“Il paradiso e l’inferno degli imperialisti” di Mario Lentano

Alla metà del I secolo a.C. il poeta Lucrezio e l’oratore e uomo politico Cicerone, in­trecciarono una polemica di profonda va­lenza filosofica e politica. Oggetto del con­tendere, due visioni inconciliabili dell’aldilà: per l’uno si tratta di mito da de­molire, che nasce dalla proiezione di an­gosce e sogni legati alla condizione umana, per l’altro dell’eternità beata che attende chi si impegna al servizio dello Stato. Ma le pa­gine in cui quei due grandi difesero le loro tesi non sono soltanto fra le più alte della lettera­tura latina: influenzarono generazioni di poeti e pensatori successivi, che rispetto ad esse sentirono il bisogno di prendere posizione. In par­ti­co­lare, suscitò scandalo ancora per secoli la negazione lucreziana dell’aldilà che, pur di­venendo bersaglio di pesanti censure, non riuscì ad impedire la fortuna del suo poema.

Pagine: 136
Editore: Liberlibri
Formato: Cartaceo
Data di uscita: 2015


Le conquiste del II secolo a.C. portarono la civiltà romana ad una estensione territoriale senza precedenti. L’afflusso di ricchezze materiali e “culturali” obbligò Roma a non poter più rimandare il confronto con la cultura greca, la quale era portatrice di un livello di complessità culturale e sociale fino ad allora sconosciuto dacché essa aveva – mi si consenta la metafora – già superato il vertice del proprio fecondissimo arco di parabola vitale. I modelli filosofici che dalla Grecia (e Magna Grecia) si diffusero a Roma erano già maturi, dunque, e difatti presso i romani trovarono grande diffusione le due massime scuole filosofiche del mondo ellenico: lo stoicismo e l’epicureismo, portatrici però di una visione del mondo diversa, anzi opposta.

Il primo ben si adattava (e si adattò, in epoca imperiale) alla preesistente “cultura civile” romana. L’altro, invece, negava il ruolo agli dèi nella realtà immanente, vanificava il concetto di servire la patria inneggiando alla “vita nascosta” e persino l’esistenza di un mondo dell’aldilà.

Nel II secolo a.C. queste filosofie giunsero a Roma e furono tutte, dapprima, osteggiate. Nel secolo seguente, epoca di crisi civile e confusione morale, la forza di questi nuovi “modi di pensiero” non poté più essere ignorata: il I secolo a.c., dunque, è anche l’età del dibattitto, interno alla élite romana, sull’opportunità di “adottare” l’una o l’altra filosofia alla luce della incipiente e percepita “crisi” del mondo romano, ricordando che la maggior parte dei romani attribuì sempre il declino della repubblica a ragioni anzitutto morali, più che economiche o sociali.

Due protagonisti di questo dibattito sono due tra i massimi letterati dell’antichità, Tito Lucrezio Caro e Marco Tullio Cicerone, le cui posizioni e le cui parole rivivono tra le pagine di questo libriccino di Mario Lentano.

È difficile immaginare due uomini più diversi fra loro. Quasi coetanei, entrambi vissuti nel secolo di sangue che vede l’agonia terminale della repubblica romana e avvia la sua irreversibile trasformazione nel governo di uno solo. Eppure lontanissimi per scelte di vita, opzioni intellettuali, esposizione pubblica. Di uno dei due conosciamo praticamente tutto, persino i suoi tormenti più intimi, le angosce ele irresolutezze, le piccole e grandi vanità, grazie a un epistolario monumentale che ci consente talora di seguire giorno per giorno le giravolte di un’anima e di un pensiero; l’altro agì in omaggio a uno dei principî chiave della dottrina filosofica alla quale aveva scelto di consacrare la sua vita e la sua opera: “vivi nascosto”. Questi due uomini sono Cicerone e Lucrezio.

L’autore coglie dunque il momento in cui, nella Roma di metà I secolo a.C., la tensione tra visioni materialistiche e spirituali dell’aldilà diventa emblematica di una più ampia riflessione culturale e morale, oltre che di una “lotta” intellettuale per definire il modello di società in cui si andrà a vivere. Il momento storico è quanto mai incalzante: siamo negli anni ’50 del secolo, ovvero il decennio del primo triumvirato. Cesare è in Gallia e la quiete prima dello scoppio della nuova guerra civile (nel 49 a.C.) è solo apparente, tanto più che le bande dei diversi protagonisti insaguinano la capitale.

Una pagina del codice Vat. Lat. 5757, contenente copia di parte perduto De re publica di Cicerone; sopra, la trascrizione di un commento religioso di Sant’Agostino. Il ritrovamento da parte di Angelo Mai avvenne nel 1818.

Il paradiso celeste degli imperialisti: Cicerone

Cicerone, dopo la glora del proprio consolato (63 a.C.) e la repentina caduta in esilio (58-57 a.C.), è tornato, ma è anche amareggiato e disilluso. Proprio in questo momento egli si dedica alla letteratura scrivendo dialoghi filosofici, trattati politici, orazioni.

“Con Cicerone ha luogo un gigantesco travaso di sapere filosofico, in particolare nei campi della teologia, dell’etica e, ancora una volta, della teoria politica… Cicerone comprese che il rinnovamento del ceto dirigente repubblicano passava anche per l’acquisizione di un solido bagaglio culturale: il modello del Romano incolto ma dotato di istintiva saggezza politica e innata virtù militare poteva ancora sedurre qualche passatista, ma non riusciva più a nascondere il suo angusto provincialismo; la scommessa era quella di dimostrare che si poteva e si doveva governare l’impero senza nulla perdere del proprio ruolo egemone ma anche senza rinunciare alle profondità del pensiero astratto e al piacere intellettuale della conoscenza un ideale del quale probabilmente lo stesso Cicerone era persuaso di essere l’antesignano e insieme il più compiuto esponente.

Cicerone era conservatore ma realista e consapevole della necessità di rinnovare la politica romana. Queste sono le mosse da cui prende spunto il De re publica: un dialogo tra uomini politici romani della generazione precedente quella di Cicerone, che ragiona e disquisice sulla storia costituzionale romana e su quale siano i provvedimenti attuali da prendere. Fra essi spicca ovviamente Scipione Emiliano, nipote adottivo di Scipione Africano e figura di spicco a Roma alla metà del II secolo a.C. in quanto conquistatore di Cartagine e Numanzia. La parte più celeberrima del De re publica è il famoso “sogno” in cui l’Emiliano racconta di aver visto in sogno e parlato con il nonno, l’Africano.

E io, non appena riuscii a trattenere le lacrime e potei riprendere a parlare: «Ti prego», dissi, «padre mio santissimo e ottimo: se questa è la vera vita, a quanto sento dire dall’Africano, come mai indugio sulla terra? Perché non mi affretto a raggiungervi qui?». «No», rispose. «Se non ti avrà liberato dal carcere del corpo quel dio cui appartiene tutto lo spazio celeste che vedi, non può accadere che per te sia praticabile l’accesso a questo luogo. Gli uomini sono stati infatti generati col seguente impegno, di custodire quella sfera là, chiamata terra, che tu scorgi al centro di questo spazio celeste; a loro viene fornita l’anima dai fuochi sempiterni cui voi date nome di costellazioni e stelle, quei globi sferici che, animati da menti divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con velocità sorprendente. Anche tu, dunque, Publio, come tutti gli uomini pii, devi tenere l’anima sotto la sorveglianza del corpo, né sei tenuto a migrare dalla vita degli uomini senza il consenso del dio da cui l’avete ricevuta, perché non sembri che intendiate esimervi dal compito umano assegnato dalla divinità.

Ma allo stesso modo, Scipione, sull’esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» – si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante -, «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea». Da qui, a me che contemplavo l’universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C’erano, tra l’altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l’astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo.

L’intento di Cicerone, nello scrivere tutto questo, è evidente: creare un sistema morale-religiosi in cui inserire l’azione e le aspirazioni dei governanti, allontanandoli dalle sirene “materialiste-atomistiche” e difatto “atee” di Epicuro e dei suoi seguaci. La diffusione dell’epicureismo, insomma, era vista come una minaccia alla preservazione dell’ordinamento civico e religioso romano.

La chiusa d’analisi da parte dell’autore è quantomai acuta.

“Poche volte nella storia capita che una classe dirigente non solo abbia rivendicato la sua funzione di gruppo sociale dominante, ma abbia anche cucito su se stessa e a sua propria misura un destino ultraterreno che proietta e prolunga il suo privilegio su scala cosmica per tutta l’eternità.

Caronte, illustrazione di Gustave Doré. Lucrezio è esplicito: l’al di là non esiste e tuttò ciò che vi si racconta è una fola.

L’inferno in terra degli imperialisti: Lucrezio

Negli stessi anni ’50 in cui Cicerone tenta di fondare un nuovo “pensiero politico” per la repubblica morente, Tito Lucrezio Caro, poeta, filosofico e presumibilmente di origine illustre si dedica ad un compito che, sulla carta, appare persino più alto: tradurre in lingua latina, cioé portare presso i propri compatrioti, il pensiero di Epicuro, filosofo greco di un paio di secoli prima. L’intento non è semplicemente didascalico: Lucrezio ritiene che il “farmaco”, cioè le idee di Epicuro, siano in grado di liberare l’uomo dalla superstizione della religione, dall’ansia del vivere, dagli affanni della vita civile e impegnata e illustrino all’uomo la via vera verso la felicità qui su questa terra. Fondamenti del pensiero epicureo sono:

  • sensismo: i sensi umani sono pienamente affidabili e tutto ciò esiste è “sensibile”, cioè dai sensi conoscibile;
  • atomismo: la realtà è costituita solamente ed esclusivamente di atomi, costituenti primi della materia;
  • mortalità dell’anima: che implica l’assenza di un al di là:
  • ateismo di fatto: gli dèi esistono ma non intervengono nelle vicende umane.

Già da questi cenni si comprende come l’epicureismo non sia per niente conciliabile con il pensiero tradizionale romano: quale pietas in assenza di déi? quale impegno civile se ogni onore del mondo è vano? Lucrezio riprende molto delle originali fonti greche (che a noi non sono giunte) ma in alcuni passaggi aggiunge oppure adatta il testo alla realtà romana. Lo fa nel terzo libro, dove nega l’al di là e tutte le storie e i miti legate al mondo ultraterreno, e soprattutto nel quinto, che contiene una sorta di “storia del genere umano”, in cui Lucrezio condanna esplicitamente l’ambizione degli uomini i quali, come se fossero allucinati, inseguono un vano sogno di potere, nonostante infine siano tutti condannati alla morte e all’oblio.

E quello che si tramanda a proposito dell’abisso
di Acheronte, tutto accade invece nelle nostre vite.
Non è vero, come si racconta, che l’infelice Tantalo teme un grande masso
che incombe su di lui nell’aria, paralizzato da un vano terrore:
piuttosto è nella vita che una inconsistente paura degli dei incalza
i mortali e li spinge a temere i rovesci che la sorte può riserbare a chiunque…

…tutto questo [i miti dell’aldilà] non è da nessuna parte né in assoluto può esistere.
Ma è la paura che in vita abbiamo delle punizioni per il male commesso
– gravi per le colpe gravi – e l’espiazione del delitto,
il carcere e l’orribile lancio giù dalla rupe,
le frustate, i carnefici, il cavalletto, la pece, le lamine, le torce;
anche se queste cose sono lontane, la mente, cosciente delle colpe commesse,
se le figura terro-rizzata, e così si procura tormenti e brucia per le sferzate,
e intanto non intravede quale possa essere il limite
dei mali e quale il termine ultimo delle pene
e anzi teme che queste ultime nella morte si aggravino ancora.
Insomma, è qui sulla Terra che la vita degli stolti diventa un inferno.

Libro III, De rerum natura, traduzione di Lentano contenuta nel libro

In altro punto dell’opera Lucrezio irride in modo franco uno dei fondamenti della “religione civile” romana, cioè la lotta politica, descrivendo questa come una sorta di allucinazione che coglie gli uomini, incapaci di trovare una pace interiore che sarebbe pure a portata di mano.

Questi passaggi dell’opera di Lucrezio (e l’analisi che ne fa Lentano) sono pregnanti di sentimento, ovvero è possibile avvertire l’ansia dell’autore, se così possiamo dire, di avvertire i suoi simili della loro insensatezza e, al tempo stesso, offrire loro un farmaco, cioè l’insegnamento di Epicuro.

Lentano, poi, non si limita ad analizzare il “dibattitto” tra Cicerone e Lucrezio, ma in un capitolo successivo va anche alla ricerca di alcuni possibili riferimenti a Lucrezio contenuti in autori di età augustea come Virgilio e Ovidio; un cenno viene fatto anche alla (s)fortuna di Lucrezio nei secoli successivi, quando il trionfo del cristianesimo condannò il poeta romano.

Conclusione

Il libro è consigliatissimo, perché è breve, si trova facilmente nell’usato e contiene un’analisi dettagliata dell’argomento. È consigliato ovviamente aver letto – o almeno conoscere bene – Cicerone, Lucrezio e le loro opere. Soltanto due cose mi hanno insoddisfatto: la consueta verbosità dell’autore, che ha volte fa degli incisi didascalici ridondanti, quasi da libro divulgativo; e l’uso del termine “imperialista”, che appare nel titolo. Lentano introduce il termine nel capitolo su De re publica di Cicerone e, secondo me, sbaglia. Comprendo che la società romana, rispetto ai nostri standard, fosse intrinsecamente “imperialista”; tuttavia considerando il momento storico della metà del I secolo a.C. preoccupazione di Cicerone (così come premura di Lucrezio) era evitare la guerra civile, più che incitare a nuove conquiste tramita la promessa di un “paradiso”. Il protagonista del suo dialogo, Scipione l’Emiliano, era da tutti elogiato per non aver tentato di prendere il potere, cioé aveva rispettato le istituzioni della repubblica, al contrario dei condottieri che vennero dopo di lui (Mario, Silla, Cesare, Pompeo ecc.)

Questi miei appunti finali, comunque, non devono scoraggiare dal recupero di questo libro come da quello delle due opere di riferimento, entrambi capolavori del proprio genere e della propria epoca.


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