di Sonia Morganti
Tra i quattro Padri della Patria, Giuseppe Mazzini è forse quello il cui contributo è meno immediato all’occhio inesperto. Se è facile elencare le imprese e i meriti di re Vittorio Emanuele, di Cavour e di Garibaldi, cosa ha fatto Mazzini? I suoi tentativi rivoluzionari sono sempre miseramente falliti e la sua soluzione per l’Unità (la repubblica democratica) fu sconfitta dalle politiche di Cavour. Mazzini fu quindi un perdente? All’apparenza sì. Tuttavia, se anche Mazzini fu perdente nei fatti, fu però vincitore negli ideali. A un secolo e mezzo di distanza, il suo pensiero è ancora attuale.
Un perdente di successo, in sostanza; potremmo anche dire un magnifico perdente! Proprio questo è il titolo di un recente romanzo di Sonia Morganti edito dalla Oakmond Publishing, che ho già recensito qui sul blog.
In questo articolo sono invece raccolti i post di approfondimento, scritti sempre dalla ottima Sonia Morganti e apparsi sulla pagina Facebook (con in più del di materiale inedito). Vi viene appronfodito il Mazzini privato, in particolare nel cosiddetto primo periodo londinese, corrispondente agli anni 1830-1840, proprio l’ambientazione del romanzo Il magnifico perdente.
Buona lettura!
Mazzini e le donne
Una delle cartine di tornasole per valutare la personalità di un uomo, sta nel suo rapporto con il femminile. Pensando a tutti i personaggi storici, vi accorgerete che a questa regola non sfugge nessuno e raramente il risultato è ingannevole. Lo stesso vale per Mazzini, che con il femminile ebbe un rapporto privilegiato. Erano tante le donne che hanno aiutato gli esuli italiani. Questi, d’altro canto, avevano un atteggiamento nuovo nei loro confronti. Diverso da quello degli inglesi e, per certi versi, anche da quello degli italiani che vivevano secondo le regole.
Vuoi per la vita randagia in esilio – per forza di cose le convenzioni sociali si scardinano – vuoi per il pensiero di Mazzini che permeava il gruppo, tra di loro ci sono sempre state molte donne.
Il modo di porsi di Mazzini nei nostri confronti è tutt’oggi all’avanguardia: uguaglianza nella diversità, come è normale sia tra esseri umani.
“Davanti a Dio Uno e Padre non v’è né uomo né donna, ma l’essere umano, l’essere nel quale, sotto l’aspetto di uomo o di donna, s’incontrano tutti i caratteri che distinguono l’Umanità (…) Non esiste disuguaglianza tra l’uno e l’altra; ma come spesso accade tra due uomini, diversità di tendenze, di vocazioni speciali.”
Immaginatevi l’effetto che potevano avere queste parole su una dama ingabbiata tra pudori e negazioni. Ne Il magnifico perdente appare la fragile, vibrante Jane Carlyle, moglie di Thomas Carlyle, intellettuale bello ed egocentrico. Jane trova in Mazzini un amico fidato, capace di comprenderla, di ascoltarla e supportarla. Scrive:
“Mazzini è un amico che si deve tenere caro, che è il migliore sempre nelle ore del bisogno… ha un potere di identificarsi con chi ama, per lo meno nei loro dolori, ch’io non ho mai visto eguagliato.”
E di rogne, la povera Jane ne aveva. Quando il marito scoprirà quanto l’aveva fatta patire, andrà in crisi.

Nel romanzo, inoltre, in particolare nei ricordi del protagonista, torna costantemente una creatura meravigliosa di cui dovremmo essere tutti fieri. L’Italia ha tanti padri, ma anche tante madri. E lei è incomprensibilmente tra le meno note.
Sorriso dolcissimo – Quanto al mondo m’è più caro, scriveva Mazzini – occhi vivaci, onestà d’animo, coraggio e passione. Dovendo, per forza di cose, evitare di uscire fuori tema, nel libro l’ho introdotta con questa frase:
“Giuditta – nata Bellerio, vedova Sidoli: due cognomi che svelavano traversie dolorose.”
Giuditta Bellerio Sidoli fu l’immenso amore di Mazzini. Quello con la A maiuscola, così intenso da sublimarsi e mutare, riuscendo a permeare le reciproche vite, fino alla fine, anche quando ormai separate.
Sorella di patriota, patriota lei stessa, moglie di carbonaro, amica e sodale di Ciro Menotti, compagna del fondatore della Giovine Italia, madre di combattente per la Repubblica Romana, cospiratrice sempre attiva, signora capace di influenzare salotti, sorvegliata speciale e spina nel fianco del suocero.
La definisco la “principessa Leia”. E non alludo all’acconciatura, ma alla tempra, alla scelta politica, al carattere eroicamente materno, all’impegno patriottico pagato a caro prezzo ma sempre presente, davvero fino all’ultimo respiro.
“Io credo nel dio degli esuli, dei perseguitati”
dirà al sacerdote giunto a impartirle l’estrema unzione. E lei aveva più di qualche motivo per essersi legata al dito le ambiguità del clero, visto che il figlio più piccolo fu uno dei pochi superstiti dell’assedio del Vascello a Roma, nel 1849. Ma quella è un’altra storia.
Ne Il magnifico perdente Giuditta appare nei ricordi, sia perché il libro è ambientato più di qualche anno dopo, sia perché altrimenti avrebbe rubato la scena al protagonista.
Se volete lasciarle un fiore, riposa nel cimitero monumentale di Torino.

Mazzini a Londra
Parafrasando la frase di un celebre film, potremmo dire che “i posti che abitiamo, alla fine ci abitano”. E se Mazzini ci racconta Londra, lui stesso finirà per esserne influenzato. Il suo cuore era sempre in Italia, ma larga parte della sua vita si svolse nella capitale inglese. Oggi vi arriviamo con qualche decina di euro, possiamo scegliere tra un’infinità di locali, tenerci in contatto via cellulare con le famiglie, spostarci grazie alla Tube e tutti, chi più chi meno, siamo esposti quotidianamente alla lingua inglese.
Andiamo però indietro nel tempo, fino al 1837… Mazzini arriva a Londra nel tardo pomeriggio del 12 gennaio di quell’anno. Come capirete, è già buio. Alle spalle ha un lungo percorso per l’Europa, la traversata della Manica, la risalita del Tamigi. Arriva con tre compagni e, ad accoglierli, è la nebbia. Sebbene Londra sia già illuminata a gas, il contrasto tra la scarsa visibilità, la luce artificiale, il cielo notturno e il pulviscolo è forte.
Questo e altro – sensazioni, speranze, paure, scoperte – Mazzini lo racconta assiduamente e nei dettagli in molte lettere alla madre, Maria. I due hanno un rapporto sincero, di profonda empatia e comprensione reciproca, si confidano tutto. Davvero tutto, credetemi.

Mazzini le racconta il suo arrivo a Londra come faremmo noi oggi: nei dettagli. Sappiamo cos’ha mangiato la prima sera di permanenza in Inghilterra – risotto alla milanese – come descrive la nebbia:
“C’è come un immenso berretto di cotone che si abbassa improvvisamente sugli occhi della città”
E persino una sua certa perplessità davanti alle usanze domestiche e gastronomiche inglesi. Mazzini non si può definire una buona forchetta e i ritratti ce lo confermano. Spesso si accontenta di caffè e pane, riso e patate, ancora caffè e caffè e sigari, che lo appagano. Anzi, in una lettera descrive il piacere del tabacco come superiore a quello che si può trarre dal cibo. Eppure persino lui, nelle lettere alla madre, racconta perplesso che a Londra sembrano saper cucinare solo
“rosbif e patate fritte”
Scritto così, rosbif. E poi, siamo in piena rivoluzione industriale:
“In questa città la rapidità con cui si impolverano le cose è indicibile”
Mazzini è colpito dall’onnipresente nerofumo e dal fatto che, nonostante questo… “l’uso dei tappeti è comune”. Se gli inglesi di oggi hanno risolto il problema dello smog, la mania delle moquette ovunque, bagno incluso, è rimasta!
Questi sono solo alcuni dettagli che ho voluto usare ne Il magnifico perdente, per giocare con i luoghi, gli odori e i sapori di Londra tra ieri e oggi, anche grazie alla sensazionale prosa di Mazzini. Che il nostro mangiasse poco, l’abbiamo detto. Il punto è che bruciava tante calorie: a causa del costo eccessivo dell’omnibus, una specie di carrozza collettiva, attraversa a piedi la Londra dickensiana.
E proprio così si imbatterà in una realtà dalla quale prende le mosse Il magnifico perdente…
LE CASE DI MAZZINI A LONDRA (Link)
Giuseppe Mazzini, chitarrista!
Anche ciò che ci conforta e ci dà gioia racconta tanto di noi. E, per Mazzini, questo angolo di paradiso, la stanza tutta per sé dove dimenticare il mondo a torno, era rappresentato dalla musica.
“Chi scrive non sa di musica, se non quanto gli insegna il cuore, o poco più; ma nato in Italia, ove la musica ha patria, e la natura è un concento, e l’armonia s’insinua nell’anima colla prima canzone che le madri cantano alla culla dei figli, egli sente il suo diritto, e scrive senza studio, come il core gli detta, quelle cose che a lui paiono vere e non avvertite finora, pure urgenti a far sì che la musica e il dramma musicale si levino a nuova vita dal cerchio d’imitazioni ove il genio s’aggira in oggi costretto, inceppato dai maestri e dai trafficatori di note.
E i maestri e i trafficatori di note s’astengano da queste sue pagine. Non sono per essi. Sono pei pochi che nell’Arte sentono il ministero, e intendono la immensa influenza che s’eserciterebbe per essa sulle società, se la pedanteria e la venalità non l’avessero ridotta a meccanismo servile, e a trastullo di ricchi svogliati…
La musica è un’armonia del creato, un’eco del mondo invisibile, una nota dell’accordo divino che l’universo è chiamato a esprimere.”
Da La filosofia della musica di Giuseppe Mazzini.
Dovete sapere che Mazzini era un ottimo chitarrista e pare cantasse anche molto bene.

La musica per lui rappresentava tante cose. Era un linguaggio universale, in grado di parlare direttamente ai cuori della gente e, quindi, di affratellare i popoli. Non a caso, conobbe Verdi ed era legatissimo al giovane Goffredo Mameli. Peraltro, le parole del nostro inno nazionale sono impregnate di filosofia mazziniana. Forse avete presente:
“Uniamoci amiamoci
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
Le vie del Signore”
Ma è più probabile che non conosciate questa strofa, perché non si arriva mai a cantarla. Peccato, perché il nostro Inno ha un climax emotivo e concettuale.
Tornando alla musica in generale, essa rappresentava per Mazzini un balsamo nei momenti difficili: come il 1849 e, ancor prima, durante la fuga da Marsiglia. In una sua lettera, Mazzini racconta alla madre come si fosse incantato ascoltando un canto popolare dei pastori. Lo appuntò su un foglio e descrisse così quel momento:
“È un bello spettacolo l’Alpi in faccia, il Jura alle spalle; in mezzo la pianura – silenzio e pace solenne – non rumore se non di campanelli che hanno in collo gli armenti, e di qualche canto di mandriano, canto svizzero, che consiste in un continuo passar dal basso all’alto, in una serie di ottave, che ha qualche cosa di doloroso, ma pur di dolcemente doloroso.”
Lettera alla madre, 8 novembre 1834
La musica era anche una passione, una disciplina, una compagnia sicura. Cambiano le case, si allontanano gli amici e sfumano gli amori, ma la chitarra rimane. E resta ancora oggi! Vi allego le foto che ho scattato al museo del Risorgimento di Genova. Mazzini possedette almeno due chitarre. Una di queste è esposta nella Domus Mazziniana di Pisa e, probabilmente, è quella su cui imparò a suonare. Meglio conservata quella del 1821, che si trova appunto a Genova.
Appena arrivato a Londra, tra le altre cose, un umanissimo e smarrito Mazzini si preoccupa di farsi mandare qualche partitura per rimanere in esercizio e si cruccia per la scarsa qualità delle corde di ricambio necessarie alla sua chitarra, il suo vero porto nelle tempeste.
Qui potete sentire come lo strumento suoni ancora bene:
Qui il Canto delle Mandrie Bernesi che impressionò il nostro:
Qui, invece, potete leggere il suo breve saggio sulla musica da cui ho tratto la citazione iniziale:
Giuseppe Mazzini, buona forchetta?
L’esilio è una situazione dolorosa, per motivi spesso strazianti e profondi, ma anche per la perdita delle abitudini più profane e quotidiane, che giorno per giorno definiscono la nostra identità, come il mangiare.
Mazzini, lo sappiamo, non è mai stato una buona forchetta: spesso ha la testa altrove e altrettanto di frequente manca dei mezzi per indulgere nei piaceri del palato. C’è da dire che non gli interessano molto e che sostiene più volte come un sigaro sia meglio di una robusta mangiata. Eppure, anche per lui, i pasti hanno un valore, perché sono un po’ rito, un po’ conforto, un po’ conferma di una condizione e di un’appartenenza.
Se durante il suo periodo romano, nel 1849, avrà tempo solo per pane e caffè, nel periodo londinese, soprattutto agli inizi, sono proprio le ristrettezze economiche e il diverso stile alimentare a condizionarlo. E a offrirci uno spaccato della profonda e forse eterna diversità tra la cultura gastronomica italiana e quella inglese.
Il cibo assume il valore di consolazione e ristoro proprio in occasione del primo pranzo consumato a Londra. Mazzini descrive alla madre quel giorno emozionante, confuso e difficile, specificandole anche il menu del pasto principale: risotto alla milanese e trippa. Ho voluto riportare questo dettaglio ne “Il magnifico perdente”:
“Il profumo del risotto e della trippa cucinati alla maniera di Milano li aveva fatti sentire a casa e la lunga notte di sonno alle spalle, il letto confortevole dopo il viaggio tormentoso, avevano rimesso al mondo quei quattro giovani italiani.”
Più avanti, nelle lettere, i pasti appaiono come una preoccupazione e un sacrificio economico in cui Mazzini non si impegna particolarmente: se può andare avanti con il minimo nutrimento e indirizzare tutte le risorse finanziarie ai suoi progetti, lo fa:
“Restava spesso a letto, per scrivere stando al caldo, e l’unico vero pasto che consumava era a base di patate e riso, di sera.”
D’altronde, nei suoi resoconti lascia trasparire come la cucina del posto non lo sorprenda certo positivamente. L’Inghilterra, a volte, gli sembra un luogo bizzarro, fatto di nerofumo, tappeti ovunque e dell’onnipresente “rosbif”, signore solitario e indiscusso della tavola, circondato da una corte di patate fritte:
“…un gesto eloquente invitava la domestica di casa ad aumentare il contorno impilato vicino al roast beef. «Mi sembra che i menu del posto siano un po’ monotoni, ma le patate mi saziano molto» spiegò ai commensali…”
Ma, insomma, Mazzini era così ascetico? No, ma poteva sembrarlo. Anche lui aveva un punto debole e, in uno dei momenti più neri della sua vita – quando da Marsiglia riparò in Svizzera – un piatto in particolare gli ha recato conforto. Lui, entusiasta della ricetta, l’ha riportata alla madre, tramandandola indirettamente anche a noi: si tratta di una torta farcita con mandorle, zucchero e limone, che oggi è nota come torta Mazzini. Non c’è stato modo di inserirla nel testo de “Il magnifico perdente” ma è presente nell’antefatto inedito:

“…di lato c’erano un piattino, un tovagliolo, una forchetta e una fetta di torta. L’aspetto era invitante e lei ne prese un po’. Era molto buona, di gusto delicato, perché la farcia di mandorle era ravvivata da un tocco di limone. Mentre la mangiava con calma, afferrò il primo dei fogli e lesse…”
Ma era davvero buona la torta assaggiata dalla misteriosa e inedita “lei”? Cercando di non lasciare nulla al caso, ho provato più di una volta a realizzarla. La ricetta originale, che Mazzini annota per la madre, è la seguente:
“Pestate tre once di mandorle, altrettante di zucchero. Sbattete il succo d’un limone e due torli d’uovo, montate a neve gli albumi e mescolate il tutto. Unta di burro una tortiera, mettete sul fondo la sfoglia, sulla quale verserete il miscuglio suddetto. Zuccherare e mettere in forno.”
Dopo tre (piacevoli) tentativi, consiglio di ridurre la dose di zucchero quasi fino a dimezzarla, visto che il nostro è molto più raffinato di quello di una volta – così come, d’altro canto, lo è la farina – e di mangiare la torta accompagnata da un bel caffè lungo e bollente.
Dei tanti modi di viaggiare nella Storia, questo è indubbiamente uno dei più piacevoli.
Complimenti bellissimo articolo
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Grazie 🙂
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