
La storia della repubblica romana è stata a lungo una storia della sua classe dirigente; Claude Nicolet, in quest’opera ormai classica, la affronta con un taglio diverso e innovativo.
Il tema avvincente della partecipazione del comune cittadino romano alla politica è qui affrontato attraverso un’indagine condotta su testi storici, letterari, epigrafici, giuridici, sui monumenti archeologici e sulla documentazione topografica.
Nicolet cerca di far rivivere il contenuto quotidiano della cittadinanza romana e i modi in cui si esplicava la partecipazione politica (quella militare, quella fiscale e finanziaria, quella elettorale e deliberativa) calandosi nel vivo della dinamica storica dell’età repubblicana, che culmina con Augusto nella disgregazione del vecchio Stato e nella costruzione delle basi di un nuovo ordinamento.
Pagine: 586
Editore: Editori Riuniti
Anno di uscita: 1979 (seconda edizione), 2019 (edizione italiana)
Formato: cartaceo
Qual era il contenuto quotidiano, vissuto, in qualche modo esistenziale, della cittadinanza romana? Che cosa significava concretamente lo status di cittadino?
La storia di Roma, per lungo tempo, è stata storia di senatori, imperatori, magistrati e sacerdoti; una storia di oligarchie impegnate in eventi più o meno grandi e, insomma, in lotta per la supremazia e il potere. Lo sviluppo di un nuovo approccio, alla metà del secolo scorso, permise di studiare origine, formazione e comportamenti delle classi dominanti, in particolari del senato. Mancava ancora un ultimo passo: estendere tali studi anche alle classi medie e basse. Ricordiamo infatti che la denominazione quasi ufficiale dello stato romano era, in età repubblicana, SPQR, ovvero il “senato e il popolo di Roma”; o anche, in un’interpretazione più antica, il “senato e popolo dei quiriti romani”, dove per “quiriti” si intendeva i cittadini che godevano di pieni diritti. Il mondo di questi ultimi è rimasto per lungo tempo negletto.
Questa è l’esplicita dichiarazione d’intenti dell’autore che, nella premessa all’opera, rimprovera se stesso e i colleghi per aver lungamente ignorato tale aspetto della questione. Una critica viene anche avanzato all’approccio che potremmo chiamare “giuristico” che ha tentato di ridurre la storia della società romana allo studio del suo diritto: tale metodo è quanto mai invalido per l’età repubblicana perché, oltre alla sua incompletezza, il diritto che ci è giunto è di formazione imperiale e tardo-imperiale. Una scoperta molto importante è che, per quanto Roma sia considerata “patria del diritto”, la gran parte dei diritti e dei doveri dei cittadini non erano regolati da leggi scritte ma soltanto dalla consuetudine. Non esisteva, ad esempio, una “legge” sull’obbligo di servizio militare, ma una serie di procedure e consuetudini con cui la collettività-stato, tramite i suoi magistrati, emetteva giudizi su ogni singolo cittadino; in questo come in altri ambiti.
Il cittadino romano “medio” di età repubblicana esprimeva se stesso infatti i tre grandi ambiti:
- fiscale;
- militare;
- elettorale.
Ci sarebbe un altro importantissimo campo, quello religioso: Nicolet, purtroppo o per fortuna, dichiara di essere non sufficientemente esperto né per nulla interessato a tale ambito. Mi fermo immediatamente per fare una critica (la principale che troverete, in effetti). Comprendo che forse una simile analisi avrebbe condotto davvero lontano rispetto a quella degli altri ambiti, che tra di loro appaiono “uniti” a livello tematico; rimane tuttavia un vulnus abbastanza grave che, pur non inficiando l’intera opera, rimuove tuttavia un aspetto, quello religioso, che era forse il più permeante rispetto agli altri: pietà verso la famiglia, gli amici e lo stato; timore verso gli dèi; rispetto per le prescrizioni degli avi eccetera furono caratteristiche del mondo romano e, se anche una certa incredulità si diffuse sul finire della repubblica presso i ceti alti, tale sentimento rimase sincero – io credo – nelle classi basse come in quelle medie, che sono oggetto del presente studio. Tale appunto che ho fatto è strettamente legato alla critica che rivolgerò in chiusura di articolo.

Detto questo passiamo a dettagliare ciò che il libro (quasi 600 pagine!) contiene. L’autore individua l’essenza della cittadinanza romana in una “dimensione collettiva”. Il nome stesso lo indica: per i Greci il cittadino è l’abitante della città; per i Romani il cittadino è il civis, parola che sembra contenere in sé una radice di ambito familiare e di ospitalità. Un cittadino è un concittadino; esiste e agisce in quanto esistono persone simili a lui. La comunità romana, insomma, già al tempo di Romolo è definibile come una “comunità del diritto”, cioè un insieme di uomini i cui rapporti sociali, familiari e verso la collettività sono ben regolati da leggi scritte (all’inizio nessuna, in seguito sempre di più) e consuetudini (venerate sotto il nome di “costumi degli antenati” cioè mos maiorum).
Queste considerazioni ci introducono a quello che è il vero simbolo peculiare della società romana di età repubblicana: il censimento. La radice di questa parola è nel verbo censere, che può variamente significare “fare una stima” o “emettere un parere”. Effettuare il censimento, quindi, vuol dire giudicare ogni singolo cittadino e assegnargli, ogni cinque anni, un preciso ruolo nella società tramite l’iscrizione ad una centuria di censo e ad una tribù. Tale giudizio, è importante sottolineare, non era automatico, cioè frutto di una legge scritta, ma era emesso a nome della collettività intera, durante l’operazione di censimento, da un magistrato eletto, il censore che, pur guidato dalla tradizione e dalla consuetudine nella scelta dei criteri di censo, godeva di discrezione nella severità con cui applicarli.
La società romana, dunque, tramite l’istituto del censimento divideva i suoi cittadini in differenti classi cui venivano riconosciuti diritti proporzionali ai doveri. Questo è il famoso concetto della “uguaglianza geometrica” , ben diversa dall’uguaglianza così come si è sviluppata nelle democrazie liberale occidentali negli ultimi secoli; uguaglianza geometrica di cui erano ben consapevoli gli antichi romani stessi.

Accanto a queste considerazioni, l’autore poi studia in dettaglio ogni operazione legata al censimento, analizzando sia le fonti letterarie che quelle (più scarse) archeologiche. Sono pagine (come quelle seguenti sul pagamento del tributo, sulle procedure di arruolamento, sullo svolgimento delle votazioni elettorali eccetera) preziose perché questioni tecniche e per nulla semplici sono esposte con un tono semplice e quasi divulgativo, senza però sacrificare le incertezze che anche gli accademici hanno.
In sostanza, la società romana sanciva l’uguaglianza teorica dei suoi cittadini ma ne riconosceva le disuguaglianze di fatto (di natura, di ricchezza e morale). Ad una persona anziana non può essere chiesto lo stesso che ad un giovane; lo stesso vale se si parla di un ricco o di un povero; di un uomo virtuoso o di un uomo scellerato nelle sue azioni. Difatti, questa è la particolarità del censimento romano: il censo, cioè la ricchezza, aveva un ruolo importante, ma non definitivo. Il censore poteva infatti colpire il cittadino macchiatosi di crimini, di immoralità e altri comportamenti inadeguati.
Il precipuo scopo del censimento era l’ordinamento militare della componente maschile di una società. Non v’era differenza tra l’essere cittadini e soldati: la prima categoria includeva in sé la seconda. Anche coloro che, troppo poveri per essere iscritti nelle prime classi di censo e non svolgevano quindi alcun servizio militare, erano comunque iscritti in tali classi (e con l’andare del tempo il requisito di censo sarà abbassato e quindi anche loro reclutati). L’esperienza militare era anzitutto, un dovere: ogni cittadino doveva essere arruolabile tra i 17 e i 45 anni; in seguito, fino ai 60, poteva essere richiamato con compiti difensivi. Ma essa era anche un privilegio. L’uomo poteva mettere in mostra la sua disciplina e la sua virtù militare; inoltre era prerequisito per ogni tipo di onore politico. Così fu fino alla metà del II secolo a.C. La “riforma di Mario” non fu brusca e radicale ma richiese un secolo perché desse effetti visibili. Un abisso separa ormai i soldati delle guerre puniche da quelli delle guerre civili.
Il cittadino è anche un soggetto fiscale. Anche qui, l’analisi dell’autore è dettagliata tecnicamente. Il tributum era la principale richiesta ai cittadini. Essa non era una vera e propria “tassa diretta” ma una sorta di “prestito” che lo stato imponeva ai privati in previsione di una guerra: tra la collettività e il singolo, quindi, si instaurava un contratto, perché il tributo veniva riscosso con una finalità ben precisa, al contrario di molte forme di tassazione odierne. La fine del tributum (che avvenne nel 167 a.C. quando i bottini delle conquiste compensarono ogni forma di tassazione) fu il primo tradizionale legame tra stato e cittadini ad essere reciso.
Infine, il cittadino era un elettore. Il capitolo dedicato all’argomento è il più lungo e impegnativo, forse anche farraginoso. L’autore descrive in estremo dettaglio ogni assemblea romana, il modo di votare, di contare i voti, lo svolgimento di una campagna elettorale ecc. Ampio ricorso è fatto alle citazioni, soprattutto di Cicerone. Con il deteriorarsi della situazione, nel II e I secolo a.C., tuttavia, le assemblee popolari non funzionavano più nel trasmettere le richieste dei ceti bassi; ecco perché si assiste ad una esondazione del disagio popolare – a volte furore – nelle altre manifestazioni pubbliche, come trionfi, spettacoli teatrali e funerali (in non pochi casi con la complicità di politici in ascesa che avevano intenzione di sfruttare simili occasioni).

In definitiva, l’unico difetto del presente libro è che l’approccio antropologico è troppo scarsamente presente. La scelta, dichiarata in apertura, di non trattare il tema religioso era già un indizio. Soltanto nel capitolo conclusivo, che tira le somme del discorso, Nicolet amplia la sua disamina e trae le conclusioni “morali” della intensa vita civica del cittadino romano, che ha lungamente descritto per centinaia di pagine.
Questi uomini così numerosi che ormai vivono insieme nello stesso corpo politico sono, d’altra parte, in rapporti spaziali e temporali permanenti gli uni con gli altri. Il calendario della vita civica, come abbiamo visto, è particolarmente denso. Se il censimento e il census hanno luogo soltanto ogni cinque anni (anche se alcuni, come i senatori e i cavalieri, possono esservi convocati più volte), c’è una leva militare quasi tutti gli anni e, fino al 167, nella stessa occasione c’è la riscossione dell’imposta. Le elezioni occupano almeno una quindicina di giorni l’anno. Le votazioni delle leggi possono occupare un tempo ancora maggiore (si pensi ad alcuni anni, per i quali conosciamo una dozzina di leggi). Bisogna ricordare inoltre che ognuna di queste procedure contemplava diverse riunioni preparatorie, la presenza alle quali non era obbligatoria, ma che a volte richiamavano intere folle. I giochi e gli spettacoli si succedevano regolarmente e occupavano, alla fine della repubblica, diverse decine di giorni. A tutto ciò si aggiungevano i trionfi, i funerali e, come si è visto, alcune partenze o alcuni arrivi di magistrati. Infine, i tribunali funzionavano durante gran parte dell’anno, e i processi importanti, che avevano un profondo significato politico, nell’ultimo secolo della repubblica si moltiplicarono. La presenza fisica del cittadino era dunque richiesta o quanto meno fortemente sollecitata con una frequenza che le nostre democrazie moderne sono ben lungi dal conoscere. Ora, pressoché ognuna di queste occasioni determinava lo spostamento e la riunione nella città di diverse migliaia, e a volte di diverse decine di migliaia, di individui. Questi movimenti non si limitavano a Roma e ai suoi immediati dintorni: da tutta l’Italia poteva venire chi voleva e veniva chi poteva. Si ha l’impressione che altrettanto e di più delle esigenze della vita economica, la vita civica animava l’Italia di movimenti migratori continui, che vedevano lo spostamento ricorrente di gruppi e di individui. La politica pervade effettivamente il corpo sociale.
Non dobbiamo quindi immaginare che uno stato antico, dotato di tecnologie primitive rispetto a quelle di oggi, non potesse raggiungere un grado di partecipazione, coesione e senso di appartenenza inferiori all’oggi. È vero il contrario, come dice Nicolet: la società romana era di fatto collettivista perché ad ognuno era assegnato un ruolo, che poi svolgeva concretamente nella vita di tutti i giorni.
Da questo discende il forte senso civico e patriottismo che permise a Roma di vincere innumerevoli guerre nel III e II secolo a.C. e resistere anche di fronte a pericoli grandissimi come le invasioni galliche e avversari temibili come Annibale Barca. Questo fu lentamente eroso tra II e I secolo dal cadere del tributum, dalla fine dell’obbligo militare e dalla spirale di violenza che accompagnò sempre più il funzionamento delle istituzioni repubblicane romane.
Il libro, ovviamente, è consigliato non al neofita, che potrebbe non apprezzare l’eccessiva attenzione su certi dettagli “tecnici” di alcuni aspetti della società romana, ma a chi abbia già una conoscenza approfondita della storia romana.
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