La parola e il potere (5): Cicerone, «otium» e «negotium»

Storia politica e storia letteraria di Roma


Il contributo che presentiamo oggi – quinto di una lunga serie firmata da Stefano Basilico – continua il nostro percorso dedicato al rapporto, nel mondo romano, tra letteratura, potere e cultura. Non si tratterà soltanto di osservare come gli intellettuali abbiano dialogato con l’autorità politica, ma anche di cogliere come ogni autore abbia elaborato idee capaci di lasciare un segno profondo, che ancora oggi continua a parlarci.

Questa pagina accoglie dunque un lavoro che unisce chiarezza e profondità, in cui rigore critico e sensibilità divulgativa si intrecciano con naturalezza. Da Sallustio a Livio, da Tacito a Virgilio, fino a Cicerone e Lucano, incontreremo alcuni dei grandi protagonisti della classicità latina, scoprendo come le loro opere abbiano posto domande che ancora oggi ci riguardano da vicino: dal cesarismo alle trasformazioni della sovranità, dal ruolo degli intellettuali alla costruzione della memoria collettiva.

Senza la pretesa di esaurire un tema tanto vasto, gli articoli offriranno un itinerario ampio e suggestivo, pubblicato a puntate nelle prossime settimane e destinato ad accompagnarci fino all’autunno inoltrato: un invito alla lettura e alla riflessione, capace di far risuonare voci antiche in chiave sorprendentemente attuale.

Piano dell’opera


5. Marco Tullio Cicerone

In conclusione, per Lucrezio sembrano potersi applicare le considerazioni espresse da Machiavelli nella già citata Lettera da San Casciano: un essere umano capace di parlare ai suoi simili – nelle varie epoche – come se fossero sui contemporanei; un dialogo muto, dove il poeta risponde alle nostre domande e inquietudini in nome di una comune condizione umana. Un poeta di grandezza incommensurabile, che decide di condividere le sue emozioni: una concezione didascalica dell’arte, e tuttavia capace di non annichilirla; il suo giustificato orgoglio di poeta, una capacità creativa che è un’inarrivabile, sapiente miscela di arcaismi di ricerca linguistica e di perfezione stilistica di stampo alessandrino: ancora una volta, quella perfezione talmente compiuta da far dimenticare se stessa, da sembrare frutto di improvvisazione o di estemporanea intuizione, piuttosto che del fine cesello del «labor limae».

Contemporaneo del poeta, Marco Tullio Cicerone ne revisionò i libri per la pubblicazione (postuma) dell’opera: per primo intuì che essa sarebbe stato un formidabile veicolo per la diffusione di una filosofia “di importazione” dal mondo greco, proprio grazie al mezzo artistico, affermando inoltre che essa era la sintesi tra ingegno umano e labor limae. Pur da “avversario”, osteggiando generalmente il medesimo labor limae visto come vuoto formalismo, Cicerone in questo caso rende omaggio all’arte vera di Lucrezio, alla straordinaria creatività del poeta: che la accuratezza stilistica può solo impreziosire ma non certo creare. “Avversari”, certo…  Cicerone è figura apparentemente molto distante, se non antitetica, rispetto a Lucrezio: in realtà, ad accomunare i due grandi intellettuali e letterati di Roma vi è una profonda affinità umanistica. Il Somnium Scipionis può essere considerato il paradigma di questa saldatura con il De rerum: quell’immagine comune della terra in gran parte inospitale; un microcosmo piccolissimo, perso nella infinità dei mondi, solo in alcune zone abitato – e abitabile – dall’uomo: zone ubicate nelle fasce temperate (rispettivamente boreale e australe) che non sono in comunicazione tra loro…  

Tra “otium” e “negotium”

Marco Tullio Cicerone, un personaggio che non necessita di presentazioni: ‹‹consul››, ‹‹orator››, ‹‹Pater Patriae››; notissima figura di politico e letterato, nonché uno dei principali attori della tratta finale della fase repubblicana della Città Eterna, la cosiddetta “Età di Cesare”.

Uomo di immensa cultura, non ebbe dubbi o titubanze di fronte a un compito che appariva come di ardua complessità: qualcosa di completamente nuovo, parlare e scrivere di filosofia (tema che fino ad allora era rimasto estraneo alla lingua di Roma). Molto evidente il parallelo con Lucrezio, al di là del fatto che uno abbia scritto in versi e l’altro in prosa, il che – come detto – è alla base del fatto che Cicerone ha personalmente curato l’edizione del ‹‹De rerum natura››, malgrado non fosse seguace della filosofia epicurea.

Cicerone è forse il miglior paradigma delle due facce della cultura latina, nonché addirittura della stessa concezione della vita in Roma antica: ‹‹negotium›› e ‹‹otium››. La prima parola riflette il concetto di impegno politico, del contributo attivo del cittadino alla vita, difesa e crescita dello Stato: come soldato, come oratore, come “uomo pubblico”; un concetto in cui è chiarissima l’eco di quanto scritto da Aristotele nella Politica (Τά πολιτικά): opera nella quale il filosofo stagirita aveva definito l’uomo quale “animale politico” (πολιτικὸν ζῷον), portato per natura a unirsi ai propri simili per formare delle comunità (I, 2, 1253a). Il secondo vocabolo è l’espressione di un’attività intellettuale profonda, di studio e scrittura: la cultura, le leggi, la storia, tutto…

In Cicerone, questi due aspetti convissero sempre, come le due facce di una stessa moneta, fino al termine della sua vita; al contrario, come già discusso, di quella che fu l’esperienza di Sallustio: che iniziò programmaticamente a scrivere di storia dopo l’abbandono della vita politica attiva, ma nella convinzione che questa attività fosse ancora un modo di servire lealmente la Patria.

Cicerone, uomo di lettere: De officiis, De senectute, De natura deorum, De divinatione, Tusculanae Disputationes; la sua esortazione agli studi filosofici nell’opera «Hortensius»: che sarebbe perduta, se non ci fosse pervenuta grazie alla trascrizione testuale in opere di Sant’Agostino. Cicerone, ‹‹orator››: nell’ambito di una produzione molto ampia, le sue orazioni più famose sono quelle pronunciate in Senato contro Lucio Sergio Catilina nell’anno 63 a.C.; conosciutissimo, in particolare, l’‹‹incipit›› della Prima Catilinaria (8 novembre):

Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?››

[Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?]

Tuttavia, la vetta dell’arte oratoria di Marco Tullio Cicerone è precedente: in concreto, le ‹‹Orationes in Verrem›› (contro Caio Verre, meglio conosciute come “Verrine”) dell’anno 70 a.C., pronunciate nell’ambito di un processo per corruzione. Le sue ultime orazioni, le “Filippiche” dell’anno 44 a.C. (così chiamate richiamando le analoghe di Demostene, famosissime) segneranno il suo destino: troverà la morte, per mano dei sicari di Marco Antonio, il giorno 7 dicembre del seguente anno 43 a.C.

Ma c’è un lato della personalità, nonché postura intellettuale, di Cicerone forse meno conosciuto, però di straordinaria modernità. Uomo profondo, protagonista di un’epoca di crisi e rivoluzioni politiche e sociali, nell’ultima parte del Tomo VI del ‹‹De re publica›› (opera scritta tra il 55 e il 51 a.C.) riflette sull’essere umano, sulla vita rispetto al senso del tempo e dello spazio: sul sentirsi parte di una evoluzione più che millenaria; in più, malgrado il suo instancabile impegno civile, la sensazione nitidissima della nostra piccolezza – e relatività – rispetto alla “infinità dei mondi” e all’“infinito cosmico”.  

‹‹Somnium Scipionis››, l’uomo e l’infinità dei mondi

Nel famoso episodio del ‹‹Somnium Scipionis›› (il “Sogno di Scipione”), si avverte chiarassimo il senso di questa sofferenza umana; Scipione l’Africano appare in sogno a suo nipote Scipione l’Emiliano e iniziano un percorso tra le sfere celesti, i pianeti e le stelle; l’origine della musica, l’armonia universale che regola il cosmo; la vita, dopo la morte. Inoltre, il tormento del giovane generale (a cui viene anche profetizzata la vittoria dopo l’interminabile assedio di Numanzia, nel 133 a.C., a conclusione delle Guerre Celtibere), in bilico tra l’orgoglio per quello che si sta costruendo e la sensazione di tutti i nostri limiti: il che non impedisce, come ovvio, che l’essere umano continui a seguire nobili aspirazioni, in nome di una elevazione spirituale che risulta a maggior ragione coerente con quella stessa armonia universale (VI, 16).

‹‹Ex quo omnia mihi contemplanti praeclara cetera et mirabilia uidebantur. Erant autem eae stellae quas numquam ex hoc loco uidimus, et eae magnitudines omnium quas esse numquam suspicati sumus, ex quibus erat ea mínima quae ultima a caelo, citima terris luce lucebat aliena. Stellarum autem globi terrae magnitudinem facile vincebant. lam vero ipsa terra ita mihi parua visa est, ut me imperii nostri quo quasi punctum eius attingimus paeniteret.››

[Da qui, a me che contemplavo l’universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C’erano, tra l’altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l’astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo.]

[….]

VI, 20 ‹‹Haec ego admirans, referebam tamen oculos ad terram identidem. Tum Africanus: “Sentio” inquit “te sedem etiam nunc hominum ac domum contemplari; quae si tibi parva ut est ita videtur, haec caelestia semper spectato, illa humana conteronito. Tu enim quam celebritatem sermonis hominum aut quam expetendam consequi gloriam potes? Vides habitari in terra raris et angustis in locis, et in ipsis quasi maculis ubi habitatur vastas solitudines interiectas, eosque qui incolunt terram non modo interruptos ita esse ut nihil ínter ipsos ab aliis ad alios manare possit, sed partim obliquos, partim transversos, partim etiam adversos stare uobis. A quibus expectare gloriam certe nullam potestis.››

[Io, pur osservando stupito tali meraviglie, volgevo tuttavia a più riprese gli occhi verso la terra. Allora l’Africano disse: «Mi accorgo che contempli ancora la sede e la dimora degli uomini; ma se davvero ti sembra così piccola, quale in effetti è, non smettere mai di tenere il tuo sguardo fisso sul mondo celeste e non dar conto alle vicende umane. Tu, infatti, quale celebrità puoi mai raggiungere nei discorsi della gente, quale gloria che valga la pena di essere ricercata? Vedi che sulla terra si abita in zone sparse e ristrette e che questa sorta di macchie in cui si risiede è inframmezzata da enormi deserti; inoltre, gli abitanti della terra non solo sono separati al punto che, tra di loro, nulla può diffondersi dagli uni agli altri, ma alcuni sono disposti, rispetto a voi, in senso obliquo, altri trasversalmente, altri ancora si trovano addirittura agli antipodi. Da essi, gloria non potete di certo attendervene.»]

VI, 21-22: [Nota, inoltre, che la terra è in un certo senso incoronata e avvolta da fasce: due di esse, diametralmente opposte e appoggiate, sui rispettivi lati, ai vertici stessi del cielo, s’irrigidiscono per la brina, mentre la fascia centrale, laggiù, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. Al suo interno, due sono le zone abitabili: la regione australe, là, nella quale gli abitanti lasciano impronte opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la vostra razza; quanto a quest’altra, invece, che abitate voi, esposta ad aquilone, guarda come vi tocchi solo in misura minima. Nel suo complesso, infatti, la terra che è da voi abitata, stretta ai vertici, più larga ai lati, è, come dire, una piccola isola circondata da quel mare che sulla terra chiamate Atlantico, Mare Magno, Oceano, ma che, a dispetto del nome altisonante, vedi bene quanto sia minuscolo. Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute il nome tuo o di qualcun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso, che scorgi qui, oppure oltrepassare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo nome nelle restanti, remote regioni dell’oriente e dell’occidente oppure a settentrione o a meridione? Se le escludi, ti accorgi senz’altro di quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra gloria vuole espandersi. E la gente che parla di noi, fino a quando ne parlerà?]

Il testo in latino

VI, 21-22 ‹‹Cernís autem eandem terram quasi quibusdam redimitam et circumdatam cingulis, e quibus duos maxime inter se diversos et caeli verticibus ipsis ex utraque parte subnixos obriguisse pruina vides, medium autem illum et maximum solis ardore torreri. Duo sunt habitabiles, quorum australis ille, in quo qui insistunt adversa vobis urgent vestigia, nihil ad vestrum genus; hic autem alter subiectus aquiloni quem incolitis cerne quam tenui vos parte contingat. Omnis enim terra quae colitur a uobis, angustata uerticibus, lateribus latior, parua quaedam ínsula est circumfusa illo mari quod Atlanticum, quod magnum, quem Oceanum appellatis in terris, qui tamen tanto nomine quam sit parvus uides. Ex his ipsis cultis notisque terris num aut tuum aut cuiusquam nostrum nomen vel Caucasum hunc quem cernís transcendere potuit vel illum Gangen tranatare? Quis in reliquis orientis aut obeuntis solis ultimis aut aquilonis austriue partibus tuum nomen audiet? Quibus amputatis cernís profecto quantis in angustiis vestra se gloria dilatari uelit. Ipsi autem qui de nobis loquuntur, quam loquentur diu?››

Un altro viaggio, attraverso i secoli. Forse non a caso, anche questo testo rimanda potentemente a Giacomo Leopardi: “Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio che n’andò per la terra e l’oceano?” (“La sera del dì di festa”, vv. 33-37). La lettura del ‹‹Somnium Scipionis›› ci propone quindi un Marco Tullio Cicerone abbastanza lontano dal suo ritratto e dimensione più tradizionali: quelli dell’avvocato di successo, implacabile Principe del Foro e maestro dell’arte della parola; o quelli dell’oratore pienamente partecipe della lotta politica del I secolo a.C., sullo sfondo delle guerre civili. “Questo” Cicerone parla agli uomini di tutte le epoche: in nome di una comune condizione umana che ci rende tutti diacronicamente contemporanei.

Prosegue con “La crisi dell’arte retorica”


Piano dell’opera

Lascia un commento

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑