di Stefano Basilico

«Noi possiamo mettere in linea 24 navi, di cui sei corazzate; ma anche dietro murate di legno pulsano cuori di ferro»
Wilhelm Tegetthoff, Lettera del 24 giugno 1866 a Emma Lutteroth.
Il 20 luglio 1866, nella battaglia di Lissa, la flotta italiana di Carlo Pellion di Persano si scontra con quella austriaca guidata dal contrammiraglio Wilhelm von Tegetthoff. Tra cannonate e dense nubi di fumo, la corazzata italiana Re d’Italia, resa ingovernabile, viene colpita dalla nave ammiraglia austriaca Ferdinand Max, che, speronandola, la fa affondare insieme a 400 marinai. Questo evento, oltre a segnare l’esito dello scontro, ha generato leggende di coraggio e appartenenza, alcune ridimensionate dalla storiografia. Questo libro ripercorre la battaglia e la sua eco tra mito e memoria, svelando i dettagli storici e strategici di uno scontro che ha segnato l’immaginario collettivo e la storia navale italiana, mettendo in luce l’importanza di addestramento, tattica e innovazione tecnologica in un’epoca di grandi cambiamenti.
Editore: Il Mulino
Pagine: 256
Formato: cartaceo, ePub
Anno di uscita: 2025
La casuale lettura di una segnalazione letteraria, la notizia dell’uscita di un libro – pur priva di recensione – che accende al tempo stesso interesse e curiosità. Forse, andando a riannodare studi più recenti ma contemporaneamente anche ricordi antichi: che datano dell’infanzia, o comunque dell’età scolare. Un’intuizione che si è rivelata fondata.
Ma andiamo con ordine. L’episodio di Lissa, quella giornata del 20 luglio 1866 in Mare Adriatico coperta anche da una coltre di omertà imbarazzata quanto dolorosa, si è conservata nella memoria e percezione collettiva come un quid di irrisolto, i cui contorni risultano sfocati e indistinti. A questa temperie contribuisce per esempio la narrazione che di quella battaglia emerge dalle pagine de “I Malavoglia” di Giovanni Verga: le prime testimonianze di alcuni reduci di ritorno ad Aci Trezza sembrano il racconto come di un mito lontano e dai contorni quasi fiabeschi, quello di uno scontro titanico tra navi corazzate grandi come paesi. Poi, con il passare dei giorni, la percezione di una terribile verità che si fa strada; Luca, uno dei figli – arruolato per il servizio militare obbligatorio – a differenza del fratello ‘Ntoni non farà mai più ritorno: in servizio come marinaio sulla corazzata “Re d’Italia”, è perito nell’affondamento della nave ammiraglia della squadra italiana.



Un episodio, quello di Lissa, che si inserisce nel quadro del breve conflitto noto come “Terza Guerra d’Indipendenza” e che è stato tradizionalmente vissuto con una componente di imbarazzo nella storiografia nazionale italiana. Per il Regno d’Italia, un atipico trattato di alleanza “a termine” (della durata di tre mesi!) nell’estate del 1866 con il Regno di Prussia; un’alleanza tecnicamente vantaggiosa per entrambi, funzionale a dividere l’esercito austriaco sui due fronti settentrionale e meridionale, secondo i rispettivi obiettivi: l’unificazione tedesca per Bismarck e Guglielmo I, l’acquisizione del Veneto per Vittorio Emanuele II. Ma se militarmente per i Prussiani, come ben noto, risultò decisiva la Battaglia di Sadowa (3 luglio – la prima lectio magistralis di Helmuth von Moltke, che qualche anno dopo con il trionfo di Sedan sulle truppe francesi guidate da Patrice Mac Mahon porterà alla fondazione del Secondo Impero Tedesco), l’Italia subì prima una clamorosa sconfitta a Custoza (24 giugno) – dimostrando di non aver appreso nulla dagli errori della precedente campagna del 1848, replicandone il disastro – e poi venne sconfitta anche sul mare, nelle acque di Lissa, in uno scontro che era stato cercato come ultima occasione di riscatto sul campo e per non perdere la faccia a livello internazionale.
Storia e memoria
Il ricordo nitido di una frase in una pagina di sinistra del “sussidiario” (come si usava all’epoca) della classe Quinta Elementare, un’immagine che si è plasticamente conservata nella memoria: “La flotta italiana «mal guidata dall’Ammiraglio Persano»…”: un’affermazione secca, senza reticenze e che non lasciava spazio alla fantasia, sulle prime e principali responsabilità nella sconfitta in quella che era stata la prima battaglia navale combattuta da una squadra del giovane Regno d’Italia. Nella pagina accanto, una grande illustrazione a colori a restituire la drammaticità del momento chiave dello scontro: lo speronamento della nave ammiraglia italiana – comandata da Emilio Faà di Bruno – da parte della omologa austriaca SMS Erzherzog Ferdinand Max, guidata da Wilhelm von Tegetthoff, con conseguente rapido affondamento della unità italiana. Mentre Persano, proprio nell’imminenza della battaglia, si era trasferito dalla medesima corazzata Re d’Italia sul teoricamente più poderoso ariete corazzato a torri Affondatore, rimanendo però di fatto defilato rispetto all’andamento dello scontro.
La “liberazione” del Veneto, tramite i buoni uffici di intermediario di Napoleone III, consentì di mitigare almeno in parte la delusione per il disastroso andamento delle operazioni militari (che pur ebbe pesanti ripercussioni politiche a livello nazionale), mentre l’armistizio di Cormons in data 11 agosto portò alla cessazione definitiva delle ostilità e alla ritirata definitiva delle truppe italiane dal Tirolo, malgrado la precedente brillante vittoria colta dal Corpo dei Volontari di Giuseppe Garibaldi a Bezzecca il 21 luglio, proprio nel giorno successivo allo scontro di Lissa.
Ora questo libro, che si inserisce in una serie di approfondimenti e studi che si sono articolati in tempi diversi: per esempio, con la lettura di brillanti saggi quali Avanti, Savoia! Miti e disfatte che fecero l’Italia (1848-1866) di Gianni Rocca e Generali. Controstoria dei vertici militari che fecero e disfecero l’Italia di Domenico Quirico, nonché con i più specifici e stupendi contributi di Alberto Santoni, noto e apprezzato esperto di storia della guerra navale. Nel libro di Giovanni Da Frè, secondo una tecnica espositiva già apprezzata per esempio con Adua, dello stesso Quirico, oppure in Jutland e La sconfitta di Farsalo di Sergio Valzania, l’episodio centrale rappresenta una sorta di punto d’arrivo di una trattazione più ampia: e che viene da lontano. Qui la Battaglia di Lissa viene proposta in almeno tre distinti piani di lettura.
Il primo è l’assunzione di questo scontro come paradigma delle profonde trasformazioni costruttive e tecnologiche che stavano cambiando radicalmente lo scenario dei conflitti navali: dall’aumentata potenza e precisione delle artiglierie imbarcate alla conseguente necessità di una migliore protezione e corazzatura degli scafi, fino all’introduzione della propulsione a vapore che – pur tra contraddizioni e fasi sperimentali – avrebbe archiviato definitivamente l’epoca millenaria della navigazione velica. Il secondo piano è lo scontro da Impero Austriaco e Regno d’Italia, interpretato quale riflesso della più ampia dialettica diplomatica, politica e militare tra nazioni e imperi – che dopo aver attraversato l’epoca degli assolutismi e delle rivoluzioni borghesi sullo sfondo di due rivoluzioni industriali – si sarebbe ulteriormente dipanata anche nel XX secolo. Il terzo piano è l’analisi della battaglia in quanto tale: quale prodotto dello scontro tra due marine molto diverse tra loro, ma contemporaneamente anche in un loro quasi paradossale trovarsi reciprocamente embricate a livello storico e culturale, in un Mare Adriatico ancora dominato dalla leggenda del Bucintoro ma su cui d’altro canto si allungava l’ombra dolorosa del Trattato di Campoformido, che nel 1797 aveva decretato la fine della Repubblica di Venezia («Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto», come recita il ben noto incipit de “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo).

Dalla Baia di Sinope (1853) a Hampton Roads (1882): dall’ammiraglio Nachimov vincitore sui Turchi in Mar Nero nelle fasi iniziali della guerra di Crimea (in una battaglia che – pur tradizionalmente considerata come l’ultima dell’era velica – vide la presenza nei due schieramenti di alcune unità a vapore, fregate e corvette, oltre che di artiglierie di nuova e migliore concezione rispetto al passato) a quello scontro nelle acque della Virginia che durante la Guerra di Secessione vide per la prima volta due navi corazzate con propulsione a vapore misurarsi l’una contro l’altra. Il libro di Da Frè, molto documentato e preciso ma scritto con stile asciutto e agile (estraneo a qualsiasi pedanteria accademica), rende conto dell’enorme sforzo tecnologico ed economico che a livello planetario, pur con differenze e polemiche anche aspre tra le diverse scuole di pensiero, avrebbe portato la cantieristica navale a rivoluzionare la sua produzione: in un itinerario che avrebbe visto il suo coronamento nella presenza nelle marine mondiali di squadre di incrociatori corazzati e poi di navi corazzate; fino al varo della corazzata monocalibro inglese HMS Dreadnought (nel 1905), un evento che avrebbe rappresentato un’autentica rivoluzione non solo tecnica ma anche dottrinaria: determinando letteralmente un ante e un post nella storia della guerra navale.
Le due marine
Il confronto tra due marine: e delle loro storie, nel condizionare l’andamento e l’esito dello scontro di quel 20 luglio 1866. Da un lato una potenza tradizionalmente “continentale” come l’Impero Austriaco: che all’atto di dover costruire una marina da guerra, aveva progressivamente predisposto una serie di strutture e cantieri in basi nazionali (tra cui spicca la munitissima base di Pola) da cui sarebbe uscita una serie di unità caratterizzate da una sostanziale omogeneità tecnica e/o strutturale. Sullo sfondo di questo sforzo poderoso, accanto a figure di grande spessore della politica e della società austriaca, così come del mondo militare dell’Impero, potrà ben presto ritagliarsi un ruolo di primissimo piano la figura di Wilhelm von Tegetthoff (1827-1871): con le sue intuizioni, la sua a volte ostinata risolutezza e il suo “vedere lontano”, il giovane ufficiale – poi ben presto promosso contrammiraglio – sarà stato l’autentico demiurgo di una flotta da battaglia equilibrata nelle sue diverse componenti e ben addestrata. Questo libro ci offre proprio uno “spaccato” molto profondo della storia e della personalità di Tegetthoff: dalle sue origini sociali e familiari, dall’infanzia e poi fino alla giovinezza ed età adulta; la sua carriera militare, dall’Accademia fino ai più altri gradi di comando e poi alla giornata che ne avrebbe consacrato la leggenda. Anche con la preziosa testimonianza, come “in presa diretta”, del carteggio con la baronessa Emma von Lutteroth, sua “amica” e confidente particolare.


D’altro canto la marina del giovane Regno d’Italia, prodotto di una sorta di “fusione fredda” tra le pre-esistenti marina sarda e quella borbonica: diverse le tradizioni, diversi i comandi, la preparazione e l’addestramento degli equipaggi, addirittura diversi i linguaggi utilizzati (anche nel dare gli ordini); in più, ad accrescere il problema legato alla disomogeneità strutturale, la presenza di unità costruite presso i cantieri di diverse nazioni: un elemento che nella flotta italiana avrebbe acuito le criticità intrinseche del dover sperimentare tecniche e tattiche nuove, legate alla ingravescente presenza di navi a vapore (a ruote e/o a elica) accanto a quelle a vela. Infine, ugualmente disomogenea, e del tutto non coordinata, sarà stata – proprio a Lissa – la condotta degli ammiragli italiani Giovanni Vacca e Giovanni Battista Albini (anche divisi da profonda inimicizia reciproca), in un clima generale non certo favorito dal comportamento erratico e contraddittorio dell’ammiraglio Persano quale comandante supremo della squadra.
Infine, la battaglia: condizionata da un lato (come già detto) dal dover conseguire a qualunque costo almeno un successo militare da far valere sul tavolo di trattative di pace che, dopo Sadowa, erano ormai incombenti; d’altro canto, anche da interpretarsi come una sorta di rivalsa dopo la non brillante figura rimediata solo qualche giorno prima: quando la squadra di Tegetthoff, dopo essere uscita da Pola, aveva disceso l’Adriatico verso Ancona senza di fatto suscitare un’adeguata risposta dalla flotta italiana, che non aveva impegnato le navi avversarie. Anche la decisione di attaccare l’isola di Lissa, ben fortificata dagli Austriaci e difesa da artiglierie, appare frutto di una decisione quasi estemporanea: in una situazione che non permise di fatto di coordinare il bombardamento navale italiano con l’azione delle unità che avrebbero dovuto sbarcare i reparti di fanteria di marina con l’obbiettivo di impadronirsi delle diverse ridotte e strutture difensive, stabilendo così una efficace “testa di ponte” e poi assicurarsi il controllo dell’isola.
A questo punto, pur a fronte di un libro molto interessante e ben scritto, corre l’obbligo di un appunto: la mancanza di cartine e mappe – che in un saggio storico rappresentano normalmente un complemento cruciale al testo – tanto concernenti per esempio la conformazione e le strutture difensive dell’isola, nonché la fase di attacco della flotta italiana, quanto l’andamento della battaglia navale e delle rotte delle due squadre nelle diverse fasi, rappresenta un neo poiché va a inficiare almeno in parte l’efficacia delle relative descrizioni – pur decisamente particolareggiate – proposte dall’Autore.


La battaglia
La battaglia, quindi: un unicum nella storia della guerra navale perché per la prima volta si scontrano due squadre che allineano in massima parte unità a vapore; un qualcosa di inedito, che propone anche situazioni a priori non prevedibili, ma anche elementi legati al caso o non direttamente interpretabili secondo i canoni della ortodossia strategica tradizionale; e non a caso evidentemente Alberto Santoni adotta proprio la Battaglia di Lissa quale episodio che marca l’inizio dell’età contemporanea della politica e storia navale. Una battaglia sostanzialmente “rapida”: quando alle ore 11.25 del mattino lo sperone della SMS Erzherzog Ferdinand Max sfonda la fiancata della corazzata Re d’Italia (immobilizzata da precisi colpi d’artiglieria e con il timone irrimediabilmente danneggiato) provocandone l’affondamento nel giro di pochi minuti, il combattimento era iniziato da poco meno di tre quarti d’ora. A questa tragedia si aggiunge il dramma della più piccola e agile, ma bene armata, cannoniera corazzata Palestro: il suo comandante Alfredo Cappellini andò immediatamente ad impegnare le unità avversarie anche nel tentativo di andare in soccorso della nave ammiraglia.
Tuttavia, l’aver ammassato molto carbone (anche allo scoperto!) nella parte poppiera dell’unità al fine di migliorane l’assetto e aumentarne la velocità (un rimedio empirico frutto dell’inesperienza della navigazione a vapore), risulterà fatale per le sorti della cannoniera; proprio a poppa, dopo essere stata fatta segno a diversi colpi d’artiglieria, si sviluppò a bordo di nave Palestro un furioso incendio che la costrinse dapprima a disimpegnarsi e che successivamente nel pomeriggio (poco prima delle ore 15.00) ne determinò la perdita definitiva.
In questo lasso di tempo, la battaglia navale era proseguita in uno scenario caotico e spesso indecifrabile anche ai suoi stessi protagonisti: ma va detto che, al di là del repentino affondamento del Re d’Italia, la flotta italiana rimaneva comunque superiore a quella avversaria per numero e potenza di fuoco (teorica) delle unità presenti. E anche con la successiva perdita del Palestro, l’affondamento di due unità non consegnava certamente alla flotta austriaca né la vittoria né il dominio dell’Adriatico. A fare la differenza, consegnando alla storia italiana la sconfitta di Lissa, fu da un lato il clima di incertezza e sfiducia nei confronti di Persano – ormai privo di credibilità agli occhi dei suoi sottoposti ma anche degli equipaggi, i cui ordini successivi, anche in parte contraddittori, vennero disattesi – e d’altro canto un comportamento di autentico boicottaggio da parte dei suoi sottordini, il cui comportamento è risultato a posteriori rasentare il tradimento, o un tale sabotaggio ai limiti della cosiddetta “intelligenza con il nemico”. Come ben noto, questa battaglia ebbe poi strascichi politici e militari, arrivandosi infine al processo giudiziario contro lo stesso Persano, per il suo comportamento come comandante di squadra.

L’eredità di Lissa
Lissa: un episodio che, pur sopravvalutato, ha lasciato una cicatrice profonda: nella storia, oltre che nell’immaginario e nella memoria collettiva del nostro paese. Malgrado l’Italia, per sua conformazione geografica, si configuri come una nazione con un “destino marinaro” non solo dal punto vista economico ma anche da quello militare, dopo Lissa la sua storia non ha per molto tempo riproposto alcuna occasione di altre battaglie navali. Nella Prima Guerra Mondiale, il confronto con la Marina Austro-Ungarica era infatti stato sostanzialmente caratterizzato da audaci azioni da parte del cosiddetto “naviglio sottile” (dall’affondamento delle corazzate SMS Wien e SMS Szent István da parte Luigi Rizzo rispettivamente a Trieste e Premuda alla “Beffa di Buccari” di Gabriele D’Annunzio nel Golfo del Quarnaro, e fino all’affondamento della SMS Viribus Unitis da parte di Rossetti e Paolucci nella base di Pola proprio nelle fasi conclusive del conflitto), senza scontri tra le “unità maggiori”.
A distanza ormai di decenni, un nuovo scontro navale in senso “classico” che avrebbe visto protagonista la Regia Marina Italiana, opposta alla Royal Navy, sarebbe avvenuto nelle acque di Punta Stilo (9 luglio 1940). Al di là delle ben note problematiche relative alla mancanza di navi portaerei nella flotta italiana, quale conseguenza di scelte strategiche che avevano invece privilegiato la costruzione di incrociatori pesanti e navi di battaglia, oltre che il grande potenziamento dell’arma subacquea, l’analisi dell’andamento dello scontro avvenuto nelle acque della Calabria suggerisce che una sorta di “sindrome di Lissa” possa aver condizionato la condotta dell’ammiraglio Inigo Campioni. Un ufficiale a priori competente e stimato, che non ha esitato ad affrontare con coraggio e determinazione le navi della Mediterranean Fleet inglese guidata da Andrew Cunningham, in quella che è stata una classica “battaglia d’incontro” dopo che le due squadre avevano assolto ai rispettivi compiti di scorta a convogli di mercantili.
Anche in questo caso, una battaglia sostanzialmente “veloce”: alle ore 15.08 del 9 luglio sull’incrociatore HMS Neptune sale il segnale «Flotta da battaglia nemica in vista» (come annota acutamente Gianni Rocca, “Era dai tempi di Nelson che non veniva più usato in Mediterraneo”). Dopo gli iniziali scambi d’artiglieria, da parte dei gruppi di incrociatori, è la volta delle corazzate: lasciamo ancora una volta la parola a Gianni Rocca (in: “Fucilate gli ammiragli” – Milano, 1987. pp. 35-37):
“Alle 15.59 la svolta del combattimento. Un proietto da «381» inglese colpisce il fumaiolo poppiero del Cesare, perfora il ponte e scoppia in una casamatta sottostante, a non più di venti metri dalla plancia comando, dove Campioni, il suo stato maggiore e il comandante della nave, capitano di vascello Angelo Varoli Piazza, con i cannocchiali incollati agli occhi, seguono l’esito della battaglia. Il tiro fortunato provoca un principio d’incendio, le esalazioni di fumo e gas sono portate dai turboventilatori nei locali di quattro caldaie della nave, che devono essere spente. Tutt’attorno al punto dello scoppio corpi di marinai straziati. Il colpo è stato visto da Cunningham a bordo del Warspite: «Una grande fiammata color arancione… Subito dopo l’esplosione si levò una nube di fumo e compresi che quell’unità era stata seriamente colpita alla prodigiosa distanza di 13 miglia». Il Cesare alla massima velocità consentita, 18 nodi, si allontana, pur continuando a sparare con i cannoni di poppa. Il Cavour e i sei incrociatori pesanti di Paladini restano sul luogo del combattimento. Ma ormai bisogna proteggere il Cesare. Vengono mandati all’attacco del nemico i nostri Ct, che intanto emettono cortine di fumo: lanceranno i loro siluri da una distanza fra gli 8 e gli 11.000 metri. La manovra serve a dar respiro ma non produce frutti. Gli inglesi giudicano l’attacco «non sufficientemente deciso». Poi a quella distanza è impossibile ottenere risultati coi siluri. Alle 16.04 il Warspite cessa il fuoco. Le cortine di nebbia artificiale sottraggono le navi italiane alla vista. E malgrado Cunningham abbia in cielo un osservatore aereo – per la guida del tiro – non potrà più riprendere il fuoco. La rotta italiana è di chiaro disimpegno. La parola è forte, ma stiamo fuggendo. Come disse più tardi Cunningham: «Il colpo da 381… produsse un effetto morale del tutto sproporzionato ai danni». Campioni indubbiamente sopravvalutò la portata della botta che aveva ricevuto. In effetti, per lui, il combattimento di Punta Stilo terminò alle 15.59. […] Che ci sia confusione nella mente del nostro comandante in mare è confermato dal fatto che solo alle 16.30 informa Supermarina di quanto è accaduto: «Ripiego su Stretto [di Messina] alt. Inviare Armera [sigla della nostra Aeronautica] su nemico che ho di poppa alt». Testo tacitiano, senza dubbio, ma sprovvisto dei dati fondamentali: posizione, rotta, velocità proprie e del nemico. Tra l’altro Campioni nemmeno informa che la sua ammiraglia è stata colpita.”
“Ma ormai bisogna proteggere il Cesare”. Un passaggio che inevitabilmente, e non da oggi, suggerisce una riflessione che rimanda a quel 20 luglio 1866: perché a determinare il rapido disimpegno della squadra italiana dal teatro dello scontro (quasi una fuga) sembra essere proprio la psicosi della perdita della nave ammiraglia; la “sindrome di Lissa”: pur a distanza di decenni, l’ombra lunga della tragedia del Re d’Italia potrebbe essersi allungata sulle acque di Punta Stilo… Una suggestione che appare trovare conferma dalla lettura del libro di Giuliano Da Frè: decisamente raccomandato!
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