Il contributo che presentiamo oggi – primo di una lunga serie firmata da Stefano Basilico – apre un percorso dedicato al rapporto, nel mondo romano, tra letteratura, potere e cultura. Non si tratterà soltanto di osservare come gli intellettuali abbiano dialogato con l’autorità politica, ma anche di cogliere come ogni autore abbia elaborato idee capaci di lasciare un segno profondo, che ancora oggi continua a parlarci.
Questa pagina accoglie dunque un lavoro che unisce chiarezza e profondità, in cui rigore critico e sensibilità divulgativa si intrecciano con naturalezza. Da Sallustio a Livio, da Tacito a Virgilio, fino a Cicerone e Lucano, incontreremo alcuni dei grandi protagonisti della classicità latina, scoprendo come le loro opere abbiano posto domande che ancora oggi ci riguardano da vicino: dal cesarismo alle trasformazioni della sovranità, dal ruolo degli intellettuali alla costruzione della memoria collettiva.
Senza la pretesa di esaurire un tema tanto vasto, gli articoli offriranno un itinerario ampio e suggestivo, pubblicato a puntate nelle prossime settimane e destinato ad accompagnarci fino all’autunno inoltrato: un invito alla lettura e alla riflessione, capace di far risuonare voci antiche in chiave sorprendentemente attuale.
La parola e il potere: Storia politica e storia letteraria di Roma
di Stefano Basilico
‹‹Una storia politica non sempre ha in sé la storia della letteratura, una storia della letteratura non può non avere in sé la storia politica; […] gli eventi sono sempre impliciti per intero negli scritti e nelle idee››
Elio Vittorini, Diario in pubblico (1957)
Una riflessione profonda, quella proposta da Vittorini: mai dimenticata, dopo la sua prima lettura che data ormai di diversi decenni or sono; analogamente, non da oggi, la percezione che la letteratura latina – che si è connotata quale oggetto di inesausto studio e approfondimento nel corso degli anni – possa rappresentare un compiuto esempio di quanto affermato dall’autore siciliano. In questo contributo verranno pertanto ripresi lineamenti e annotazioni di storia della letteratura latina, quale paradigma per l’analisi e interpretazione del rapporto tra intellettuali e quadro politico, tra letteratura e potere: storiografia e retorica, poesia ed estetica letteraria dalla Repubblica all’Impero.
Il primo, e più immediato, esempio di applicazione è sicuramente nel genere storiografico: nell’evoluzione dalla mera annotazione cronologica dei fatti (criterio annalistico e di fonti tradizionali, alle quali attingerà per esempio largamente Tito Livio), alla originalità dei grandi storici della latinità, non solo formale e stilistica ma anche nel rivendicare le scelte della trattazione: Gaio Sallustio, lo stesso Tito Livio, Cornelio Tacito; Ammiano Marcellino, «miles quondam et graecus», è l’ultimo esponente di questa parabola.
Tuttavia, proprio la peculiarità della millenaria storia di Roma ha suggerito l’esigenza di una trattazione maggiormente organica, che renda conto del «continuum» della produzione letteraria storiografica dell’Urbe di pari passo con l’evoluzione dei periodi storici: ancora, tale approccio (che pur non ne detta una disamina analitica) rimane inderogabile anche per la retorica, per la poesia, per le opere filosofiche e morali; la letteratura e la storia di Roma sono inscindibili.
Roma, tra anaciclosi e evoluzione storico-politica
L’unicità di Roma come soggetto politico, economico, sociale e poi militare era apparsa chiara già in epoca antica. Nello specifico, ancora in età repubblicana, era stato lo storico greco Polibio a individuare le peculiarità che ne costituivano elemento di saldezza, garantendone al tempo stesso la durata. In un ben conosciuto passaggio delle Storie (IV, 4-10), esponeva il principio della ἀνακύκλωσις (anaciclosi) che determina normalmente l’alternarsi dei regimi e sistemi di governo, in una sorta di “concezione biologica della storia” e con un’evoluzione circolare nel tempo; Polibio evidenziava come proprio la coesistenza armonica e dialettica delle diverse componenti politiche (in quello che oggi definiamo il principio dell’equilibrio, o del contrappeso, dei poteri) assicurasse la saldezza, durata e stabilità della «res publica»: in uno scenario dove i Consoli rappresentavano il potere monarchico (ma temporaneo), il Senato quello aristocratico mentre i Tribuni e l’istituzione dei Concili della Plebe quello democratico.
Tuttavia, già gli intellettuali e i letterati della latinità ebbero la netta percezione che il disegno polibiano, espresso all’epoca successiva alla conclusione delle Guerre Puniche e nella temperie culturale del Circolo degli Scipioni, non potesse persistere immutabile nel corso degli anni e secoli. Per motivi diversi tra loro, ma che apparvero ad ognuno ben chiari.
Una prima angolazione che ci viene proposta è quella morale: da parte di storici, ma anche di poeti.

Gaio Sallustio, innovatore nello stile e contenuti
Gaio Sallustio: uno stile nuovo («abruptum dicendi genus», secondo la felice definizione proposta da Marco Fabio Quintiliano – Inst. Orat., IV, 2) ed anche un nuovo modo di “fare storia”. Fu un “uomo di parte” in un’epoca di transizione (era stato con Giulio Cesare al passaggio del Rubicone): dichiara tuttavia – programmaticamente – di voler scrivere dopo la fine della militanza politica attiva, perché scrivere di storia è ancora un modo per servire lealmente la Patria (BJ, IV).
La «concordia» perduta
La scelta – assolutamente innovativa – di scrivere monografie su eventi cruciali della storia di Roma: la Guerra di Giugurta, la Congiura di Catilina. Le motivazioni delle scelte degli argomenti nascono proprio dalla angolazione morale dell’intento storiografico: avarizia, cupidigia, mala ambizione, corruzione (pubblica e privata); la ricchezza che tutto corrompe: «in tanta tamque corrupta civitate, Catilina…» (BC, XIV); quel principio della «concordia» che è cruciale non solo per l’interpretazione della vicenda del De Catilinae coniuratione (o Bellum Catilinae), ma anche del Bellum Jugurthinum: «Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur» (BJ, X, 6); dal pericolo dei «molitores rerum novarum» ovvero «turbatores plebis», al pericolo altrettanto grande per lo Stato rappresentato dalla corruzione, dall’ingiustizia sociale, dall’iniqua distribuzione della ricchezza, dal negare l’accesso dei diritti politici alle classi meno abbienti.
Allo stesso modo, viene denunciato da Sallustio il pericolo per lo Stato rappresentato dal ricorso alle leggi speciali che sono il presupposto concettuale per l’arbitrio e la dittatura. Per inciso, il discorso di Giulio Cesare in Senato – di cui si riporta di seguito la parte conclusiva – nel sofferto e drammatico dibattito con Catone, dà la misura della grandezza di statista del grande condottiero (BC, LI):
[Ma, si dirà, chi biasimerà ciò che è stato decretato contro degli assassini della patria? L’occasione, il tempo, la fortuna, il cui capriccio governa le genti. Qualunque cosa accadrà, essi l’avranno meritata, ma voi o padri coscritti, considerate l’influenza della vostra decisione su altri. Tutti gli abusi sono nati da buone misure. Ma quando il potere pervenne agli ignari di esso, o a disonesti, quell’abuso straordinario, da colpevoli che lo meritavano, si applica a innocenti che non lo meritano. Gli Spartani, vinti gli Ateniesi, imposero trenta uomini per governare la loro repubblica. Costoro dapprima cominciarono a mandare a morte senza processo i peggiori criminali invisi a tutti: e il popolo a rallegrarsi di ciò, e che era giustamente accaduto. Poi, quando a poco a poco l’arbitrio crebbe, ecco costoro uccidere indiscriminatamente i buoni e i cattivi a loro capriccio, e a terrorizzare tutti gli altri. Così la città, oppressa dalla servitù, pagò gravi pene per una stolta letizia. In giorni che ricordiamo, quando Silla vincitore fece sgozzare Damasippo e altri della stessa marmaglia che erano cresciuti per la sventura della repubblica, chi non lodava il suo operato? Dicevano giustamente soppressi dei criminali e dei faziosi, che avevano turbato la repubblica con la sedizione.
Ma tale fatto fu l’inizio di una grande strage. Infatti, appena qualcuno bramava un palazzo, una villa, insomma addirittura un vaso o il vestito di un altro, si adoprava a farlo risultare nella lista dei proscritti. Così coloro per i quali la morte di Damasippo era stata una gioia, poco dopo venivano trascinati essi stessi al supplizio; né si smise di sgozzare prima che Silla colmasse tutti i suoi di ricchezze. Io non temo questo, con un console come M. Tullio, e di questi tempi; ma in una grande città molte e varie sono le indoli. In un altro tempo, con un altro console che abbia ugualmente in pugno un esercito, può credersi il falso come cosa vera. Se poggiando sul nostro precedente, un console per decreto del Senato snuderà la spada, chi gli porrà un limite, chi potrà moderarlo? I nostri antenati, o padri coscritti, non difettarono mai né di raziocinio né di audacia; né v’era superbia che impedisse loro di imitare istituzioni straniere, se erano buone. Dai Sanniti presero armi di difesa e di offesa; dagli Etruschi la maggior parte delle insegne delle magistrature; infine, ciò che presso alleati o nemici appariva utilizzabile, con grande zelo cercavano di realizzarlo in patria: preferivano imitare piuttosto che invidiare i buoni esempi. Ma nel medesimo tempo, imitando l’uso dei Greci, facevano battere con le verghe i cittadini, e sottoponevano i condannati alla pena capitale. Dopo che la repubblica crebbe, e per la moltitudine dei cittadini presero vigore le fazioni, si cominciò a sopraffare gli innocenti e a compiere abusi di tal genere.
Allora furono promulgate la legge Porcia e altre leggi, con le quali fu permesso ai condannati l’alternativa dell’esilio. Ritengo, o padri coscritti, che questo sia argomento capitale contro la decisione di prendere provvedimenti inusitati. Certo il valore e la saggezza furono maggiori in costoro, che da piccola potenza fecero un così grande impero, piuttosto che in noi, che a stento conserviamo i beni acquistati per loro merito. Vorremo forse che essi siano liberati, e si rafforzi così l’esercito di Catilina? No davvero. Ma questo propongo: le loro ricchezze siano confiscate, essi si debbano tenere in catene nei municipi più forti e attrezzati, e nessuno poi ne venga a parlare in Senato o ne discuta con il popolo; chi avrà fatto diversamente, il Senato lo ritenga nemico dello Stato e della comune salvezza.]
Il testo in latino
«At enim quis reprehendet quod in parricidas rei publicae decretum erit? tempus dies fortuna, quoius lubido gentibus moderatur. Illis merito accidet quicquid evenerit; ceterum vos, patres conscripti, quid in alios statuatis, considerate. Omnia mala exempla ex rebus bonis orta sunt. Sed ubi imperium ad ignaros eius aut minus bonos pervenit, novom illud exemplum ab dignis et idoneis ad indignos et non idoneos transfertur. Lacedaemonii devictis Atheniensibus triginta viros inposuere, qui rem publicam eorum tractarent. Ii primo coepere pessumum quemque et omnibus invisum indemnatum necare: ea populus laetari et merito dicere fieri. Post ubi paulatim licentia crevit, iuxta bonos et malos lubidinose interficere, ceteros metu terrere: ita civitas servitute oppressa stultae laetitiae gravis poenas dedit. Nostra memoria victor Sulla quom Damasippum et alios eius modi, qui malo rei publicae creverant, iugulari iussit, quis non factum eius laudabat? homines scelestos et factiosos, qui seditionibus rem publicam exagitaverant, merito necatos aiebant. Sed ea res magnae initium cladis fuit. Nam uti quisque domum aut villam, postremo vas aut vestimentum aliquoius concupiverat, dabat operam, uti is in proscriptorum numero esset. Ita illi, quibus Damasippi mors laetitiae fuerat, paulo post ipsi trahebantur, neque prius finis iugulandi fuit, quam Sulla omnis suos divitiis explevit. Atque ego haec non in M. Tullio neque his temporibus vereor, sed in magna civitate multa et varia ingenia sunt. Potest alio tempore, alio consule, quoi item exercitus in manu sit, falsum aliquid pro vero credi. Ubi hoc exemplo per senatus decretum consul gladium eduxerit, quis illi finem statuet aut quis moderabitur? Maiores nostri, patres conscripti, neque consili neque audaciae umquam eguere; neque illis superbia obstabat, quo minus aliena instituta, si modo proba erant, imitarentur. Arma atque tela militaria ab Samnitibus, insignia magistratuum ab Tuscis pleraque sumpserunt. Postremo, quod ubique apud socios aut hostis idoneum videbatur, cum summo studio domi exsequebantur: imitari quam invidere bonis malebant. Sed eodem illo tempore Graeciae morem imitati verberibus animadvortebant in civis, de condemnatis summum supplicium sumebant. Postquam res publica adolevit et multitudine civium factiones valuere, circumveniri innocentes, alia huiusce modi fieri coepere, tum lex Porcia aliaeque leges paratae sunt, quibus legibus exilium damnatis permissum est. Ego hanc causam, patres conscripti, quo minus novom consilium capiamus, in primis magnam puto. Profecto virtus atque sapientia maior illis fuit, qui ex parvis opibus tantum imperium fecere, quam in nobis, qui ea bene parta vix retinemus. Placet igitur eos dimitti et augeri exercitum Catilinae? Minume. Sed ita censeo: publicandas eorum pecunias, ipsos in vinculis habendos per municipia, quae maxume opibus valent; neu quis de iis postea ad senatum referat neve cum populo agat; qui aliter fecerit, senatum existumare eum contra rem publicam et salutem omnium facturum.»
L’arte sallustiana del racconto restituisce appieno tutta la drammaticità e tensione di quel serrato dibattito, tra i due principali attori della scena politica della Roma dell’epoca: il momento forse di massima acuzie di una crisi istituzionale che avrebbe segnato un «ante» e un «post» nella traiettoria dell’Urbe. “Tutto era immerso in un’alba fosca e gelida: ritraendoli ancora vivi e impegnati in un dibattito parlamentare, Sallustio pronuncia il loro elogio funebre e quello della libera espressione politica, che con essi finiva”: queste parole di Lidia Storoni Mazzolani (rif.: “L’impero senza fine”, 1972) rendono compiutamente il senso di svolta epocale rivestito da tali avvenimenti.

Sallustio non condivide i metodi dei congiurati, anche se ne illustra con partecipazione le ragioni: nel riferire il discorso di Catilina ai suoi uomini nell’imminenza dello scontro decisivo, c’è il dare voce alla loro lotta per la causa della libertà e dell’onore, mentre quella dei loro avversari consiste nella difesa dei privilegi (BC, LVIII). L’ultimo sguardo dello storico, sulle ali della notte che grava sul campo di battaglia di Pistoia: è come se chiudesse idealmente gli occhi a quegli uomini coraggiosi, che si sono battuti disperatamente contro forze soverchianti, stretti intorno all’aquila dell’insegna di una delle legioni di Caio Mario nella battaglia contro i Cimbri, ai Campi Raudii (101 a.C.). Nessun tentativo di fuga, nessun sopravvissuto; nessuno di loro porta ferite alla schiena, sono tutti feriti al petto.
Nella dolorosa operazione di composizione dei cadaveri, dopo la battaglia (BC, LXI), dove amici e fratelli sono mischiati senza soluzione di continuità, prevale un senso di profondo rispetto, e umana «pietas». Lucio Sergio Catilina, figura di nobile non esente da ombre – una vena di sottile ambiguità lo ha accompagnato per tutta la vita – fu trovato agonizzante in mezzo ai cadaveri dei suoi nemici, dopo che si era gettato nel fitto della mischia (BC, LX). Anche se con la sua rara capacità di delineare i tratti dei personaggi (i famosi “medaglioni sallustiani”, che sono un paradigma della sua «brevitas») ne disse nel famoso inizio del quinto capitolo della monografia «nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis sed ingenio malo pravoque», in quel momento l’uomo – ancor prima dello storico – rende omaggio all’eroe che non ha esitato a morire per un ideale.

Il «metus hostilis» come elemento di coesione per lo Stato e il popolo
Sempre partendo da un’angolazione morale, in tema di decadenza dei costumi, la grandezza di Sallustio come storico è inoltre certificata da un passaggio del Bellum Jugurthinum dove viene tratteggiato con chiarezza un concetto destinato ad avere valenza diacronica nell’arco dei millenni nel campo della politica estera: la necessità per uno Stato di mantenersi un nemico all’esterno.
Cartagine per Roma aveva rappresentato storicamente “il nemico”: il più compiuto paradigma di irriducibile avversario, capace di stimolare la coesione delle diverse forze della società romana con l’obbiettivo di superare la più grave crisi politica e militare sperimentata dai tempi della fondazione dell’Urbe.
Un conflitto interminabile, alla fine vittorioso, che non aveva mancato di suscitare anche profonde inquietudini di sapore filosofico sul destino stesso di Roma: famosissima, l’immagine propostaci da Polibio sul dolore di Scipione Emiliano di fronte alle rovine della città nemica, distrutta dopo la fine della Terza Guerra Punica (XXXVIII, 21); una accorata disperazione, dettata dal dubbio che un giorno anche Roma potesse andare incontro a una sorte analoga. In questo caso Sallustio propone un’interpretazione politica molto più profonda (BJ, XLI), che va in decisa controtendenza rispetto al proverbiale «Ceterum censeo Carthaginem esse delendam» con cui Catone il Vecchio chiudeva invariabilmente ogni suo discorso:
«Ceterum mos partium et factionum ac deinde omnium malarum artium paucis ante annis Romae ortus est otio atque abundantia earum rerum, quae prima mortales ducunt. Nam ante Carthaginem deletam populosa et senatus Romanus placide modesteque inter se rem publicam tractabant, neque gloriae neque dominationis certamen inter civis erat: metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea, quae res secundae amant, lascivia atque superbia incessere. Ita quod in aduersis rebus optauerant otium, postquam adepti sunt, asperius acerbiusque fuit.»
[Del resto, la divisione invalsa fra partito popolare e fazione nobiliare, con tutte le sue conseguenze negative, aveva avuto inizio in Roma pochi anni prima, causata dalla pace e dall’abbondanza di tutti quei beni che gli uomini considerano di primaria importanza. Prima della distruzione di Cartagine, il popolo e il senato di Roma governavano insieme la repubblica in armonia e con moderazione e i cittadini non lottavano tra loro per ottenere onori e potere: il timore dei nemici ispirava ai cittadini una giusta condotta. Ma svanito quel timore dai loro animi, subentrarono, com’è naturale, la dissolutezza e la superbia, compagne inseparabili della prosperità.]
Sia detto per inciso, la percezione dell’importanza di non rimanere senza avversari appare essere stata presente già all’epoca stessa delle Guerre Puniche, in base per esempio a quanto riportato in tempi successivi da Plutarco in merito all’opinione espressa da Scipione Nasica proprio in risposta a Catone (Vita di Catone, 27).
Dicono inoltre che Catone scuotendo la toga facesse cadere nel Senato dei fichi portati a bella posta dalla Libia. Poi, ammirandone tutti la grandezza e la bellezza, disse che una città la quale produceva questi frutti distava da Roma 3 giorni di naviga- zione. [2] E in questo la sua azione era più incisiva, nell’aggiungere in ogni questione su cui si doveva esprimere il proprio voto: – È mia opinione che Cartagine debba essere distrutta. Al contrario Scipione Nasica, invitato a dare il suo voto, terminava sempre la sua dichiarazione dicendo: Ritengo che Cartagine debba rimanere in vita. [3] Catone, com’è probabile, vedendo che il popolo ormai commetteva molte prepotenze e, insuperbito per i successi riportati, non si lasciava guidare dal Senato, e per il suo potere trascinava a forza tutto lo Stato là dove esso si volgeva mosso dai suoi impulsi, volle che fosse imposta questa paura di Cartagine come un freno di correzione alla protervia della massa. Egli stimava i Cartaginesi non sufficientemente forti per sopraffare i Romani, ma troppo forti per non dar motivo di preoccupazione. [4] Proprio questo a Catone sembrava terribile, che mentre il popolo romano s’inebriava e spesso per la sua licenza vacillava, una città che era stata sempre grande e che ora sotto il peso delle sventure era divenuta temperante e castigata, gli tendesse insidie, e che non si dovesse togliere per sempre ogni motivo di paura proveniente dall’esterno per il proprio impero, al fine di lasciare a se stessi la possibilità di rimediare agli errori interni…
Prosegue con “Tito Livio e la sacralità della res publica“…
Piano dell’opera
- Gaio Sallustio e la concordia perduta.
- Tito Livio e la sacralità della “res publica”.
- Tacito, analisi politica e passione tragica.
- Lucrezio, ragione e angoscia.
- Cicerone, tra otium e negotium.
- La crisi dell’arte retorica.
- Alcuni storici minori.
- Petronio, arguzia ed estetica.
- “La satira, che è tutta nostra…”
- Lucano, crasi tra epica e storica.
- Astrologia, filosofia e magia
- Ammiano Marcellino, soldato un tempo e greco per educazione