L’Unità d’Italia e il crollo dello Stato Pontificio

«Sono passati dieci anni dal 1848, dal grande incendio dell’Europa. Sembra che ogni cosa si sia calmata, che il tempo si sia fermato. Ora però, di nuovo, tutto sta per cambiare. E il tempo riprende a correre.»
Messa troppo spesso in ombra da vicende contemporanee – una su tutte, l’impresa dei Mille di Garibaldi – la storia romana, della città e dello Stato Romano, alla metà dell’Ottocento, dopo la breve avventura della Repubblica mazziniana, è poco conosciuta dal grande pubblico. Roma, il papa, il re è la cronaca dettagliata di tutto quel che accadde dentro e attorno a Roma negli anni che portarono alla proclamazione del Regno d d’Italia.
Stefano Tomassini incrocia i pensieri e le azioni di Vittorio Emanuele II e Pio IX, Cavour e Napoleone III, Garibaldi e Mazzini, le osservazioni dei forestieri più o meno affezionati alla città, i pregiudizi o le intuizioni dei diplomatici, i vizi e le virtù del clero, gli entusiasmi, le accidie, le ironie e le ire del popolo.
Pagine: 490
Editore: il Saggiatore
Anno di uscita: 2011
Formato: cartaceo
Pochi scrittori, nel narrare gli eventi storici, hanno il dono di saper trovare una sintesi felice e persino accattivante dal punto di vista stilistico, che sia in equilibrio tra l’aneddoto giornalistico e i temi della ricerca storica più rigorosa – quest’ultima spesso presentata in modo noioso. È questo il caso di Stefano Tomassini, giornalista e autore televisivo che negli ultimi anni della sua vita si è dedicato alla ricerca storica, con tema di predilezione la storia della Stato Pontificio in età risorgimentale. Frutto di questo studio sono stati una serie di quattro libri; quello di cui parlo oggi è il secondo, che copre gli anni dal 1854 al 1862, in cui lo Stato della Chiesa assistette (termine azzeccato in questo caso) alla seconda guerra d’indipendenza, all’unità d’Italia e alla perdita di ogni sua provincia al di fuori del Lazio. L’opera costituisce il seguito cronologico di Storia avventurosa della Rivoluzione romana, mia amata lettura di gioventù (e che dovrei riprendere in mano onde parlarne su questi lidi…).

L’autore, nel bel mezzo del libro, fornisce le motivazioni che l’hanno spinto a proseguire l’opera prima, che ai tempi ebbe anche un discreto successo editoriale.
“Mi sono chiesto abbastanza a lungo che ragione potesse esserci di proseguire una storia che sembrava aver vissuto il massimo delle sue possibilità appunto in quel biennio. Che cosa si sarebbe potuto raccontare poi, che non fosse solo il riflesso di ciò che accadeva attorno? Mi sono risposto che c’erano fatti romani da raccontare e vedo che alcuni già li ho raccontati e tanti altri mi aspettano. Mi sono anche detto che il tentativo di far rivivere quella Roma e quello Stato Romano, quella loro progressiva riduzione dentro l’unificazione dell’Italia, era un tentativo da fare. Alla peggio sarebbe stata la narrazione di un lento, ma non troppo lento, inesorabile tramonto: e questo ha il suo fascino per chi scrive e, con un po’ di fortuna, può averlo anche per qualcuno che legge. Ma, sinceramente, sapevo che tutto questo non mi bastava. Così come non m’era bastato raccontare gli eventi del 1848-1849 e cercare di spiegare che cosa erano allora Roma e i romani. Allora e adesso la mia principale domanda è un’altra, coniugata al presente e semplice nella forma: che cos’è l’Italia? Domanda mazziniana: non lo nego, e anzi ne vado orgoglioso. Perché non mi interessa tanto ciò che l’Italia è, geografia, storia, economia, cultura, religione, usi e costumi, vizi e virtù, quanto ciò che deve essere… Il pragmatismo, se non è la qualità aggiunta ad alcuni princìpi fermi nella mente del politico, se non è l’occasione di confronto in cui s’imbattono i suoi ideali, da solo è la peggiore ideologia che sia dato immaginare. In altre parole, la domanda primaria in quel 1853 e poi, come vedremo, negli anni successivi, era che cosa bisognasse fare per fare l’Italia oppure che Italia bisognasse fare. Io sono per la seconda e sto, credo, con Mazzini. Perderemo: questo già si sa. Ma sarà stato bello parlarne.”
Dunque, quale storia fa Tomassini? La sua non è una storia accademica, né in senso moderno del termine né antico. Non è neanche una storia di re e battaglie, come si usava moltissimi anni fa. I libri di Tomassini sono anzitutto una storia di uomini e donne attraverso le loro stesse parole. La principale caratteristica che salta all’occhio assai presto, leggendo questo o gli altri libri della serie, è il frequente ricorso a citazioni di fonti dirette dell’epoca: lettere, memoriali, diari, articoli di giornali, proclami di governo, leggi e, assai più raramente, citazioni di opere storiografiche quasi sempre, però, scritte da autori del secolo XIX, ovvero molto vicini ai fatti narrati.
Questo gusto per la fonte diretta è la principale cifra di Tomassini. Essa ha un grande pregio, che è quello di restituire l’autentico pensiero, conflittuale e non sempre coerente, che dominava l’epoca (come in ogni altra epoca), con tutte le sue asperità e contraddizioni; si evita, soprattutto, quel “senno di poi” che è la tomba della Storia. La Storia, così come è raccontata da Tomassini, non è una sequela di eventi necessari ed inevitabili come nelle peggiori opere divulgative, ma è il frutto di lotte e contrasti d’idee, che nel libro possiamo riscoprire leggendo le fonti e le citazioni di prima mano. Inoltre, questo crea uno stile riconoscibile e “caratteristico” nel senso di particolare e quasi unico. Tomassini come detto non è uno storico, ma un giornalista: uno di quelli che, per stile, profondità di vedute, capacità compositiva e tante altre cose meriterebbe la G maiuscola.

Un’altra caratteristica è l’assoluta franchezza dell’autore nel giudicare i personaggi, le loro azioni, le loro parole. La lettura, che inevitabilmente può a tratti divenire “noiosa” per l’eccessiva retoricità dello stile ottocentesca (cosa che fa notare lo stesso autore) viene ravvivata da questi inserti dell’autore che, senza temere critiche, conduce il lettore dalla storia del passato a quella attuale. Si vedano questi paio d’esempi:
Il governo e la magistratura pontifici erano e restavano da un punto di vista liberale una vergogna e non ci sarebbe stata mai più benignità di pontefice capace di trasformare una teocrazia declinante in uno Stato di diritto: l’ultima occasione, forse l’unica, si era persa nel 1848.
E poi, commentando la nota scritta di un ambasciatore francese al proprio governo che, per difendere lo Stato Pontificio, conteneva giudizi quasi razzisti sugli italiani:
Me la prendo con il povero Rayneval e gli do dell’arrogante e del saccente solo perché fa suo un archetipo che gira ancora per l’Italia e a cura degli stessi italiani? Non siamo forse ancora circondati da politici, politici italiani, dico, convinti e contenti che la maggiore virtù nazionale sia l’intelligenza, meglio ancora quando si colori di furbizia? E quegli stessi politici non lasciano spesso intendere che quanto al resto, i difetti, possono anche essere interpretati come virtù mascherate? Un po’ di pigrizia, certo, l’accortezza di vedere come si mettono le cose, come va il mondo, un sano individualismo: non sono anche queste espressioni d’intelligenza? E solo perché simili idiozie girano ancora, sarebbero perdonabili nella relazione di un ambasciatore di Francia al suo ministro degli Esteri? Ancor più ho motivo di porre questa domanda in quanto quelle di Rayneval non sono battute, come si possono dire al tavolo di un caffè, sono bensì la premessa, che lui quasi pretenderebbe scientifica, di tutta la sua costruzione retorica in difesa del governo romano.
Dunque, dopo queste premesse, qual è il giudizio che l’autore, con le proprie capacità letterarie, dà alla Storia narrata? Nulla di più esemplificativo è rappresentato dal tutt’uno che sono il primo e l’ultimo capitolo dell’opera: due capitoli quasi in parallelo, che racchiudono le tante pagine e i tanti eventi in un cerchio ideale, che fornisce al lettore una chiave di lettura per tutto ciò che s’appresta a leggere oppure ha appena letto. Il primo capitolo è dedicato al tentato omicidio del segretario di Stato pontificio, il cardinale Giacomo Antonelli da parte di un popolano, Antonio De Felici (giugno 1855); l’ultimo a Cesare Lucatelli, accusato di aver ucciso un gendarme durante alcuni moti di piazza (giugno 1861). In entrambi i casi gli imputati vengono condannati a morte; in entrambi i casi Tomassini descrive la dinamica dei due eventi con stile quasi narrativo e lasciando intendere che la reazione pontificia non fu solo spropositata, ma ridicola. Felici lasciò cadere, in presenza del cardinale che passeggiava, un forchettone da cucina; Lucatelli, che era un ubriacone che girovaga durante la festa dei ss. Pietro e Paolo, si trovò quasi per caso in una rissa tra alcuni gendarmi e dei presunti manifestanti.

La scelta di questi casi, il tono con cui sono narrati e la loro posizione all’interno del libro suggeriscono il seguente messaggio: che lo Stato Pontificio era ormai tremendamente inadeguato nel gestire il potere temporale in pieno secolo decimonono.
Tra queste due estremi si svolge la narrazione della storia pontificia e d’Italia nel periodo 1854-1861. La figura dominante, ovviamente, è quella di Pio IX, su cui l’autore ritorna più volte nel corso del libro arricchendo in ogni occasione il ritratto del pontefice regnante. L’ultimo papa re, secondo Tomassini, preannuncia già in realtà i papi della modernità.
Questa è, diciamo così, una complicazione che non si può togliere dal quadro di quegli anni. Pio IX era per i più un papa amato e amabile… bisogna insomma considerare Pio IX sotto tre aspetti: l’uomo, il capo della Chiesa, il sovrano… Il capo della Chiesa è non solo il Pio IX che si ritiene padre dei figli della luce, da difendere contro i figli delle tenebre, non è solo l’uomo in lotta contro il male, è anche il papa dal pontificato abbastanza lungo da vedere e guidare uno dei più grandi cambiamenti della storia della Chiesa: è sostanzialmente, per amore o per forza, un grande innovatore.
Pio IX viene descritto nei momenti di intimità che ci sono giunti così come viene giudicato negli atti che compie come capo di una potenza temporale. Tomassini, insomma, fonde in un tutt’uno le reazioni del papa alla fama di “iettatore”, la sua interpretazione del “miracolo di sant’Agnese” e molto altro con l’analisi testuale dei suoi documenti ufficiali. Il quadro complessivo è di grande impatto. L’impressione di complessità ha dato al sottoscritto la sensazione di conoscere Pio IX:
Cito ancora:
Pio IX, il quale aveva sì scelto, come ho già sostenuto, di fare il papa, aveva privilegiato la parte spirituale della sua missione su quella temporale, ma ancora non sapeva quanto quest’altra parte, la temporale, fosse vicina a disfarsi. Mi permetto di insistere su un punto: Pio IX è il primo papa della nostra età. Un po’ per forza e un po’ anche per volontà sua è un papa nuovissimo rispetto ai predecessori. E quanto al viaggio di quell’estate del 1857 [in Romagna] non si può non osservare come assomigli per tanti aspetti ai viaggi che compiono ai giorni nostri i suoi successori e come sia diverso da quello che aveva compiuto solo sette anni prima, nel 1850, per tornare da Napoli a Roma dopo un anno e mezzo d’esilio.

Personaggio di non secondaria importanza è il cardinale Antonelli, che fu segretario di stato e uomo molto potente per buona parte del periodo risorgimentale. Tomassini ne descrive ascesa, origine e connessioni familiari. Magistrale è l’analisi che viene fatta del suo ritratto fotografico (faccio notare in parentesi che il libro ha anche un bell’apparato iconografico dell’epoca) in contrapposizione alle descrizioni di contemporanei che, oscurati dall’odio anticlericale, ritraggono il cardinale alla stregua di un orco:
Vado a riguardarmi una fotografia, che mi pare la migliore della serie, tagliata a metà della persona, un po’ più stretta di quello che al cinema chiamavano o chiamano un piano americano. La veste è un po’ sovrabbondante. La bocca, che forse accenna un sorriso senza davvero riuscirci, è effettivamente un poco straripante, lascia immaginare che potrebbe far di peggio, ma non mi sembra capace di lanciare fiamme. Gli occhi guardano l’obiettivo, quindi guardano anche me adesso che li guardo. Un po’ d’inquietudine me la danno. Non per l’idea d’incontrare il diavolo vestito da ecclesiastico, bensì per la certezza di sapere molto poco dell’uomo che ho davanti. Se proprio ho da attribuirgli un difetto, allora non saprei definirlo meglio che una sfrontata riservatezza. Per di più l’uomo tiene le braccia conserte, sta un po’ storto, tutto il peso sulla gamba sinistra: ricercava una posa naturale e dev’essere stata una sofferenza, che un po’ mi rimanda.
Ovviamente, ampio spazio trovano gli eventi e personaggi della concomitante storia risorgimentale d’Italia, in cui lo Stato pontificio è immerso (e sommerso). Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini, Garibaldi e molti altri protagonisti vengono studiati, se non con ritratti completi (o il libro si sarebbe dilatato al migliaio di pagine!) alla luce del filo conduttore dell’opera, che è il tema di “Roma capitale”. Da un lato abbiamo Mazzini, sognatore e vagheggiatore di una “terza Roma” che si scrolli di dosso il passato papalino; Garibaldi che, più pragmatico, diventa monarchico; poi ci sono Cavour e il suo genio diplomatico.

Non a caso, i capitoli finali del libro si chiudono con il primo dibattito parlamentare del neo-regno d’Italia, dedicato appunto al tema di Roma capitale. E tale tema è la sottotraccia del tema che sta a cuore all’autore:
La nazione italiana esisteva da tanto tempo che si sarebbe tentati di dire che i francesi non se ne fossero accorti perché ancora non c’erano. Forse esagero, ma il fatto è che sono un po’ stufo d’un certo andazzo contemporaneo, del quale non si può certo dare la colpa a Napoleone III, che fa continuamente discutere l’Italia e gli italiani del loro essere nazione. L’una e gli altri erano nazione già molto tempo prima del Risorgimento, che ha unificato gli italiani, ma non li ha fatti nascere.
In definitiva, a chi consiglio questo bel libro (così come gli altri della serie) di Tomassini? Non è un libro di facilissima lettura, perché le numerose citazioni di fonti primarie alla lunga possono stancare anche il più appassionato; inoltre, il libro è un gigantesco in media res perché su ogni evento aleggiano i fatti del ’48-’49 narrati nel precedente volume. Fatte queste premesse, è un libro che consiglio a tutti perché la felice penna dell’autore dà veramente la sensazione di immergersi nei diversi mondi di metà ‘800: quello “antico” dello Stato pontificio, quello più “moderno” dei suoi avversari; in quello dei difensori del vecchio ordine; nel mondo di chi voleva cambiare (anche con arroganza) lo stato delle cose. E la lunghezza del testo permette di viverne la lettura come quella di un “grande romanzo” dell’800.
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