
Il volume ripercorre le tappe della guerra secolare tra i Romani e i Parti. All’inizio, gli Arsacidi si erano rivolti con cautela verso Roma; ma ad imporli come suoi unici veri rivali fu la disfatta inflitta alle legioni sul campo di Carre (53 a.C.), i cui echi influenzarono a lungo le vicende del mondo antico. La situazione costrinse gli imperatori ad impiegare ogni mezzo, militare e politico, per garantire l’equilibrio. L’esito del duello rimase in bilico per oltre un secolo; e quando le sorti parvero pendere a favore di Roma, intervennero ad arrestarne la spinta le grandi rivolte degli Ebrei della Palestina e della Diaspora. Cadde infine, prostrata, la dinastia arsacide; solo però per essere sostituita da quella sasanide.
Uscita: Aprile 2022
Pagine 296
Formato cartaceo
Editore: Carocci
Quella della storia del secolare conflitto tra l’impero di Roma e il dominio dei Parti – confronto in cui gli episodi bellici sono inestricabilmente connessi a manovra diplomatiche e intrighi di ogni tipo, una sorte di “grande gioco” ante litteram – è anzitutto la storia di un mistero irrisolto della storiografia: quello del cedimento morale (o psicologico, che dir si voglia) delle fanterie “occidentali”, in quel momento identificate nelle legioni di Roma, di fronte alle forze montate dell’Oriente, costituite dalle forze combinate di cavalieri catafratte e di arcieri a cavallo il 9 giugno del 53 a.C., giorno della battaglia di Carre.
Tale scontro secolare aveva avuto inizio, come è noto, sulla piana di Maratona, in cui la carica degli opliti ateniesi aveva affermato la superiorità tecnica – riflesso di quella morale, o così l’interpretò la stessa civiltà greca protagonista dello scontro – dell’Occidente sull’Oriente: della libertà sulla tirannia, in poche parole. Si tratta di uno dei miti fondativi del nostro mondo; una certezza incrollabile che a Carre andò in frantumi.

La sera del 9 giugno del 53 a.C. l’esercito romano di Marco Licinio Crasso – 7 legioni più forze di cavalleria ausiliaria, per un totale di circa 40mila uomini – fiaccato dopo una giornata di tiro micidiale delle frecce con la punta a cuspide, traumatizzato dalla morte del valoroso figlio del triumviro, fu costretto ad una ignominiosa ritirata e a lasciare alla mercé del nemico migliaia di feriti. Pochi giorni dopo lo stesso Crasso fu catturato dai Parti durante un abboccamento; il resto dell’armata si dissolse. I sopravvissuti furono poche migliaia; molti di più i prigionieri, numerose le insegne cadute in mano al nemico.
“È problema oscurissimo della storia militare antica la tragica impotenza dell’esercito romano contro le frecce partiche nella giornata di Carre.”
Così commentava lo storico Albino Garzetti nel 1944. L’intenzione del presente libro dello storico di Giovanni Brizzi, già riconosciuto esperto delle guerre puniche, è quello di tentare di spiegare sia questa disfatta sia la successiva evoluzione dei rapporti romano-partici, in un quadro unitario che va dai primi contatti, risalenti al I secolo a.C., fino alla loro naturale conclusione nel III secolo d.C., quando la dinastia degli Arsacidi fu soppiantata da quella dei Sasanidi di Persia.
Il libro narra quindi in dettaglio i maggiori conflitti tra i due imperi: la rivincita di Publio Ventidio contro quella che fu, in effetti, l’unica vera invasione partica in Siria; la sfortunata campagna di Marco Antonio; le manovre diplomatiche di Augusto; i conflitti dell’età neroniana che videro protagonista il famoso generale Corbulone, conquistatore dell’Armenia; infine, le ultime campagne imperiali, da Traiano a Lucio Vero, da Settimio Severo a Macrino e Caracalla.


La tesi di Brizzi si può così riassumere: la sconfitta di Carre fu dovuta ad un sostanziale gap tecnologico tra i due esercito che fu genialmente sfruttato dal comandante partico, Surena. Le frecce dei Parti, infatti, potevano forare abbastanza agevolmente gli anelli delle cotte di maglia (la “lorica hamata”) dei legionari romani, i quali non avevano adeguate armi per rispondere: il pilum dell’epoca era infatti un giavellotto leggero; né le cavallerie aggregate potevano competere con le omologhe armi partiche. Surena consegnò sé stesso all’olimpo dei grandi generali con una semplice decisione, apparentemente assurda, ma in realtà geniale: egli ordinò ai catafratti di non effettuare una carica preventiva, com’era sempre stato fatto in passato con scarsi risultati contro fanterie organizzate. Tale tattica combinata – arcieri a cavallo che tempestano per ore con migliaia di frecce le lente legioni, impossibilitate a reagire sotto la minaccia dei catafratti, che intervenivano non appena si tentava l’inseguimento dei fastidiosi arcieri a cavallo – fu alla base del crollo psicologico delle legioni romane perché, più che uccidere, provocava migliaia di feriti e fiaccava ogni capacità di resistenza.
La risposta di Roma fu lenta ma, infine, efficace. Nella prima campagna successiva a Carre, il valoroso e poco ricordato Publio Ventidio escogitò l’uso di frombolieri come arma di contrasto alle temibili forze degli arcieri a cavallo; questo, unito all’assenza di un comandante abile come Surena, segnò la sconfitta dei Parti, che riattraversarono l’Eufrate. Con la prima età imperiale, Roma modificò la panoplia delle proprie legioni, nell’intento di mantenere il primato della fanteria pesante e di non dover ricorrere a forze ausiliarie estranee alla tradizione militare. Brizzi analizza dunque l’introduzione della famosa “lorica segmentata” (nome moderno di comodo per la famosa armatura a piastre). Secondo l’autore, tale armatura fu introdotta proprio come risposta efficace alle frecce dei Parti. Non senza resistenze da parte dei soldati, perché la nuova corazza era pesante e scomoda nel caldo clima orientale. Assieme a questa, fu messo a punto anche una variante pesante del classico giavellotto, che doveva funzionare come arma d’offesa contro i catafratti. Assieme a queste armi, Roma sviluppò anche l’artiglieria: un lungo processo tecnologico dotò le armate imperiali del tempo di Traiano (quasi 160 anni dopo Carre!) delle “carrobaliste”, ovvero carri mobili su cui venivano montati gli scorpioni, fino a quel momento armi antiuomo eccezionali ma limitati dalla scarsa mobilità.

Tale ritrovata superiorità militare romana si esplicò nella campagna di Traiano che, dall’inizio alla fine, fu di fatto priva di qualsiasi grande scontro tra i due eserciti perché i Parti, riconoscendo la pericolosità di affrontare il nemico in campo aperto, attuarono una lunga ritirata strategica: non una resa, dunque, ma una scelta frutto di un calcolo rischioso, ma che infine pagò.
La storia non finisce qua, tuttavia. Ampio spazio l’autore dedica alle guerre tra Roma e i Giudei. Il motivo è semplice: le comunità giudaiche, sparse nell’impero ma soprattutto nella parte orientale, costituirono in diverse occasioni una vera e propria “quinta colonna” nemica. E fu nei Parti che essi videro assai presto, già nel I secolo a.C., la salvezza dal dominio romano. Questo è uno dei lasciti più duraturi del disastro di Carre: l’idea, divenuta presto illusione, dell’intervento partico. Brizzi, riprendendo quanto già scritto in un altro suo bel libro (“70 d.C. La conquista di Gerusalemme“) approfondisce quindi tattiche, organizzazione ed eventi delle varie insurrezioni giudaiche: fondamentale fu il loro contributo nel fallimento della spedizione di Traiano.

Dopo l’ultima sanguinosissima rivolta del tempo di Adriano i Giudei, per esaurimento di ogni risorsa, non poterono più giocare alcun ruolo; finalmente, le ultime guerre videro la netta supremazia di Roma che, assicurate le retrovie, stabilì nuove province e domini duraturi al di là dell’Eufrate, a pochi giorni di marcia dalle capitali mesopotamiche della Partia. L’impero, che s’avviava verso la crisi del III secolo, non aveva però più la forza espansiva dei “bei tempi” per concludere l’opera e affacciarsi, almeno, sul Golfo Persico.
La lettura del libro mi ha pienamente soddisfatto. C’è una grande varietà di contenuti: battaglie, diplomazia e guerre si alternano ad analisi tecniche e sociali. Il miglior capitolo del libro per profondità d’analisi, pur costituendo un’aggiunta non così imprescindibile al soggetto trattato, è quello dedicato all’ascesa dei viri militares nel II secolo d.C.
Si possono fare alcuni appunti: lo spazio dedicati ai Parti è poco e molto limitata (anche perché le fonti in proposito sono molto scarse) è l’analisi delle strutture militari e sociali del grande rivale orientale di Roma. C’è da dire però che la bibliografia è davvero amplia e ricca e contiene tutto ciò che serve per approfondire anche quegli aspetti che nel libro occupano meno spazio.
Infine, la cosa migliore: le note (numerosissime) non compaiono a fondo libro e neanche a piè di pagina, ma direttamente nel testo! Per il sottoscritto è la soluzione migliore.
Libro, dunque, che consiglio a pressoché ogni appassionato di storia romana. Brizzi – almeno stando alle mie letture degli ultimi anni – è uno dei pochi (ultimi?) storici che riesce a collegare i dati archeologici e lo studio delle fonti (cosa che, in fondo, son tutti in grado di fare) con considerazioni anche morali sulle forze sociali che componevano l’impero: si tratta di Storia nel senso più profondo del termine.

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