedizione, andando di fatto gradatamente a rinforzarne le fila: dopo tanto abbandono, la porpora imperiale del giovane Cesare e le insegne del drago, i legionari e i cavalieri di Roma rappresentavano una tangibile testimonianza della rinnovata volontà dell’Impero di stendere nuovamente la sua protezione su quelle contrade.
A Vienne, nella regione dell’Alvernia e dell’alto Rodano, Giuliano approfittò di una più lunga sosta invernale per prepare al meglio le sue truppe in vista delle difficili sfide che li attendevano sul Reno: la stessa Colonia Agrippinensis era caduta in mani alemanne, dopo che la fortezza di Divitia (che vigilava l’ingresso orientale del ponte sul fiume) era stata espugnata, ed il confine sembrava non reggere più.
L’intuizione di un destino superiore, da parte di Giuliano (sempre attento alla «aruspicina»), ben oltre agli scopi di una missione politica o militare; proprio nella descrizione del soggiorno a Vienne, Ammiano ci riporta un episodio particolare:
«Cumque Viennam venisset, ingredientem optatum quidem et impetrabilem honorifice susceptura omnis aetas concurrebat et dignitas, proculque visum plebs universa, cum vicinitate finitima, imperatorem clementem appellans et faustum, praevia consonis laudibus celebrabat, avidius pompam regiam in principe legitimo cernens: communiumque remedium aerumnarum in eius locabat adventu, salutarem quendam genium affulsisse conclamatis negotiis arbitrata. Tunc anus quaedam orba luminibus, cum percontando quinam esset ingressus, Iulianum Caesarem comperisset, exclamavit hunc deorum templa reparaturum.» (XV, 8, 21-22)
[Allorché giunse a Vienne, gli abitanti, di qualsiasi età fossero, e le autorità gli vennero incontro per accoglierlo con tutti gli onori all’ingresso in città come un principe amato ed energico, mentre la folla, assieme alla popolazione dei dintorni, vistolo da lontano, lo chiamava imperatore clemente e fausto e precedendolo lo celebrava con un coro di lodi ammirando avidamente il fasto regale in un principe legittimo. Nel suo arrivo vedeva il rimedio ai mali comuni e riteneva che fosse apparso un genio salutare che portasse aiuto alla sua situazione disperata. In quell’occasione una vecchia cieca, che s’informava chi fosse entrato in città, appreso che era Giuliano Cesare, esclamò: «Costui riparerà i templi degli dèi».]
«anus quaedam»: una vecchia, una profezia… Questa immagine di Ammiano risulta coerente con una tradizione remota della civiltà e cultura di Roma, anche di derivazione della ancestralità dei popoli italici. Difficile non associare questa figura di donna anziana alla protagonista di un famoso episodio riportato da Aulo Gellio nelle “Notti Attiche” (I, XIX) e da Dionigi di Alicarnasso nelle “Antichità Romane” (IV, 62): quella vecchia che, addirittura ancora nel periodo monarchico dell’Urbe, offre a uno dei re Tarquinii i nove libri sacri degli Oracoli Sibillini. Dalla cultura della «aruspicina», di derivazione osca ed etrusca, alla Sibilla Cumana che sarà protagonista dell’Eneide di Virgilio (VI, 539-543), agli albori dell’età imperiale.

La battaglia di Argentoratum
Proprio la campagna renana vedrà l’esordio di Giuliano come comandante militare: in una serie di azioni e battaglie coronate dal successo, il giovane principe si guadagnerà totalmente la stima dei suoi soldati, liberando Colonia e stabilizzando il confine; pianificando inoltre vittoriose operazioni anfibie in acque fluviali contro la tribù dei Leti, e rimanendo poi a guidare personalmente la difesa della città fortificata di Senones (nella regione dei Vosgi), assediata ancora una volta dagli Alemanni che avevano infranto i patti stipulati precedentemente (ottobre 356 d.C.).
I tempi erano maturi per una campagna militare organizzata e decisa, il cui apice verrà segnato dalla battaglia di ‹‹Argentoratum›› (Strasburgo), nel mese di agosto del successivo anno 357 d.C.: all’immediata vigilia dello scontro, dopo una faticosa avanzata nel calore di una giornata estiva ed essendo ormai avanzato il pomeriggio, nelle parole del giovane Cesare anche un sapiente tocco di psicologia – individuale non meno che della folla – a spronare i suoi uomini a battersi con il massimo della determinazione:
Iamque solis radiis rutilantibus, tubarumque concinente clangore, pedestres copiae lentis incessibus educuntur, earumque lateri equestres iunctae sunt turmae, inter quas cataphractarii erant et sagittarii, formidabile genus armorum. Et quoniam a loco, unde Romana promota sunt signa, ad usque vallum barbaricum quarta leuga signabatur et decima, id est unum et viginti milia passuum, utilitati securitatique recte consulens Caesar, revocatis praecursatoribus iam antegressis, indictaque solitis vocibus quiete, cuneatim circumsistentes alloquitur, genuina placiditate sermonis: «Urget ratio salutis tuendae communis, ut parcissime dicam, non iacentis animi Caesarem hortari vos et orare, — commilitones mei — ut adulta robustaque virtute confisi, cautiorem viam potius eligamus, ad toleranda vel ad depellenda quae sperantur, non praeproperam et ancipitem. Ut enim in periculis iuventutem impigram esse convenit et audacem, ita (cum res postulat) regibilem et consultam. Quid igitur censeo, si arbitrium affuerit vestrum, iustaque sustinet indignatio, paucis absolvam. Iam dies in meridiem vergit, lassitudine nos itineris fatigatos, scrupulosi tramites excipient et obscuri, nox senescente luna nullis sideribus adiuvanda, terrae protinus aestu flagrantes, nullis aquarum subsidiis fultae; quae si dederit quisquam commode posse transiri, ruentibus hostium examinibus post otium cibique refectionem et potus, quid nos agamus? Quo vigore inedia siti laboreque membris marcentibus occurramus? Ergo quoniam negotiis difficillimis quoque saepe dispositio tempestiva prospexit, et statum nutantium rerum, recto Consilio in bonam partem accepto, aliquotiens divina remedia repararunt, hic quaeso vallo fossaque circumdati, divisis vigiliis, quiescamus, somnoque et victu congruis potiti pro tempore, pace dei sit dictum, triumphaturas aquilas et vexilla victricia primo lucis moveamus exordio». Nec finiri perpessi quae dicebantur, stridore dentium infrendentes, ardoremque pugnandi hastis illidendo scuta monstrantes, in hostem se duci iam conspicuum exorabant, caelestis dei favore, fiduciaque sui, et fortunati rectoris expertis virtutibus freti, atque (ut exitus docuit) salutaris quidam genius praesens ad dimicandum eos (dum adesse potuit, incitabat. [XVI, 12, 7.13]
[Mentre splendevano ormai i raggi del sole, al suono delle trombe di guerra, le fanterie uscivano a lento passo dagli accampamenti ed ai loro fianchi si univano gli squadroni di cavalleria con i corazzieri e gli arcieri, i quali costituivano una terribile specialità militare. Poiché dal punto di partenza dei reparti romani sino alla trincea dei barbari correvano quattordici leghe, corrispondenti a ventun miglia, il Cesare, per tutelare la sicurezza e gli interessi dei suoi, richiamò i soldati d’avanguardia che già s’erano spinti avanti e, dopo aver ordinato il silenzio con i comandi usuali, parlò alle truppe, schierate tutt’attorno in forma di cuneo, con l’innata mitezza di linguaggio: «La necessità di provvedere alla comune salvezza, per dirla in breve, costringe me, Cesare, che sono tutt’altro che pusillanime, ad esortarvi ed a pregarvi, miei commilitoni, di scegliere, fiduciosi nel vostro maturo e vigoroso valore, una via più sicura, anziché quella più pronta, ma anche più incerta, onde far fronte o respingere i pericoli incombenti. Se da un lato è naturale che la gioventù sia pronta ed audace nei pericoli, dall’altro, quando le circostanze lo richiedono, deve lasciarsi guidare ed essere prudente. Quale sia il mio pensiero, ve lo dirò in breve, se voi me lo consentirete e se il vostro giusto sdegno contro i nemici me lo permetterà. Ormai s’avvicina mezzogiorno e siamo stanchi della marcia; ci aspettano sentieri sassosi ed insidiosi, una notte non illuminata dalle stelle e con la luna calante, paesi bruciati dal caldo e privi del ristorodell’acqua. Forse qualcuno ci permetterà di attraversare queste terre senza disagi, ma che dovremo fare se ci assaliranno sciami di nemici ristorati dal riposo, dal cibo e dalle bevande? Con qual vigore terremo loro testa se le nostre membra saranno indebolite dalla fatica, dalla fame e dalla sete? Quindi, poiché spesso una misura presa al momento opportuno è stata di vantaggio anche in circostanze difficilissime e gli aiuti celesti non di rado hanno risollevato situazioni incerte qualora si sia seguito un giusto consiglio, riposiamoci qui, vi prego, mangiando e dormendo convenientemente al riparo del terrapieno dopo aver diviso i turni di guardia. Alle prime luci, sia detto con buona pace di Dio, muoveremo le aquile e le insegne vittoriose per portarle al trionfo». Senza neanche aspettare la fine del discorso, digrignando i denti ed esprimendo il loro desiderio di combattere percuotendo gli scudi con le lance, supplicavano che si permettesse loro di attaccare il nemico ormai in vista, poiché erano fiduciosi nell’aiuto della divinità, nelle proprie forze e nel valore già provato di un comandante fortunato. E, come dimostrò l’esito del combattimento, un genio benefico, nei limiti in cui li poté aiutare, li spingeva con la propria presenza a combattere.]
Quello di Strasburgo fu un trionfo clamoroso, in cui l’acume tattico del giovane condottiero diede la prova migliore; dopo quella vittoria, le aquile e legioni di Roma dilagarono ancora una volta (sarà stata l’ultima…) ad oriente del Reno, come già prima di loro quelle di Giulio Cesare, Druso, Germanico, Tiberio, Traiano. Non solo fu ristabilito e messo in sicurezza il «limes», da Colonia Agrippinensis a Mogontiacum, ma furono riscattati prigionieri e popolazioni intere dalla schiavitù derivante dalle precedenti sconfitte. Sia detto per inciso, il racconto della vittoria alsaziana (quale riportato nel lungo capitolo 12 del Libro XVI) è anche una altissima pagina di letteratura nell’opera di Ammiano Marcellino, che consacra la grandezza di storiografo di quel ‹‹miles quondam et graecus›› (come lui stesso ebbe a definirsi): in più, nella dichiarazione di rigore intellettuale ed imparzialità storica da parte di Ammiano, con cui l’Autore chiude la sua opera, si avverte nettissima un’eco tacitiana.
«Haec ut miles quondam et Graecus, a principatu Caesaris Nervae exorsus ad usque Valentis interitum pro virium explicavi mensura: opus veritatem professum numquam, ut arbitror, sciens silentio ausus corrumpere vel mendacio. scribant reliqua potiores, aetate doctrinisque florentes. quos id, si libuerit, adgressuros, procudere linguas ad maiores moneo stilos.» (XXXI, 16.9)
[Ho esposto questi avvenimenti dal principato di Nerva Cesare alla morte di Valente nei limiti delle mie forze, come può farlo un vecchio soldato ed un Greco, né mai ho osato, almeno così credo, tacendo o mentendo affermare coscientemente il falso in un’opera che ha per fine la verità. Scrittori più abili e colti, e nel fiore degli anni, scrivano ciò che resta. Ma, se decideranno di affrontare questo compito, li esorto a forgiare la loro lingua ad uno stile più elevato.]
Giuliano aveva però almeno altrettanti nemici dietro le spalle (soprattutto alla corte di Costantinopoli e nella rete di spie e cospiratori al soldo dei potentissimi Eunuchi), oltre a quelli che doveva affrontare a viso aperto. La sua postura di etica inattaccabile del tutto aliena da interessi personali, la sua fedeltà e rispetto per Elena (la figlia di Costantino, una consorte che si era visto imposta per ragioni politiche), la sua morigeratezza e condotta politica ispirata alla salvaguardia dell’interesse comune: tutto ciò ne avevano accresciuto enormemente il prestigio e la popolarità; consci della necessità di sottrargli la base della sua potenza, costituita in primo luogo dalle fedelissime truppe di base in Gallia, dalle rive del Bosforo venne diramato l’ordine di trasferire gran parte dell’esercito di Giuliano a Oriente, nella prospettiva di una nuova imminente campagna mesopotamica.

La guerra civile: Giuliano unico “augusto”
Tutto ciò scatenò una acuta crisi, politica e militare: quei soldati che si erano arruolati sotto le insegne di Giuliano con la prospettiva e garanzia di difendere le frontiere dell’Impero sul loro territorio (che era ritornato in una condizione di sicurezza e relativa prosperità – per loro e per le loro famiglie – proprio grazie alle recenti campagne militari), mai sarebbero stati disposti ad andare a combattere sulle rive dell’Eufrate. Il racconto della notte di Lutetia (Parigi) è un’altra magistrale pagina uscita dalla penna di Ammiano: quella marea di soldati sulla spianata del palazzo alla luce delle fiaccole, quelle voci che invocano il loro condottiero, con un coro interminabile che non lascia adito a dubbi: “Giuliano Augusto”; il popolo dell’Impero d’Occidente aveva scelto il suo Imperatore. Giuliano, inizialmente riluttante perché conscio dei rischi connessi con quella che sarebbe stata inevitabilmente una guerra civile, alla fine si convince ad accettare: in primo luogo per riscattare Roma dalla palude di corruzione nella quale è caduta, e per restituire all’Impero la dignità perduta.
E in qualità di “Augusto” parlò – nel modo sempre molto diretto e schietto che gli era consueto – ai suoi soldati; un discorso permeato dei concetti laici di virtus, fortitudo, disciplina e fides, che rimandano al ricordo delle pagine di Tito Livio, a quel concetto di valore militare che non può essere mai disgiunto dalle qualità morali.
Cumque interquievisset paulisper, dum alte contemplatur praesentium vultus, alacres omnes visos et laetos, quasi lituis verbis (ut intellegi possit) simplicibus incendebat: «Res ardua poscit et flagitat, propugnatores mei reique publicae fortes et fidi, qui mecum pro statu provinciarum vitam saepius obiecistis, quoniam Caesarem vestrum firmo iudicio ad potestatum omnium columen sustulistis, perstringere pauca summatim, ut remedia permutatae rei iusta colligantur et cauta. Vixdum adulescens specie tenus purpuratus (ut nostis), vestrae tutelae nutu caelesti commissus, numquam a proposito recte vivendi deiectus sum, vobiscum in omni labore perspicuus, cum dispersa gentium confidentia, post civitatum excidia, peremptaque innumera hominum milia, pauca quae semiintegra sunt relicta cladis immensitas persultaret. Et retexere superfluum puto, quotiens hieme cruda rigentique caelo, quo tempore terrae ac maria opere Martio vacant, indomitos antea, cum iactura virium suarum reppulimus Alamannos. Id sane nec praetermitti est aequum nec taceri, quod cum prope Argentoratum illuxisset ille beatissimus dies, vehens quodam modo Galliis perpetuam libertatem, inter confertissima tela me discurrente, vos vigore ususque diuturnitate fundati, velut incitatos torrentes, hostes abruptius inundantes, superastis ferro prostratos, vel fluminis profundo submersos, paucis relictis nostrorum, quorum exequias honestavimus, celebri potius laude quam luctu. Post quae opinor tanta et talia, nec posteritatem tacituram de vestris in rem publicam meritis, quae gentibus cunctis plene iam cognita sunt, si eum quem altiore fastigio maiestatis ornastis, virtute gravitateque, siquid adversum ingruerit, defendatis. Ut autem rerum integer ordo servetur, praemiaque virorum fortium maneant incorrupta, nec honores ambitio praeripiat clandestina, id sub reverenda consilii vestri facie statuo, ut neque civilis quisquam iudex, nec militiae rector, alio quodam praeter merita suffragante, ad potiorem veniat gradum, non sine detrimento pudoris, eo qui pro quolibet petere temptaverit discessuro». (XX, 5, 2.7)
[Dopo un breve silenzio, mentre contemplava dall’alto i volti dei presenti, che apparivano, senz’alcuna eccezione, pieni d’entusiasmo e lieti, adoperando, per essere compreso, espressioni semplici, che assomigliavano a squilli di tromba, così li esortò: «Forti e fedeli difensori della mia persona e dello stato, che con me assai spesso avete esposto al pericolo la vita per il benessere delle province, dato che avete elevato con ferma decisione il vostro Cesare al più alto di tutti i poteri, la difficoltà della situazione richiede ed esige che io per sommi capi accenni a pochi argomenti, perché si possano apprestare rimedi giusti e cauti alla mutata situazione. Appena adolescente ricevetti (come ben sapete), almeno esteriormente, la porpora e fui affidato, per volontà del cielo, alla vostra protezione. Mai sono venuto meno al proposito di vivere onestamente e fui visto affrontare con voi ogni fatica quando, diffusasi ampiamente l’arroganza dei popoli stranieri, dopo la distruzione di città e l’uccisione di innumerevoli migliaia di uomini, l’immensità della strage sembrava scuotere quel poco che era rimasto in piedi. Mi sembra inutile stare a ripetere quante volte nel cuore dell’inverno ed in climi rigidi, nel periodo in cui le terre ed i mari si riposano dalle fatiche di Marte, abbiamo respinto gli Alamanni, mai prima vinti, con gravi perdite delle loro forze. Ma certamente non è giusto trascurare né lasciar passare sotto silenzio il fatto che, quando sorse nei pressi di Argentoratum quel giorno felicissimo che portava, in certo qual modo, ai Galli un’eterna libertà, mentre io correvo dall’una all’altra parte in mezzo ad una fitta pioggia di dardi, voi, sorretti dal vigore e dalla lunga esperienza, abbattendoli con le armi e annegandoli nel profondo del fiume vinceste i nemici i quali, simili a torrenti in piena, inondavano precipitosamente tutta la regione. Pochi dei nostri rimasero sul campo e noi onorammo le loro esequie più con le gloriose celebrazioni che con il pianto. Dopo tali e così grandi gesta ritengo che neppure i posteri taceranno dei vostri meriti nei confronti dello stato, che sono ormai ben noti a tutti i popoli, se, di fronte ad un’eventuale minaccia, difenderete con coraggio e decisione colui che elevaste ad un più alto grado di autorità. Perché poi l’ordine sia rispettato pienamente ed i premi riservati ai valorosi rimangano intatti, né gli onori siano strappati con intrighi segreti, stabilisco alla presenza della vostra venerabile assemblea che né un funzionario civile, né un comandante militare possano assurgere ad un grado elevato per altri motivi che non siano i meriti personali. E chiunque tenterà di chiedere favori per un altro qualsiasi, se ne dovrà andare svergognato».
La guerra civile che in effetti scoppiò – ed attraversò fasi alterne, dal Reno al Norico e attraverso i Balcani – venne poi interrotta dalla improvvisa morte di Costanzo II (a Mobsucrene, in Cilicia, in data 3 novembre 361 d.C.), che sul letto di morte prima di perdere conoscenza indicò proprio Giuliano quale suo successore (XXI, 15, 2). Il nuovo Imperatore poté quindi fare il suo ingresso in Costantinopoli e intraprendere quella serie di riforme della vita pubblica e dell’amministrazione dello Stato, nonché dare spazio ad una nuova politica di tolleranza religiosa ed impulso dei culti tradizionali (che avevo visto i loro spazi andare incontro ad una progressiva riduzione).
Al di là delle polemiche ideologiche e religiose, che gli valsero l’inimicizia o addirittura la violenta avversione da parti di larghi strati della classe intellettuale ed anche di parte della gente comune (ormai conquistata al cristianesimo, quale religione prevalente nell’Impero), risultò notevole il tentativo di moralizzare la vita pubblica e gestire lo Stato secondo rinnovati criteri di equità sociale.
La minaccia sasanide

Ma di nuovo i venti di guerra avevano preso a soffiare con forza dalla Mesopotamia, dove il “Re dei Re” Sapore II già durante il regno di Costanzo aveva rinnovato la secolare minaccia sasanide nei confronti di Roma. Il destino e la traiettoria di Giuliano rappresentano forse il paradigma migliore di quelli di Roma stessa, a cavallo tra il «Limes Germanicus» e il «Limes Particus»: aveva infatti dovuto dapprima lottare sul Reno, in quella vicenda infinita efficacemente riassunta nella inimitabile prosa tacitiana.
Perché di una vicenda infinita si tratta: in quello stesso anno 98 d.C. in cui Marco Ulpio Traiano celebra il suo primo trionfo coniando monete con il motto «Germania pacata», Cornelio Tacito scrive: “tam diu Germania vincitur” (Germania, XXXVII), e poi “proximis temporibus triumphati magis quam victi sunt” (ibidem, XXXVIII).
Rimaniamo in campo numismatico: “Dacia victa” (102 d.C.), è riportato sulle monete coniate dopo la prima guerra in Dacia; qualche anno dopo, con la seconda campagna e il suicidio di re Decebalo (106 d.C.), la Dacia sarà definitivamente provincia dell’Impero. “Armenia et Mesopotamia in potestatem populi romani redactae”(115-116 d.C.): questo il motto delle monete coniate dopo la campagna contro i Parti; le legioni dell’Optimus Princeps, dopo aver disceso in doppia colonna il corso dell’Eufrate e del Tigri, avevano conquistato Ctesifonte ed erano entrate a Babilonia: una vittoria che non poteva considerarsi definitiva, e non solo per la sopravvenuta morte di Traiano (nel 117 d.C.).
La scelta stessa delle parole è illuminante: la Dacia “victa” resterà provincia dell’Impero molto a lungo (fino alla definitiva ritirata sul Danubio decisa dall’imperatore Aureliano nel 271 d.C.); al contrario, così come la vittoria sui Germani non poteva essere definitiva (da Arausio e Campi Raudii, a Teutoburgo, Idistaviso e Argentoratum), altrettanto non avrebbe potuto esserlo mai quella sui Parti. Un’alternanza che, nel corso dei secoli, avrebbe visto Carrhae e Edessa quali teatro delle sanguinose sconfitte patite da Marco Licinio Crasso e Publio Licinio Valeriano; disastri ai quali fecero da contraltare le campagne vittoriose di Marco Ulpio Traiano, Lucio Vero, Settimio Severo e poi fino a Claudio Flavio Giuliano (che dovette ritirarsi immediatamente dopo le vittoria ottenuta sotto le mura di Ctesifonte).
Un destino incoercibile spinge quindi Giuliano verso la Mesopotamia: l’Imperatore stesso non aveva mai scordato un’antica profezia che gli aveva anticipato che la sua parabola terrena avrebbe avuto termine nelle terre di Frigia, di morte violenta. Malgrado gli stessi aruspici non avessero tratto auspici favorevoli sull’esito della imminente campagna partica, dopo avere radunato le sue truppe ad Antiochia, il 5 marzo del 363 d.C. Giuliano iniziò la sua discesa verso sud: alla testa di un esercito di oltre 60.000 uomini, completo di carriaggi, «impedimenta» e macchine da guerra, e non senza avere previsto una flotta di oltre mille navi da destinare alla navigazione fluviale ed essenziali per assicurare i rifornimenti e collegamenti alle truppe che sarebbero scese lungo il corso dell’Eufrate e del Tigri.
Il racconto della campagna mesopotamica di Giuliano, nelle pagine di Ammiano, è una narrazione disincantata, a tratti amara e caratterizzata da grande tensione emotiva; ma anche dominata dal senso del fato e dalle consultazioni degli aruspici, nonché dall’accadimento di prodigi (come nel caso della sosta a Carrhae, dove Giuliano si fermò a rendere omaggio ai caduti delle legioni di Crasso). Dal punto di vista squisitamente militare, fu una serie di combattimenti feroci senza soluzione di continuità, di assedi ed imboscate, di marce estenuanti in un territorio ostile, di cui non sembra intravedersi la fine.
Giuliano, sempre fedele al suo stile, si rivolse ai suoi soldati all’inizio della campagna (XXIII, 5, 16.23) catturandone l’attenzione e il pieno appoggio. Più oltre, in una fase molto critica delle operazioni, egli sentì il dovere di parlare ancora una volta ai suoi uomini, percependo uno scoramento che andava insinuandosi nei loro animi (XXIV, 3, 4.7): senza reticenze, senza alcuna retorica, non nascondendo le difficoltà della situazione o edulcorando il quadro. Non l’Imperatore che si rivolge a dei sudditi, ma un uomo che parla ad altri uomini; le sue parole, ancora una volta, sono quelle di un comandante valoroso e determinato che si rivolge ai suoi soldati; ne condivide il destino e le peripezie, in nome di un credo comune che li anima: un comune substrato di cultura che è un’eredità di secoli. E quei soldati, pur nella criticità della situazione, continuano a fidarsi del loro comandante: della lealtà e dirittura morale che ha sempre dimostrato.
L’ultima marcia

Tuttavia Giuliano, che aveva inizialmente diviso il suo esercito affidandone una parte a Sebastiano e Procopio, con l’intesa di ricongiungere le sue forze nella seconda fase della campagna ed annientare il nemico in una tenaglia, nella totale assenza di notizie da parte loro – in un comportamento che a distanza di millenni non cessa di risultare opaco – e rendendosi conto di non poter assediare e poi espugnare Ctesifonte con le sole forze di cui disponeva (malgrado la vittoria campale ottenuta nella giornata del 29 maggio), si risolse ad ordinare la ritirata, con rotta a nord, dopo un ultimo sguardo al rogo delle navi che aveva fatto incendiare, poiché inservibili all’atto di dover risalire la corrente dei fiumi.
Una marcia compiuta in condizioni difficili, psicologiche non meno che logistiche, nell’asfissiante calore della pianura mesopotamica e sotto la costante minaccia della cavalleria sasanide. Il nemico si sottraeva infatti alla possibilità di un’unica battaglia campale risolutiva, in cui le truppe di Roma avrebbero forse potuto far valere la loro tradizionale compattezza e disciplina, ma seguiva con una serie di imboscate e scaramucce quasi come delle “punture di spillo”: a fiaccare il morale e le forze delle truppe imperiali.
Proprio in uno questi scontri Giuliano, che malgrado cavalcasse senza armatura legato alla temperatura elevata non esitò a gettarsi nella mischia guidando un drappello di cavalieri, risultò ferito al torace da una lancia. Ferita che apparse subito molto grave e che impose il trasporto del Cesare nella sua tenda: Ammiano ci riporta le ultime parole di Giuliano; quelle di un uomo, ancora prima dell’Imperatore, del tutto consapevole del fatto che il suo tempo è finito.
Quae dum ita aguntur, Iulianus in tabernaculo iacens, circumstantes allocutus est demissos et tristes: «Advenit, o socii, nunc abeundi tempus e vita impendio tempestivum, quam reposcenti naturae, ut debitor bonae fidei redditurus, exulto, non (ut quidam opinantur) afflictus et maerens, philosophorum sententia generali perdoctus, quantum corpore sit beatior animus, et contemplans, quotiens condicio melior a deteriore secernitur, laetandum esse potius quam dolendum; illud quoque advertens, quod etiam dii caelestes quibusdam piissimis mortem tamquam summum praemium persolverunt. Munus autem id mihi delatum optime scio, ne difficultatibus subcumberem arduis, neve me proiciam umquam, aut prosternam, expertus quod dolores omnes ut insultant ignavis, ita persistentibus cedunt. Nec me gestorum paenitet aut gravis flagitii recordatio stringit, vel cum in umbram et angustias amendarer, vel post principatum susceptum, animum tamquam a cognatione caelitum defluentem, immaculatum (ut existimo) conservavi et civilia moderatius regens, et examinatis rationibus, bella inferens et repellens, tametsi prosperitas simul utilitasque consultorum non ubique concordent, quoniam coeptorum eventus superae sibi vindicant potestates. Reputans autem iusti esse finem imperii, oboedientium commodum et salutem, ad tranquilliora semper (ut nostis) propensior fui, licentiam omnem actibus meis exterminans, rerum corruptricem et morum, gaudensque abeo, sciens quod ubicumque me velut imperiosa parens consideratis periculis obiecit res publica, steti fundatus, turbines calcare fortuitorum assuefactus. Nec fateri pudebit, interiturum me ferro, dudum didici fide fatidica praecinente. Ideoque sempiternum veneror numen, quod non clandestinis insidiis, nec longa morborum asperitate, vel damnatorum fine decedo, sed in medio cursu florentium gloriarum, hunc merui clarum ex mundo digressum. Aequo enim iudicio iuxta timidus est et ignavus, qui cum non oportet, mori desiderat, et qui refugiat cum sit opportunum. Hactenus loqui, vigore virium labente sufficiet. Super imperatore vero creando, caute reticeo, ne per imprudentiam dignum praeteream, aut nominatum quem habilem reor, anteposito forsitan alio, ad discrimen ultimum trudam. Ut alumnus autem rei publicae frugi, opto bonum post me reperir i rectorem». (XXV, 3, 15.20)
[Nel frattempo Giuliano, che giaceva nella tenda, parlò a quanti gli stavano attorno abbattuti e tristi: «È arrivato, amici, il momento assai opportuno di uscire di vita. Giunto al momento di restituirla alla natura, che la richiede, come un debitore leale mi rallegro e non mi rattristo né mi dolgo (come alcuni pensano), poiché ben so, per opinione unanime dei filosofi, quanto l’anima sia più felice del corpo e penso che, ogniqualvolta una condizione migliore venga separata da quella peggiore, dobbiamo rallegrarci, non dolerci. Penso pure che anche i celesti diedero la morte ad alcune persone piissime come massimo compenso. Ma io ben so che mi è stato dato il dono della vita perché non soccombessi di fronte a gravi difficoltà, né mai mi umiliassi né mi piegassi, dato che sono ben conscio che tutti i dolori, se da un lato hanno il sopravvento sugli ignavi, cedono di fronte a quanti resistono loro. Né io mi pento di quanto ho fatto, né mi sfiora il ricordo di qualche delitto; sia nel periodo in cui ero costretto all’oscurità ed alla miseria, che dopo essere stato assunto all’impero, ho conservato pura la mia anima (almeno così ritengo), che penso tragga origine dagli dèi immortali ai quali è affine. Giacché ho amministrato la vita civile con equilibrio ed ho mosso ed affrontato guerre dopo matura deliberazione, sebbene non sempre i successi e l’utilità delle decisioni prese vadano di pari passo, poiché forze a noi superiori rivendicano a sé i risultati delle imprese umane. Considerando tuttavia che scopo di un giusto impero è il benessere e la sicurezza dei sudditi, io fui sempre, come ben sapete, più propenso a misure di pace ed esclusi dai miei atti ogni forma di arbitrio, che corrompe le azioni ed i caratteri. Me ne vado lieto poiché sono consapevole che, ogniqualvolta lo stato, come un padre imperioso, mi ha esposto deliberatamente ai pericoli, io sono stato ben saldo, avvezzo com’ero a calpestare i turbini della sorte. Né mi vergognerò d’ammettere che da tempo sapevo, in séguito ad una profezia sicura, che io sarei perito di ferro. Perciò adoro la divinità eterna, perché non muoio in séguito ad insidie nascoste, né dopo una lunga e dolorosa malattia, né condannato come un criminale, ma perché ho meritato questa splendida fine a mezzo il corso della mia fiorente gloria. Infatti è giustamente considerato pauroso ed ignavo chi desidera la morte quando non è necessaria come chi la evita quand’è opportuna. Mi basta d’aver detto questo; ora le forze mi vengono meno. Riguardo all’elezione del mio successore, cautamente taccio, per non omettere imprudentemente qualcuno che sia degno o per non esporlo all’estremo pericolo nominando chi ritengo adatto a questo compito, se per caso un altro gli venisse preferito. Ma, come un onesto figlio dello stato, desidero che si trovi dopo di me un buon imperatore».]

Con la scomparsa di Giuliano, la campagna partica poteva considerarsi finita. E per Roma stessa, si chiudeva definitivamente un’epoca. Gioviano, eletto quale nuovo Augusto, stipulò una rapida pace con Sapore II, di fatto barattando la salvezza di ciò che rimaneva delle truppe imperiali con il definitivo ritiro dalla Mesopotamia. La salma di Giuliano fu trasportata a Costantinopoli: i suoi resti mortali riposano oggi in un sarcofago presso il Museo Archeologico della città.
L’ultimo grande storico di Roma

Ammiano Marcellino è come detto l’ultimo grande storico della letteratura latina: un greco, che decise di scrivere in latino della storia di Roma nella convizione che per uno storico non ci potesse essere tema più grande. Tutto ciò, malgrado la sua narrazione si concluda in un pomeriggio di agosto dell’anno 379 d.C., con l’annientamento dell’esercito di Valente sotto le mura di Adrianopoli: un disastro, nelle parole dello stesso Ammiano, la cui gravità poteva essere comparata solo con quello di Canne, durante la Seconda Guerra Punica. Giuliano è forse il personaggio centrale della sua opera: una figura paradigmatica di quella eredità spirituale, culturale e politica che si è conservata intatta attraverso i secoli e di cui ci lascia questo ritratto, che ne rappresenta una sorta di epitaffio.
«Vir profecto heroicis connumerandus ingeniis, claritudine rerum et coalita maiestate conspicuus. Cum enim sint (ut sapientes definiunt), virtutes quattuor praecipuae, temperantia, prudentia, justitia, fortitudo, eisque accedentes extrinsecus aliae, scientia rei militaris, auctoritas felicitas atque liberalitas, intento studio coluit omnes ut singulas.» (XXV, 4, 1)
[Uomo certamente degno di essere annoverato fra i geni eroici, ammirabile per le illustri imprese e per l’innata maestà. Poiché, a giudizio dei sapienti, quattro sono le virtù principali, la temperanza, la saggezza, la giustizia e la fortezza, alle quali si aggiungono altre doti esteriori quali la scienza militare, l’autorevolezza, la buona fortuna e la liberalità, Giuliano con vivissimo zelo le coltivò sia tutte assieme che singolarmente.]
Questa interpretazione della figura di Giuliano appare coerente con il “sentire” che in precedenza aveva dettato a Ammiano Marcellino queste parole, che suonano quasi come un atto di fede: la fede in un ideale di umanità, civiltà e cultura.
«Tempore quo primis auspiciis in mundanum fulgorem surgeret victura dum erunt homines Roma, ut augeretur sublimibus incrementis, foedere pacis aeternae Virtus convenit atque Fortuna, plerumque dissidentes, quarum si altera defuisset, ad perfectam non venerat summitatem.» (XIV, 6.3)
[Nel tempo in cui Roma, che vivrà finché ci saranno gli uomini, cominciò ad elevarsi allo splendore universale, perché s’ingrandisse con gloria sublime, la Virtù e la Fortuna, che spesso sono in contrasto tra loro, si unirono in un patto di pace eterna. Infatti se una di esse fosse mancata, Roma non avrebbe conquistato la completa supremazia.]
La sua voce, in prosa, esprime la stessa temperie ideale che emerge dai versi del poeta Claudio Rutilio Namaziano, Praefectus Urbis nel 415 d.C.:
«Fecisti patriam diversis gentibus unam, profuit iniustis te dominante capi; dumque offers victis proprii consortia iuris, Urbem fecisti, quod prius orbis erat» (De reditu, 63-66) [
[Hai riunito popoli diversi in una sola patria, la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi. Offrendo ai vinti il retaggio della tua civiltà, di tutto il mondo diviso hai fatto un’unica città]
Ben poco si sa delle vicende della sua vita: nato probabilmente a Tolosa, il «Dereditu» è opera del 417 d.C. e rappresenta una sorta di diario di viaggio durante il tragitto che dalla capitale dell’Impero lo avrebbe riportato in Gallia.
Namaziano, che può essere considerato l’ultimo poeta della latinità classica, scrive pertanto dopo che i Visigoti di Alarico avevano violato l’Urbe (410 d.C.) – per inciso secoli dopo l’ultima volta, segnata dall’invasione dei Galli di Brenno nel 387 a.C. – ma i versi con cui invoca Roma all’inizio del suo viaggio sono l’invocazione ad una dea:
«Exaudi me regina mundi, inter sidereos Roma recepta polos» (De reditu, 47-48)
[Ascoltami, regina del mondo, Roma, tu che sei stata accolta fra i poli del firmamento]
Essi non possono non rimandare con la memoria all’incipit del poema di Tito Lucrezio, un altro immenso poeta che stava ugualmente vivendo un «patriai tempore iniquo». Roma è l’unica dea che il mondo pagano tramanda – idealmente – al cristianesimo. E alla posterità.
Consigli di lettura su Giuliano







Da ultimo, alcuni suggerimenti di lettura su Giuliano. In primo luogo gli scritti del Cesare, che ci propongono incorrotti i suoi slanci e i suoi tormenti, le sue battaglie ideali e le sue sofferenze: un “sentire” profondamente umano, nella corrispondenza tra il microcosmo e il macrocosmo, che lo rende vicino agli uomini di tutte le epoche.
Poi una serie di altri testi sul suo personaggio e la sua parabola militare, filosofica, culturale e politica.
Da ultimo, anche un bellissimo romanzo storico, dove la voce narrante è Victor – alias Draco – un guerriero franco che è al tempo stesso guardia del corpo e maestro d’arme del giovane Cesare; Victor è il «Draconarius» di Giuliano: a lui spetta il compito di cavalcare sempre al suo fianco, anche e soprattutto in combattimento, reggendo l’insegna del Drago imperiale. Dalle sue parole e riflessioni – anche quelle non espresse, che il Protector si tiene per sé, o si intuiscono soltanto – la progressiva scoperta di un personaggio straordinario, che resterà dentro di lui per sempre: anche quando sarà tornato in Gallia, dopo averlo accompagnato nel suo ultimo viaggio: da Maranga a Costantinopoli. L’ultima immagine, delicatissima, è il tocco leggero di sua moglie al sarcofago del Cesare: l’estremo saluto, nella penombra di una chiesa. Poi i loro passi leggeri, verso l’uscita, e la consapevolezza che anche nelle loro vite un’era si era chiusa. Per sempre.
L’ha ripubblicato su The sense.
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