di Stefano Basilico
Montevideo – Uruguay, l’affondamento dell’Admiral Graf Spee, 2025/1939, 17 dicembre
Un anniversario, un’occasione per tornare su studi antichi in tema di strategia e guerra navale: riflessioni basate su varie letture e approfondimenti, sviluppatisi anche in periodi diversi. In questo caso, la situazione è concreta: un libro dalla caratteristica sovracoperta azzurra, con l’immagine di un’ancora disegnata in bianco, che fa mostra di sé sugli scaffali.
Geoffrey Bennet, «La Battaglia del Rio de la Plata» (1972): un libro che è assolutamente un classico della storia della guerra navale. L’emozione di aver trovato una copia della prima edizione tradotta in italiano, in una collana editoriale specialistica molto apprezzata; un volume dell’anno 1974, quindi oltre mezzo secolo fa: rinnovando un insieme di sensazioni che spinge a ripercorrere quanto già analizzato in epoche passate.


Una trattazione dallo stile asciutto e molto rigorosa, dove la qualità e precisione dei dati tecnici – nonché della scansione temporale degli avvenimenti – si accompagna all’inserimento di un episodio molto conosciuto nel più vasto ambito delle strategie e dottrine navali delle nazioni in lotta, ma anche tenendo conto della psicologia e storia personale dei due principali protagonisti: il Capitano di Vascello Hans Wilhelm Langsdorff e il Commodoro Henry Harwood.
Menzione d’obbligo anche per la ricca iconografia: una serie di immagini, alcune delle quali poco note, che guidano il lettore nel seguire la narrazione dell’incalzante dipanarsi degli avvenimenti. Paradossalmente, già dalla copertina, iniziando dalla fine: con la famosa fotografia in bianco e nero dell’affondamento della “corazzata tascabile” Admiral Graf Spee nelle acque di Montevideo, il giorno 17 dicembre del 1939. Un gigantesco rogo che segnava idealmente la fine del periodo della cosiddetta “Guerra Crepuscolare”, cioè quello dei primi mesi di guerra navale nel Secondo Conflitto Mondiale, fino alla fine del 1939, vissuti dalla Marina Tedesca: da un lato, l’eredità della antica «Kaiserliche Marine»; d’altro canto, il senso del tramonto: del crepuscolo di tutta un’epoca. Un filo conduttore, molto sottile però ben visibile, a unire due epoche attraverso un quarto di secolo: dal 1914 al 1939.
Dopo che il sommergibile U-47 di Gunther Prien ebbe violato Scapa Flow silurando la corazzata HMS Royal Oak (17 ottobre 1939), riscattando allo stesso tempo la memoria del sacrificio del U-116 di Von Emsman (28 ottobre 1918) e l’affondamento della Flotta d’Alto Mare («Hochseeflotte») per mano dei suoi stessi equipaggi nella prigionia post-bellica (21 giugno 1919), la traiettoria solitaria del Admiral Graf Spee di Hans Wilhelm Langsdorff attraverso gli oceani – dopo la partenza da Wilhelmshaven il 21 di agosto – raccoglie idealmente il testimone e la memoria del incrociatore leggero SMS Emden di Karl Von Müller nell’estate-autunno del 1914, perpetuando inoltre il ricordo della Divisione Navale d’Oriente della Marina Imperiale Tedesca.
1. La “Guerra da corsa” e l’eredità della Kaiserliche Marine
L’Admiral Graf Spee, l’ultimo Corsaro; il suo comandante, l’ultimo Cavaliere. Corsaro, sì: perché interprete di una strategia navale chiamata “guerra da corsa”; quale seguita da una potenza più debole sul mare, per mezzo di navi che operino in solitaria contro il traffico marittimo di una potenza avversaria più forte, in aree geografiche molto estese e lontane dalle acque metropolitane; basata sul sabotaggio del traffico marittimo delle nazioni nemiche, interrompendo le vitali rotte che assicurano il flusso dei rifornimenti, affondando navi (tentando però sempre di risparmiare vite umane) o saccheggiando depositi e magazzini.
Curiosamente, la continuità della strategia della “guerra da corsa” può essere in primo luogo messa in relazione con le conseguenze del Trattato di Versailles, nel 1919. Sia detto per inciso, un trattato iniquo, una “pace cartaginese”, in tutto e per tutto: già a partire dall’applicazione dell’assurda “clausola di colpevolezza” (articolo 231); un atteggiamento vessatorio, frutto di una cecità politica che – suscitando negli sconfitti aspirazioni non già di rivincita, bensì di vendetta – rappresentò il brodo di coltura per la successiva nascita ed affermazione del nazionalsocialismo.
Un itinerario storico che Geoffrey Bennet ripercorre con rigore e precisione: dopo che alla fine del conflitto il Secondo Impero Tedesco dovette consegnare ciò che rimaneva della ancora potente e invitta «Hochseeflotte» – internata a Scapa Flow nelle Isole Orcadi e le cui unità furono, come detto, successivamente autoaffondate dagli equipaggi in data 21 giugno 1919 su ordine dell’ammiraglio Ludwig von Reuter emanato mediante il convenuto segnale a bandiere «Paragraph Elf. Bestätigen» (Paragrafo 11. Confermare) – alla Germania furono imposte forti restrizioni nella prospettiva di nuove costruzioni navali.


La nascita della “corazzata tascabile”
Pertanto, a partire dall’anno 1929 nella Repubblica di Weimar furono costruite dalla «Reichsmarine» delle unità di nuova concezione, tutte con dislocamento standard dichiarato di 10 000 tonnellate lorde (10 160 t). Nello specifico, il progetto di queste navi prevedeva radicali innovazioni volte a risparmiare peso: furono le prime unità principali a utilizzare estesamente il procedimento di saldatura per la costruzione dello scafo al posto del tradizionale utilizzo dei rivetti d’acciaio (piastre chiodate) e un apparato di propulsione interamente composto da motori diesel, che permettevano di raggiungere velocità fino a 26 nodi. Inizialmente queste furono classificate dalla «Reichsmarine» come “unità blindate” («panzerschiffe» ); tuttavia, legato al loro pesante armamento principale di 6 pezzi da 280 mm in torri trinate, la stampa britannica iniziò a riferirsi a queste navi come “corazzate tascabili” («pocket battleships»). Unità veloci, e potentemente armate: l’ideale, per agire como “corsari” negli oceani.
Una strategia che esige ai comandanti doti di iniziativa, audacia, immaginazione e fantasia, indipendenza di spirito e amore per la responsabilità; inoltre, una straordinaria solidità mentale: per affrontare quella “solitudine del comando” che impone una tensione incessante fino allo sfinimento, un doversi fare carico di tutto, il peso della responsabilità della propria nave e del suo equipaggio. Infine, la sensazione di essere oggetto di una caccia incessante da parte del nemico: come in una gigantesca partita agli scacchi, con l’oceano a fare da scacchiera.
La continuità non solo nel senso strategico, ma anche in quello umano e storico.
Wilhelmshaven, 30 giugno 1934: Gräfin Huberta von Spee, figlia dell’Ammiraglio caduto il giorno 8 dicembre 1914 a bordo del SMS Scharnhorstnelle acque delle Isole Falkland (dove la Divisione Navale d’Oriente venne completamente annientata da una poderosa squadra della «Royal Navy»: battaglia nella quale la donna aveva perso anche i suoi due fratelli Otto e Heinrich, entrambi ufficiali imbarcati sul SMS Gneisenaue sul SMS Nürnberg), fu la madrina della cerimonia del varo della nuovissima unità che portava il nome di suo padre. Inoltre, sul parapetto del ponte di comando del «panzerschiff»– il cui disegno riproduceva le merlature di un castello – era posizionata una targa nera nella quale si leggeva la parola «Coronel» (scritta in caratteri gotici, a lettere d’oro): a perpetuare il ricordo della vittoria del «Kreuzergeschwader»di Maximilian Graf von Spee sulla squadra di Christopher “Kit” Cradock, in data 1° novembre 1914, nelle acque dell’Isola di Santa Maria al largo della costa cilena.



L’ultimo cavaliere del mare
Una data, un destino: precisamente nel giorno 1° novembre 1938, il Capitano di Vascello Hans Wilhelm Langsdorff assumeva il comando della “corazzata tascabile” Admiral Graf Spee.
Veterano della Prima Guerra Mondiale l’allora Tenente Langsdorff – all’epoca imbarcato sulla corazzata SMS Grosser Kurfürst – aveva partecipato alla battaglia dello Skagerrak/Jutland (31 maggio 1916), ricevendo la Croce di Ferro di 2ª Classe; prima che il conflitto avesse termine, ricevette anche la Croce di Ferro di 1ª Classe.


Ma ancor prima, essendo che le rispettive famiglie erano vicine di casa a Düsseldorf a far tempo dal 1898, aveva avuto l’opportunità di conoscere personalmente il Conte (Graf) Maximilian von Spee: questa vicinanza e consuetudine gli instillò – oltre che un modello di etica, sobrietà dei costumi, senso del dovere e dell’onore – anche un profondo “senso del mare”, e di tutto il suo fascino. Un fascino colmo di rispetto, un proiettarsi verso gli spazi infiniti, anche con una punta di timore: tutti i marinai temono la collera di Poseidone; consapevoli, malgrado possano trovarsi a lottare tra loro come esseri umani, della potenza dello scenario dove si trovano ad agire: uno sfondo che rappresenta al tempo stesso il loro «medium» (interpretato come ambiente naturale) e comune avversario; da lì, il senso profondo di una “fratellanza del mare” che unisce gli uomini delle diverse nazioni, etnie, aree geografiche.
Una postura di nobiltà d’animo, rispetto e spirito cavalleresco che ebbe modo di evidenziarsi con chiarezza durante la crociera della corazzata Admiral Graf Spee attraverso l’Oceano Atlantico, l’Oceano Indiano e il Canale di Mozambico: procedendo Langsdorff a ordinare l’affondamento di navi mercantili nemiche solo dopo essersi assicurato che i rispettivi equipaggi avessero già messo in mare le scialuppe e vi avessero preso posto, accogliendo successivamente gli stessi marinai a bordo della corazzata tascabile; da gentiluomo d’altri tempi, esprimendo inoltre il suo personale rammarico per l’accaduto ai comandanti: fino a far consegnare al capitano inglese Dove (della petroliera Africa Shell) una pipa nuova, unitamente a una borsa di tabacco e a una serie di scovolini, dopo essersi reso conto che il collega aveva perduto la sua durante il trasbordo.


In conclusione, tutte le testimonianze concordano nel definirlo un uomo intelligente e audace, valoroso e cavalleresco al tempo stesso: in qualunque caso, è più che probabile che la lunga crociera (con il suo micidiale senso di solitudine, caricato di un’incessante tensione) abbia infine appannato la sua lucidità al momento di prendere delle decisioni, tattiche non meno che strategiche.
Il suo piano operativo prevedeva il rientro in Germania, una volta conclusa la campagna: tuttavia, da un lato commise alcuni errori già operando nella fase della “guerra da corsa”; d’altro canto – pensando ad un certo punto che il periodo della guerra al traffico stesse ormai volgendo al termine e che, conseguentemente, la necessità di evitare danni alla nave già non fosse così cogente – commise il suo peggior errore strategico: quello di accettare battaglia di fronte all’estuario del Rio de la Plata, immediatamente e senza pensarci due volte, quando avrebbe potuto sottrarsi al combattimento e far perdere ancora una volta le sue tracce nell’immensità dell’Oceano Atlantico. Dapprima, sottovalutando le forze del nemico; in più, persistendo nell’errore, una volta resosi conto di aver di fronte non un incrociatore e due cacciatorpediniere (avendo ipotizzato che fossero di scorta a un convoglio) ma tre incrociatori: forse, fu proprio quella stessa incoercibile spossatezza psico-fisica ad attenuarne la agilità mentale che sarebbe stata necessaria ad affrontare la nuova situazione.
E, ancora peggio, nel momento in cui – in qualunque caso e malgrado tutto, viene da dire – lo scontro appariva ormai deciso, invece di chiudere la partita (l’incrociatore pesante HMS Exeter era ormai fuori combattimento, quindi con la possibilità di affrontare in condizioni di chiara superiorità i malridotti incrociatori leggeri HMS Ajax e HMNZS Achilles) cambiò incredibilmente rotta, per dirigersi a velocità ridotta verso occidente. Allontanandosi quindi dal teatro della battaglia, alla ricerca di un porto dove riparare i danni riportati: senza pensare che il tempo necessario non sarebbe stato sufficiente a rispettare le leggi internazionali, che limitavano il periodo di stazionamento concesso in un porto neutrale ad una nave da guerra, per lavori di riparazione; ottenne infine un tempo massimo di 72 ore, il che avrebbe fatto di Montevideo un’autentica trappola per topi, senza via d’uscita.


Abbiamo parlato di nobiltà d’animo, rispetto e spirito cavalleresco: una postura, quella di Langsdorff, che lasciò un segno profondo anche nei suoi avversari. Un episodio su tutti, paradigmatico: una volta giunti a Montevideo, dopo essere sbarcati in territorio neutrale e ormai totalmente liberi, i marinai inglesi che erano stati accolti a bordo del Admiral Graf Spee parteciparono in massa alla cerimonia di sepoltura dei caduti della corazzata tedesca, nel cimitero della città; sul nastro della loro corona di fiori si potevano leggere queste parole: «Ai valorosi marinai della Kriesgmarine, i loro camerati della Merchant Navy».
Tuttavia, le lancette degli orologi proseguivano nella loro marcia inarrestabile: una volta scaduto il tempo accordato dal Governo dell’Uruguay, al tramonto del giorno 17 dicembre, l’Admiral Graf Spee levò le ancore e diresse verso il largo, seguito dal mercantile tedesco Tacoma; una volta giunto a conveniente distanza dalla costa, il «panzerschiff fu affondato dal suo stesso equipaggio a mezzo di cariche esplosive, come da ordine del Comandante. Hans Wilhelm Langsdorff non sopravvisse alla sua nave: il 20 dicembre, in una stanza d’albergo a Buenos Aires, il suo corpo fu trovato senza vita, avvolto nella bandiera della antica «Kaiserliche Marine»; sul comodino, una lettera d’addio. Il tramonto di un’epoca: o forse, di un mondo.
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