
Qualsiasi spiegazione del collasso politico comporta lezioni non solo per lo studio delle società antiche, ma per i membri di tutte le società complesse sia nel presente che nel futuro. Il dottor Tainter descrive quasi due dozzine di casi di collasso e passa in rassegna più di 2000 anni di spiegazioni. Quindi sviluppa una teoria nuova e di vasta portata che spiega il collasso di diversi tipi di società, valutando il suo modello e chiarendo i processi di disintegrazione mediante studi dettagliati dei crolli romano, maya e chacoano.
Pagine: 264
Editore: Cambridge University Press
Anno di uscita: 1988
Formato: cartaceo
Una civiltà è fragile come una vita
Paul Valéry
La consapevolezza che la civiltà non sia eterna è un’idea in realtà antica. Essa nacque ancor prima che il crollo dell’impero romano – uno degli eventi più significativi, evocativi e stimolanti intellettualmente della storia occidentale e quello a cui tutti (addetti ai lavori e non) pensano quando si scrivono parole come “declino” o “caduta” – influenzasse l’immaginario collettivo. Già un autore come Polibio, che scrive nel II secolo a.C. cioè nel momento di ascesa della civiltà romana e declino di quella greca, paragonava popoli e stati ad organismi vitali, sottoposti quindi a cicli di nascita, crescita, declino e morte.
La caduta dell’impero romano in Occidente, che dopo una spettacolare ascesa garantì un lungo periodo di prosperità prima di iniziare un lento declino fino al collasso, che nel V secolo fu rapido, è forse il singolo evento più influente della storia occidentale e forse mondiale. Esso alimenta ancora – anche oggi – le molte paure millenaristiche che agitano le società: la bomba demografica, la crisi energetica, i cambiamenti climatici, le ondate migratorie, l’ascesa di nuove potenze di altri continenti eccetera eccetera. Oltre a questa forte influenza sull’immaginario collettivo e inconscio, lo studio della caduta dell’impero romano ha costituito per generazioni di studiosi terreno fertile di dibattito.
Nonostante ciò, in occidente non si è mai cercato di sviluppare una teoria complessiva, organica e scientifica del concetto di “collasso” di una civiltà. Perché una civiltà, in passato prospera e vitale, declina? Molti hanno risposto a questo domande, ma pochissimi hanno tentato di farlo in modo organico e scientificamente sviluppato.
I tanti “declini” della civiltà
Questo è quello che dice l’autore del libro di cui parliamo oggi, Joseph A. Tainter, storico e antropologo americano. Anzitutto, la terminologia: “declino” e “caduta”, per quanto siano termini d’uso comune, non sono precisi quanto “collasso”. Questa parola, infatti, racchiude in sé il vero significato della caduta di una civiltà: il diminuito livello di complessità. Gli abitanti di Roma, ancora al principio del V secolo d.C., ricevevano rifornimenti alimentari gratuiti dallo stato, che provvedeva a questo facendo arrivare il grano da altre parti dell’impero grazie ad una complessa organizzazione logistica. Soltanto pochi decenni dopo (è sufficiente arrivare alla guerra greco-gotica di metà VI secolo), invece, troviamo Roma spopolata, le province dell’impero occupate dai barbari e gli antichi monumenti riutilizzati per realizzare edifici di fortuna. Questo è ciò di cui si parla quando si usa la parola “collasso” di una civiltà: rotte commerciali che spariscono; strutture burocratiche che perdono di significato; vita urbana che diventa insostenibile; organizzazione e trasmissione del sapere che si interrompe.
Perché dunque l’autore ricorre a questo termine? Perché nel passato, per descrivere le cause del collasso (o, come si diceva spesso, della “caduta”) di una società, si è sempre fatto ricorso a spiegazioni e termini ad hoc. Quasi ogni storico negli ultimi mille anni ha proposto la sua spiegazione per la caduta dell’impero: la diffusione del cristianesimo, le invasioni dei barbari, l’inflazione, la crisi demografica, le continue usurpazioni imperiali eccetera. Lo stesso è avvenuto quando, sviluppatisi gli studi storici e le ricerche archeologiche, l’occidente ha scoperto e indagato altre civiltà come quelle sumeriche, quelle precolombiane e quelle del Mediterraneo antico.


Nessuno, invece, ha cercato di studiare in modo generale il collasso di una civiltà. L’unica eccezione è stata rappresentata dalle “teorie mistiche”, come le chiama l’autore, cioè quelle che paragonano la civiltà ad un organismo biologico – sulla scia di Polibio – e i cui ultimi esponenti sono stati Oswald Spengler e Richard Toynbee. Tali teorie vanno però rigettate, secondo Tainter, perché non sono teorie che poggiano su basi scientifiche ed esprimono idee e concetti accettabili fino alla metà del XX secolo, ma oggi ormai insostenibili; inoltre, per la loro stessa natura, non sono verificabili scientificamente.
Collasso di una civiltà e complessità
Dunque, cos’è il collasso di una società?
“A society has collapsed when it displays a rapid, significant loss of an established level of sociopolitical complexity.”
“Una società è collassata quando mostra una rapida e significativa perdita di un livello determinato di complessità sociopolitica”.
Non esiste un livello minimo di complessità: qualsiasi società, sia essa la Roma imperiale del II secolo, la civiltà della valle dell’Indo del III millennio a.C., la civiltà Maya o anche popoli seminomadi di raccoglitori, presenta sempre stratificazione interna, ridistribuzione di risorse, meccanismi di condivisione di informazioni, espressioni collettive e artistiche. Il grado di complessità, insomma, può essere diverso, ma mai assente, perché anche una “semplice” tribù costituita da pochi gruppi famigliari esprime una sua complessità. Il collasso, inoltre, non deve essere confuso con la scomparsa di entità politiche (su cui si focalizzavano gli studiosi del passato) ma deve essere limitato alla scomparsa di certi modi di organizzarsi di una società.

Prima di addentrarsi nell’esposizione della teoria dei “rendimenti marginali decrescenti”, l’autore espone le spiegazioni “classiche” del collasso di numerosi casi storici e tenta anche di schematizzare le principali ragioni addotte da storici e studiosi.
- Esaurimento di risorse vitali su cui la società dipende;
- L’apparire di nuove risorse;
- Catastrofi naturali insormontabili;
- Risposta insufficiente a circostanze contingenti;
- Altre società complesse;
- Invasori;
- Conflitti di classe e cattiva gestione da parte delle élite;
- Disfunzione sociale;
- Fattori mistici;
- Concatenazione di eventi;
- Fattori economici.
In modo un po’ pedante l’autore poi riporta, per ogni singola spiegazione elencata sopra, lo stato delle ricerche sui vari casi storici: l’impero romano, ovviamente; la civiltà minoica e quella micenea; l’impero ittita; le numerose civiltà precolombiane; alcune tribù africane. In conclusione, ognuno di questi approcci – tranne quello mistico – ha un suo merito, ma è incompleto.
La caduta della complessità
Il quarto capitolo è il cuore dell’opera. Ogni società, al crescere della propria complessità, assiste ad un crescere dei costi necessari per l’espansione di tale complessità o per il suo semplice mantenimento. Ogni società quindi alloca risorse sempre più grandi per ottenere, invariabilmente, una crescita sempre minore. Ad un certo punto, qualsiasi ulteriore investimento non produce più un ritorno. Qui avviene il collasso della società: quando il suo mantenimento non è più conveniente o fisicamente possibile, si assiste ad una “caduta”, cioè un crollo di complessità. La società si riorganizza su basi e modi più “semplici”. Dall’impero romano si passa ai regni romano-barbarici.

Qualsiasi aspetto della società umana antica o moderna – dalle rese agricole all’efficacia dell’educazione in età non infantile, dal numero di brevetti rilasciati all’efficacia del sistema sanitario nell’innalzare l’aspettativa di vita – sembra sottoposto a questo andamento: investimenti iniziale molto redditizi e crescita vertiginosa; fase di rallentamento in cui è necessario investire ancora di più per ottenere meno di quanto si facesse in passato; fase di declino, che può essere lento o repentino, e infine collasso.
Il paragrafo precedente potrebbe sembrare oscuro e troppo economicistico per essere applicato alla storia. Vediamo quindi come l’autore spiega, nel capitolo 5, l’evoluzione dell’impero romano (tralascio di parlare della civiltà Maya e della cultura Chaco perché non sono esperto in materia e i casi sono onestamente meno interessanti). La civiltà romana, che aveva le proprie risorse principali nell’agricoltura, visse una grande espansione in età repubblicana. Tale ascesa fu irresistibile: i proventi di ogni conquista chiamavano altre conquiste e immettevano risorse grandissime nella società. La fase di facili conquiste ebbe termine con Ottaviano Augusto e la nascita dell’impero, che in qualche modo stabilì dei limiti all’espansione. Per altri due secoli, Roma poté ancora espandersi ma a costi sempre maggiori e con proventi sempre più limitati nella quantità come nel tempo. Al momento della prova, cioè la crisi demografica di metà II secolo e poi le ondate di invasioni barbariche, il sistema entrò in crisi perché le risorse erano sempre minori e gli “stress” sempre maggiori.

Diocleziono riformò il sistema aumentando a dismisura esercito e burocrazia; il costo dell’impero, una volta capace di autoalimentarsi, ricadde sempre più sulle plebi, sui contadini, sulle aristocrazie locali. Ben presto, ovviamente, per questi ceti oppressi rimanere nell’impero divenne più oneroso che uscirne e non poche realtà locali, all’arrivo dei barbari, videro in questi dei liberatori dall’oppressione imperiale.
Where under the Principate the strategy had been to tax the future to pay for the present, the Dominate paid for the present by undermining the future’s ability to pay taxes.
Laddove nel Principato la strategia era stata di tassare il futuro per pagare il presente [svalutazione della moneta], il Dominato pagava per il presente minando l’abilità futura di pagare le tasse.
Il risultato fu la caduta dell’impero e la sua sostituzione per mano di entità statali o parastatali costituite dai regni barbarici, che partivano da un livello di complessità assai minore e potevano quindi, inizialmente, investire poco e ottenere un grande ritorno.
Conclusioni
Nelle conclusioni, ovviamente, l’autore tenta delle considerazioni sulla propria epoca e sul futuro. Saggiamente, invece che addentrarsi in previsioni geopolitiche, Tainter individua la particolarità della nostra epoca, che ci differenzia dai Maya, dall’impero romano, dalla Cina antica e da ogni altro caso studiato: i singoli stati, oggi, non sono separati, ma convivono in una più grande società globale. Il vuoto dell’eventuale caduta di un singolo stato verrebbe subito riempito dai vicini. Questo “vantaggio” è apparente, però. Il collasso, infatti, potrebbe riguardare, in un futuro, l’intera società globale.
Un difetto del libro è senza dubbio dovuto all’età: trentacinque anni sono ormai parecchi. Il libro è denso di citazioni e dipendente, in molti punti, dai dati archeologici, che sono ovviamente in continua evoluzione. Un esempio che mi ha colpito è quella del popolo degli Ik, piccola tribù dell’Uganda che Tainter porta come esempio di collasso estremo, cioè tale da portare alla recisione anche dei legami familiari e personali. L’unica fonte citata sugli Ik è il famoso The mountain people dell’antropologo Colin Turnbull che, da una breve ricerca online, ho visto essere stato contestato e in parte smentito nel corso degli anni. Non ho verificato gli altri casi (come detto, Tainter porta dozzine di esempi di civiltà collassate) ma questo esempio mi ha fatto leggere con un pizzico di diffidenza gli altri casi citati.
Tuttavia questi difetti non inficiano la qualità dell’opera, perché sono contigenti a singole parti, laddove il cuore è l’esposizione della teoria dei rendimenti marginali decrescenti. Un neo più grosso, invece, è la tendenza dell’autore a ripetere i concetti. Un’altra criticità è, che nonostante la pretesa di scientificità, quello di Tainter rimane un discorso qualitativo e non quantitativo; questo perché i casi studiati appartengono tutti ad un passato remoto di cui non abbiamo e non potremo mai avere statistiche precise. Chi vi scrive ha fatto studi scientifici seri e impegnativi e perciò, confesso, guardo sempre con un po’ di compatimento all’uso della parola scientifico in ambito di scienze umane e sociali. Avrei dunque preferito, da parte dell’autore, un’analisi che si limitasse all’oggi o comunque ad una storia più recente ed entrasse nel dettaglio portando esempi, casi e numeri: non, quindi, il declino di civiltà precolombiane di cui non sappiamo quasi nulla; ma il collasso di imperi più recenti, ad esempio come quelli coloniali delle potenze europee (e di cui disponiamo di molti più dati).
Nonostante tutto questo il libro di Tainter rimane un’opera stimolante con una tesi di fondo brillante e che, inoltre, è quasi didascalica nell’enumerazione dei casi storici più antichi di collassi di civiltà. L’opera, purtroppo, è in inglese e non di facile reperimento ma, per chi può, vale davvero la pena di recuperarla.
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