La parola e il potere (11): Astrologia, filosofia e magia

Storia politica e storia letteraria di Roma


Il contributo che presentiamo oggi – undicesimo e penultimo di una lunga serie firmata da Stefano Basilico – continua il nostro percorso dedicato al rapporto, nel mondo romano, tra letteratura, potere e cultura. Non si tratterà soltanto di osservare come gli intellettuali abbiano dialogato con l’autorità politica, ma anche di cogliere come ogni autore abbia elaborato idee capaci di lasciare un segno profondo, che ancora oggi continua a parlarci.

Questa pagina accoglie dunque un lavoro che unisce chiarezza e profondità, in cui rigore critico e sensibilità divulgativa si intrecciano con naturalezza. Da Sallustio a Livio, da Tacito a Virgilio, fino a Cicerone e Lucano, incontreremo alcuni dei grandi protagonisti della classicità latina, scoprendo come le loro opere abbiano posto domande che ancora oggi ci riguardano da vicino: dal cesarismo alle trasformazioni della sovranità, dal ruolo degli intellettuali alla costruzione della memoria collettiva.

Senza la pretesa di esaurire un tema tanto vasto, gli articoli offriranno un itinerario ampio e suggestivo, pubblicato a puntate nelle prossime settimane e destinato ad accompagnarci fino all’autunno inoltrato: un invito alla lettura e alla riflessione, capace di far risuonare voci antiche in chiave sorprendentemente attuale.

Piano dell’opera



11. Astrologia, filosofia e magia nella storia e letteratura di Roma

Lo stoicismo astrologico di Marco Manilio («nascentes morimur», IV, 16)

Poeta del I secolo d.C., di probabile origine orientale, la cui biografia è poco nota.  Marco Manilio non è stato un poeta di corte: si è ritagliato una sua autonomia intellettuale e spirituale nell’affermare che chi è attento al corso universale degli astri non ha senso si dedichi alla politica militante che è legata al contingente; celebra la pace, cosa per la quale rende omaggio in qualche modo a chi ha chiuso il Tempio di Giano (con il ritorno del concetto di Pax Augustea).

La sua poetica si basa sulla “etno-astrologia”, secondo la quale il corso delle stelle influenza la vita dei popoli perché posti in certe regioni piuttosto che in altre e quindi in riferimento alla volta celeste: quello di Manilio è quindi un “determinismo astrologico” che si differenzia dal “determinismo geografico” di Cornelio Tacito, secondo il quale l’habitat geografico in quanto tale condiziona potentemente i caratteri di un popolo. Due i possibili paradigmi della tesi tacitiana, dove la natura sembra rapresentare uno sfondo coerente con le azioni e il sentire umani: da un lato la Germania, dall’altro il passo delle Historiae dove descrive la desolazione dello scenario del Mar Morto (V, 6), all’inizio della narrazione – perduta – della Campagna di Palestina di Tito Flavio Vespasiano.

Il modello letterario di Manilio è un poema greco: gli Astronomica di Arato; la cultura astrologica era molto diffusa in Roma, anche agli alti livelli del potere: il principe Giulio Germanico, nipote di Tiberio ed eroe del Libro II degli Annales di Cornelio Tacito, aveva composto un poemetto giovanile chiamato “Aratea”. C’è sicuramente un importante influsso della conoscenza astrologica di derivazione orientale in quest’epoca; tuttavia, essa si innesta su ceppo autoctono che affonda le sue origini nella cultura ancestrale di Roma: la pratica della Aruspicina che viene dagli Etruschi, i Libri Sibillini risalenti all’età monarchica dell’Urbe e di cui Ottaviano Augusto incaricherà la ricerca di copie dopo la distruzione degli originali in un incendio, il “De Divinatione” di Cicerone, le “cabale babilonesi” citate da Orazio quando conversa con l’amica Leuconoe («nec Babylonios Temptaris numeros», I, 9, 2-3), le profezie di Virgilio, fino a Tiberio che a Capri nelle notti stellate cerca di carpire agli astri i segreti del futuro (Tacito, Annales, libro VI).

Il modello poetico di riferimento (nonché antagonista…) per Manilio è Lucrezio: entrambi sono poeti didascalici, rispettivamente stoico ed epicureo; anche la struttura del poema presenta evidenti similitudini: il dichiararne il contenuto per volumi, i riepiloghi ad ogni volume, le invocazioni al lettore. Spicca tuttavia una differenza: il poema di Manilio si articola cinque libri, invece che in sei: una plausibile spiegazione potrebbe risiedere nella intervenuta emanazione del senatoconsulto del 16 d.C. che voleva eliminare la letteratura “non allineata” agli orientamenti ufficiali; un provvedimento normativo con cui si instaura ed inaugura un clima di paura alla libera espressione che contribuirà a potenziare quel gusto per la scuola di cui si è già trattato.

Nel suo poema, c’è l’orgoglio di dichiarare che sta cantando una tema nuovo, il movimento delle stelle: rivendicando la propria autonomia e, soprattutto, la propria originalità (II, 57-59):

«nostra loquar, nulli vatum debebimus orsa, nec furtum sed opus veniet, soloque volamus
in caelum curru, propria rate pellimus undas.»

[racconterò di cose nostre, senza dovere a nessuno un orso né nulla ad altri poeti, la mia opera prenderà forma, solcherò il cielo su un carro solitario e fendendo le onde con un mio ritmo personale]

Un cantare che ha una base scientifica rigorosa, ma non condotto in modo asettico: vi si sente il poeta che studia l’armonia universale con la consapevolezza della corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, l’uomo e l’universo.

Proprio all’inizio del Libro II, Manilio si mostra pienamente consapevole dell’opera e della grandezza dei poeti che lo hanno preceduto. Omero cantò Troia, Esiodo le genealogie degli dei e il lavoro agreste, Teocrito i pastori, altri scrissero sull’oltretomba; altri ancora sulle costellazioni: ma in una maniera tale che il cielo risultasse quasi una favola di derivazione terrena, mentre è dal cielo che tutto dipende (II, 36-38). Nel rivendicare il percorrere prati ancora intatti di rugiada, o l’imbattersi in sorgenti da grotte inesplorate sconosciute anche ad Apollo, avverte un ammaestramento filosofico che procede dalla struttura dei cieli e che proporrà nei suoi versi. La valutazione del già citato “determinismo astrologico” nell’opera di Manilio rappresenta un passaggio delicato: l’essere umano perennemente in bilico tra «fortuna» e «fatum», predestinazione e liberio arbitrio.

Il poeta professa un entusiasmo sincero per una conoscenza delle stelle e della natura che consenta all’uomo di padroneggiarte lo sfondo su cui opera. È questo un passaggio delicato, che suscita più di qualche interrogativo: in estrema sintesi, la tesi espressa dal poeta è che penetrando la natura delle stelle, l’uomo soggiogato dal destino ridivenga padrone di sé stesso: non già perché possa mutare la «fortuna» o il «fatum», bensì in quanto può conoscerli (II, 115-125).

«quis caelum posset nisi caeli munere nosse, et reperire deum, nisi qui pars ipse deorum est?
quisve hanc convexi molem sine fine patentis signorumque choros ac mundi flammea tecta,
aeternum et stellis adversus sidera bellum [ac terras caeloque fretum subiectaque utrisque] cernere et angusto sub pectore claudere posset, ni sanctos animis oculos natura dedisset cognatamque sibi mentem vertisset ad ipsam et tantum dictasset opus, caeloque veniret quod vocat in caelum sacra ad commercia rerum?
» 

[Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo, e trovare Dio, se non chi partecipa della divinità? E questa vastità della volta che si estende senza fine, e le danze degli astri e i fiammeggianti tetti del cielo, e l’eterno conflitto dei pianeti contrapposti alle stelle, chi potrebbe discernere e racchiudere nell’angusto petto, se la natura non avesse dato alla mente occhi così potenti
e non avesse rivolto a sé un’intelligenza ad essa affine, e non avesse ispirato un compito così alto, e non venisse dal cielo ciò che ci chiama al cielo, per partecipare ai sacri riti?]

La struttura dell’opera in versi di Manilio – la quale si interrompe improvvisamente come detto nel libro V, risultando pertanto incompiuta – è interamente percorsa dalla necessità di rinvenire un ordine universale, una ratio cosmica che muove la grande macchina dell’universo e determina la storia umana. Tutto ciò risulta coerente con la sua professione filosofica di stoicismo; la corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo è espressa con grande chiarezza nel Libro V (734-739), dove Manilio paragona l’ordine delicato della natura alla struttura gerarchica della società umana:

«Utque per ingentis populus discribitur urbes, principiumque patres retinent et proximum equester
ordo locum, populumque equiti populoque subire vulgus iners videas et iam sine nomine turbam,
sic etiam magno quaedam res publica mundo est quam natura facit, quae caelo condidit urbem.»
 

[E come è suddiviso il popolo nelle grandi città, ove i senatori occupano il posto più elevato e il più vicino a questo i cavalieri, e tu potresti vedere i cittadini seguire i cavalieri e il volgo senza qualità i cittadini e poi la folla senza nome, così anche nell’universo c’è una forma di stato fatta dalla natura, che ha creato nel cielo una città.]

Concepisce l’universo in chiave stoica ed è quindi impregnato di senso del divino. Il motto di Manilio, il suo mantra, è «ratio omnia vincit» (IV, 932): parallelo e contraltare del famoso «labor omnia vicit improbus et duris urgens in rebus egestas» di Virgilio (Geor. I, 145-146), in un passaggio che esprime compiutamente l’evoluzione socio-politica dall’età di Augusto a quella di Tiberio. Ancora, il motto di Manilio esprime il suo avvertire uno spirito razionale che permea e ordina il cosmo, spirito di cui gli astri sono consapevoli: un senso di predestinazione del tutto con gli astri decidono – già prima che nascano – i destini dei popoli e quindi degli uomini.

Nel proemio del Libro IV (12-16), proprio in nome della conoscenza delle leggi naturali Manilio invita con tono solenne gli esseri umani all’accettazione del destino che è stato assegnato loro:  

«solvite, mortales, animos curasque levate totque supervacuis vitam deplete querellis.
fata regunt orbem, certa stant omnia lege longaque per certos signantur tempora casus. nascentes morimur, finisque ab origine pendet.»

[liberate i vostri animi, o mortali, alleviate gli affanni, svuotate la vita di tanti, inutili lamenti. I fati reggono il mondo, tutto è determinato da leggi precise, e le lunghe età sono segnate da vicende prestabilite. nascendo moriamo e la fine dipende dall’inizio]

Come risulta evidente, questa posizione appare negare la possibilità di un progresso nella storia evolutiva dell’umanità; non solo si rinnova il dubbio se sia possibile per l’uomo poter divinare il futuro, ma anche di poter pensare di incidervi con le proprie azioni (un arcano che accompagna invariabilmente l’umanità nel corso dei millenni) e conseguentemente condizionarne il divenire.

Manilio appare consapevole di ciò: cercando di ovviare a questa criticità con l’esempio del tentare comunque di non commettere una colpa, anche se il destino “era scritto”. Tale argomentazione rimane comunque debole, come evidente: ma esprime uno iato che ritroveremo anche in epoche successive. Già subito anche nel Cristianesimo, il tema della predestinazione, del libero arbitrio e della possibilità o meno da parte degli uomini di condizionare il giudizio di Dio ritornerà appieno in Sant’Agostino, con il famoso dilemma sull’interpretazione della frase «pax hominibus bonae voluntatis»; la «bona voluntas» è quella degli uomini, a dettarne un comportemento virtuoso e che varrà loro la ricompensa eterna? Oppure la volontà divina (sempre come «bona voluntas») rimane imperscrutabile ed inarrivabile, sfuggendo pertanto a qualsiasi tentativo – anche in buona fede – da parte dell’uomo di potervi incidere? In qualunque caso, il messaggio di Manilio rimane di ottimismo: ha fiducia nelle leggi alle quali l’umanità è sottoposta (malgrado possano non essere sempre comprensibili), perché espressione di un’armonia universale. Questa è un’importante differenza con Lucrezio, la cui opera come già discusso è invece pervasa da un senso di morte, di fine cosmica.  

Lucio Apuleio di Madaura (125-170 d.C.), un intellettuale poliedrico e uomo del suo tempo

L’opera di Manilio rapprensenta un compiuto paradigma della crescente rilevanza di elementi di astrologia e magia, unitamente ai nuovi culti (pitagorici prima e misteriosofici poi) che dilagano in Roma al sorgere dell’Impero. È il percorso che dalla crisi della religione ufficiale che rappresentava un «instrumentum regni» (interpretazione proposta da Machiavelli nelle note alla prima Deca di Tito Livio: un esempio classico è Numa Pompilio che si fa consigliare dalla Ninfa Egeria nel legiferare [Tito Livio, I, 19]) porta ad Apuleio di Madaura in letteratura (il «De Magia» da un lato, nonché l’invocazione di Lucio sulla spiaggia agli dei egizi nel finale delle “Metamorfosi”), e poi in ambito più propriamente religioso al culto di Mitra (di cui era seguace anche l’imperatore Costantino il Grande) e quello del ‹‹Sol Invictus››, che ebbe tra i suoi più conosciuti rappresentanti Flavio Claudio Giuliano. Il culto del Sole, precedentemente introdotto dall’Oriente da Aureliano, esprimeva il senso della lotta tra luce e tenebre, tra bene e male ed il suo giorno chiave era il 25 dicembre: non può stupire che questa temperie spirituale sia poi stata mutuata anche dal Cristianesimo, fino all’adozione della medesima data per il Natale.

Astrologia e magia, culti di origine orientale che prendono piede in quest’epoca perché, pur a fronte di un mutato quadro politico con limitazione delle libertà politiche e di espressione, offrono all’individuo la possibilità di una più ampia libertà personale. In analogia con il «patriai tempore iniquo» del secolo precedente – con l’Epicureismo a dominare la tarda età repubblicana – a partire dall’età di Tiberio la filosofia che domina nello scenario culturale è lo Stoicismo: non l’antico stoicismo greco, ma quello mediato ai Romani da Panezio e Posidonio, i filosofi del Circolo degli Scipioni.

Lucio Apuleio di Madaura (125-170 d.C.): medico e alchimista, non meno che poeta, oratore e romanziere; un autore geniale, un intellettuale poliedrico: paradigma della intellighentzia romana di origine provinciale nel II secolo d.C. Brillante avvocato, capace di una efficace autodifesa in tribunale per scagionarsi dalla accusa di essere “mago” (dalla quale fu assolto): dopo la morte di sua moglie, una ricca vedova, era stato denunciato dai figli di lei, che sostenevano l’avesse uccisa – avvelenandola – per potersi appropriare delle sue fortune. Nelle pagine di Apuleio, non vi è dubbio che la sua cultura rifletta pienamente le profonde conoscenze sulla “scienza dei veleni” nella società imperiale del tempo, evolute attraverso i secoli.

Sembra opportuno sottolineare che un embrione di conoscenza tossicologica in Roma datava già dall’epoca di Mitridate VI, Re del Ponto: dai tempi dei conflitti che portano il suo nome, le “Guerre Mitridatiche”. Uno dei più acerrimi nemici di Roma, degno avversario prima di Lucio Cornelio Silla prima e poi di Gneo Pompeo Magno. Aulo Cornelio Celso, enciclopedista latino del I secolo a.C., aveva riportato nel suo trattato «De Medicina» proprio la composizione del «Mithridatium»: un antidoto contro i tentativi di avvelenamento, la cui concezione e applicazione anticipava di secoli – nel suo rationale – la celeberrima intuizione di Teofrastus Bombast von Hohenheim, meglio conosciuto come Paracelso (1493-1541); un’affermazione che rappresenta tuttora una pietra angolare delle discipline bio-mediche: «Omnia venenum sunt: nec sine venenum quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non sit». Nella stessa epoca, a riprova della portata sociale e politica del tema dei veleni nella società romana già nella tarda età repubblicana, proprio Silla nell’anno 81 a.C. dovette promulgare la «Lex Cornelia de sicariis et veneficiis» legge che a buon diritto si può considerare come il primo dettato normativo di tossicologia regolatoria nella storia, e che era ancora alla base della denuncia sporta contro Apuleio e che aveva portato al processo.

Torniamo ad Apuleio, quindi: “mago” come i Re Magi, depositari della conoscenza e sapienza di origine caldaico-babilonese e della Mezzaluna Fertile che Roma aveva potuto acquisire quale conseguenza della conquista militare. La sua Apologia (nota come «De Magia»), un importante discorso redatto secondo le norme della eloquenza giuridica, rappresenta la orazione meglio conservata dell’Età Imperiale della letteratura latina. Ma c’è di più: da un lato, esprime la chiave di volta per un’interpretazione del passaggio tra paganesimo e cristianesimo, nel rapporto tra filosofia e magia; d’altro canto, la magia come scienza: alla fine questa orazione può essere interpretata come una altissima difesa del libero pensiero, nonché dell’aspirazione umana alla conoscenza.

‹‹Fabulam Graecanicam incipimus. Lector intende: laetaberis››

Tutti questi temi rientrano in pieno anche nelle “Metamorfosi”, opera che insieme al «Satyricon» di Tito Petronio Nigro segna l’alba del romanzo nella letteratura occidentale dopo gli incerti esordi delle «fabulae mylesiae» e i più acerbi tentativi di Luciano di Samosata. Apuleio scrive quello che dichiara essere un racconto scritto alla foggia dei Greci («fabulam graecanicam incipimus»), e ne trae un caleidoscopio multicolore in cui proietta gli infiniti riflessi della vita e dell’anima dell’uomo. 

Una lunga serie di situazioni, di quadri che si dipanano nel racconto come nella pellicola di un film, anche se alcuni di essi possono assurgere a dignità di vita autonoma, come la narrazione del famosissimo episodio di Amore e Psiche; l’uso sapiente della “tecnica a intarsio”: una trama sottilissima a fare da filo conduttore, sulla quale si innestano – come interrompendola – non solo vicende diverse, ma anche racconti. Un’opera che si pone su due piani: quello letterario e quello misteriosofico, con l’interrogativo – irrisolto – se del romanzo di Apuleio si possa dare un’interpretazione allegorico-didascalica. 

Geniale, l’espediente del povero Lucio trasformato in asino dall’incantesimo errato di un’ancella ancora inesperta delle magie della sua padrona: quell’asino, che conserva intelletto e capacità cognitiva di uomo, davanti al quale gli uomini non si peritano di nascondere nessuna delle loro caratteristiche ed inclinazioni giacché lo credono un qualunque, semplice quadrupede. Il racconto delle sue sofferenze, in parallelo con la descrizione dei patimenti legati alla condizione servile: il collegamento a un passo famoso di Lucio Anneo Seneca («servi sunt immo homines» – Ep Luc, V, 47), nonché alla famosa parodia che ce ne propone Petronio per bocca di Trimalchione (Satyricon, LXXI): «Amici, inquit, et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit.» [Amici, disse, anche gli schiavi sono uomini e hanno bevuto il nostro stesso latte, solo che poi il destino non gli ha detto bene].  

Il lirismo di quella notte stellata sulla spiaggia in cui il povero animale-uomo, ormai stremato ed accasciato sulla sabbia, implora Iside di riscattarlo dalla sua penosa condizione, in cambio di una promessa a dedicarsi a servire ideali più alti di quanto non avesse fatto in precedenza. Tale tema introduce il rilievo della progressiva diffusione delle religioni alternative di provenienza orientale, ed in particolare dei culti misteriosofici e dei riti orfici, rispetto alla religione tradizionale di Roma antica. Per uno stato come quello romano, dove come già accennato la religione era sempre stata – già dai tempi di Romolo e Numa Pompilio – uno strumento di coesione dell’edificio politico («religio instrumentum regni»), tale disgregazione delle coscienze e del tessuto ideale avrebbe probabilmente condotto in un futuro anche alla corrosione ed al crollo della struttura della società civile e delle sue istituzioni. 

Apuleio si pone pertanto come interprete di un’epoca di passaggio: sociale ed economico, non meno che filosofico e religioso. Il suo essersi accostato ai misteri (evidentemente orientali) lo rende consapevole dell’esigenza di purificazione e di speranza in un riscatto trascendente: la magia della pozione ingannatoria (l’errore della ancella Fotide) nulla ha a che vedere con la magia interpretata come strumento di conoscenza. Secondo l’interpretazione proposta da Concetto Marchesi, essa così come per gli uomini della Nuova Scienza è la madre delle scienze naturali: Apuleio è uno scienziato colmo di religione, che ha capito che la filosofia come ricerca della verità in senso classico non ha più senso; la razionalità non appare essere più sufficiente, c’è un’esigenza di trascendenza. 

Da qui l’importanza per Lucio del sentirsi rinato non solo dalla dimensione asinina (abiezione nella animalità), ma anche dalla sua dimensione umana precedente: a riparare dalla fortuna e dal peccato non valgono né la cultura né la nobiltà di sangue; il discorso conclusivo del sacerdote ha carattere profetico: siamo lontani dalla razionalità, la salvezza è nella trascendenza; il libro si chiude con l’immagine di un’imbarcazione che assicura la salvezza: una visione suggestiva di elementi che saranno tipici anche del Cristianesimo

Si concluderà con“Ammiano Marcellino”


Piano dell’opera

  • Gaio Sallustio e la concordia perduta.
  • Tito Livio e la sacralità della “res publica”.
  • Tacito, analisi politica e passione tragica.
  • Lucrezio, ragione e angoscia.
  • Cicerone, tra otium e negotium.
  • La crisi dell’arte retorica.
  • Alcuni storici minori.
  • Petronio, arguzia ed estetica.
  • “La satira, che è tutta nostra…”
  • Lucano, crasi tra epica e storica.
  • Astrologia, filosofia e magia
  • Ammiano Marcellino, soldato un tempo e greco per educazione

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