La fine della monarchia a Roma fu preannunciata da inequivocabili segni divini, che nella Storia di Roma di Tito Livio fanno irruzione, con tono drammatico, immediatamente dopo il racconto degli innegabili successi del re Tarquinio il Superbo. La collocazione (I, 56, 4) non è casuale e a sua volta precede il racconto della caduta, con cui si conclude il primo libro.
Mentre [Tarquinio] era occupato in queste imprese apparve un terribile prodigio: un serpente, strisciando fuori da una colonna di legno, gettò il terrore e lo scompiglio nella reggia, l’animo del re non tanto fu turbato lì per lì da quella vista, quanto fu tormentato poi da angosciosi pensieri.
Lo storico patavino, con una certa maestria narrativa, ci mostra la conseguenza diretta del prodigio misterioso e infausto sull’animo del re. La minaccia era tale, aggiunge Livio, che il re credette necessario far ricorso non ai soliti indovini etruschi (già intervenuti nell’episodio del ritrovamento della testa umana negli scavi di fondazione del tempio di Giove), bensì all’oracolo delfico di Apollo, in Grecia. Contemporaneamente, infatti (come racconta Dionigi di Alicarnasso nelle Antichità romane) una pestilenza aveva iniziato a decimare giovani e donne gravide.

Non era la prima volta che il Superbo o la sua dinastia “etrusca” avevano a che fare con il mondo divino e “soprannaturale” (o preteso tale). Gli esordi erano stati promettenti: Tanaquilla, moglie del primo Tarquinio giunto a Roma e detto per questo “Prisco”, aveva predetto la futura grandezza del marito dal volo di un’aquila che al consorte aveva sottratto e restituito un copricapo; Servio Tullio, secondo re etrusco, aveva strettamente collegato la sua stessa figura a quella della Fortuna. Anche la politica religiosa di questi sovrani è ambiziosa: Tarquinio Prisco pone le fondamenta del tempio di Giove; Servio Tullio invece inaugura un tempio di Diana sull’Aventino, con l’intento che sostituisce i culti federali delle città latine.
Con Tarquinio il Superbo le cose cambiano. Tito Livio e anche Dionigi di Alicarnasso ne tratteggiano a mano a mano i tratti tirannici, che si mescolano inestricabilmente ad un difficile rapporto con il sacro. In un episodio, Dionigi racconta l’episodio dell’acquisizione dei Libri Sibillini (che altri autori attribuiscono al Prisco o addirittura a precedenti sovrani):
Si presentò al tiranno una donna non del luogo con il proposito di vendergli nove libri, pieni di oracoli sibillini. Poiché Tarquinio non ritenne giusto comprarli al prezzo richiesto, ella se ne andò e ne bruciò tre. Dopo non molto tempo ella, riportando i sei libri rimanenti, glieli propose allo stesso prezzo, ma fu schernita e ritenuta folle, visto che richiedeva lo stesso prezzo per un numero inferiore di libri, sebbene non avesse potuto prenderlo per tutti. La donna andò via e bruciò la metà di quelli rimasti; poi riportò i tre avanzati e chiese la stessa quantità di denaro. Tarquinio, stupefatto per la determinazione della donna, mandò a chiamare gli auguri e, esposto loro il fatto, domandò che cosa avrebbe dovuto fare. E quelli, avendo compreso da certi segni che era stato rifiutato un bene inviato dagli dei e mostrando come una grande sventura il fatto che egli non avesse comprati tutti i libri, lo incitarono a pagare alla donna tutta la somma che chiedeva e a prendere gli oracoli restanti.
Un altro episodio, che non riporto perché più probabilmente attribuibile al Prisco, è quello dell’augure Atto Navio, che minacciò il re a proposito della creazione di nuove centurie di cavalleria. Di inganno quasi sacrilego si tratta invece nel caso di Turno Erdonio, condottiero di Ariccia, che si svolge durante una riunione della Lega latina presso il locus ferentinum. Turno, poiché oppositore di Tarquinio, venne fatto giustiziare in modo brutale e arcaico: annegato nella fonte sacra tramite un graticcio di pietre, secondo Livio (I, 52).
Torniamo all’ambasciata a Delfi. Essa fu composta dai due figli maggiori, Tito e Arrunte; con essi era anche Marco Giunio detto Bruto. Bruto era nipote del re che, per invidia e timore, ne aveva sterminato la famiglia. Bruto, da allora, s’era finto sciocco e tardo di mente, un trucco che gli aveva consentito di sopravvivere e, persino, fare carriera alla corte di Tarquinio, che l’aveva nominato comandante della sua guardia.

Tarquinio il Superbo di Lawrence Alma-Tadema (1867)
Interrogata, la risposta della Pizia sembrò chiara: un’offerta di “teste” in cambio delle “teste” morenti per l’epidemia avrebbe placato gli dèi irati. Curiosamente tale risposta non si trova in Tito Livio, che glissa sulla faccenda perché, nella narrazione liviana, è più interessante la domanda aggiuntiva che i due principi posero all’oracolo: chi di loro, cioè, sarebbe divenuto re alla morte del padre. “Il primo che avrebbe baciato la propria madre”, sentenziò la Pizia. Il particolare della prima risposta si trova invece in un autore della tarda antichità, cioè Macrobio, che nei Saturnalia (V secolo d.C.) scrive:
Ho riscontrato un mutamento di sacrificio analogo a quello che hai menzionato, Pretestato, anche nei Compitali, quando per tutti i crocicchi della città si celebravano giochi istituiti, come è noto, da Tarquinio il Superbo in onore dei Lari e di Mania in séguito ad un responso di Apollo che aveva prescritto di intercedere con teste in favore delle teste. Tale precetto fu osservato per qualche tempo, e per la buona salute dei famigliari si immolavano fanciulli alla dea Mania, madre dei Lari. Giunio Bruto, divenuto console dopo la cacciata di Tarquinio, decise di modificare tale tipo di sacrificio. Ordinò di compiere le suppliche con teste di aglio e di papavero: si obbediva così all’oracolo di Apollo che parlava di teste senza peraltro compiere il misfatto di un infausto sacrificio.

Questi i responsi dell’oracolo. Come abbiamo letto nella citazione, inutilmente crudele fu l’interpretazione di Tarquinio che istituì, senza tante storie, dei sacrifici umani da svolgersi per ogni quartiere. I suoi figli, invece, presero l’oracolo alla lettera e, tornati a Roma, fecero una sciocca gara per baciare la propria madre per primi. Soltanto Bruto seppe comprendere la verità in entrambi casi. Egli, in quanto brutus, falso sciocco, si era posto al di sotto degli altri; ma l’acutezza della sua mente lo poneva al di sopra. Cacciato il Superbo, egli sostituì i sacrifici umani con delle offerte di “teste” d’aglio e papaveri, che mantenevano la lettera dell’oracolo; e quando lo stesso oracolo impose di baciare la propria madre, Bruto, appena sbarcato in Italia, finse di inciampare e baciò la terra che, simbolicamente, è la Madre di tutti nella tradizione latina.
E a proposito del concetto di “Madre”, legato alla terra, possiamo notare una circolarità nel racconto liviano della caduta della monarchia. Esso si apre, come detto, con il prodigio del serpente che sembra scaturire da una colonna, cioè dalla terra, e si chiude (dal punto di vista religioso) con Bruto che bacia la terra. Il serpente non è un animale soltanto biblico, ma ha un significato anche nella cultura romana, come scrive Mario Lentano in Bruto:
Il fatto è che nella cultura romana il serpente non è solo un rettile potenzialmente pericoloso per via del suo veleno, ma soprattutto è un animale ctonio, strettamente legato alla terra sulla quale striscia e al mondo dei morti che a quella stessa terra hanno fatto ritorno.
Insomma, Tarquinio, che dalla terra ha ricevuto un presagio di morte, avrà per “successore” Bruto, che ha compreso il volere degli dèi e la terra, madre di tutti, ha baciato.
Per concludere, nel racconto tradizionale della nascita della Repubblica gli storici (in particolare Attilio Mastrocinque che ha approfondito a livello accademico la figura di Bruto) hanno individuato quelle che possono essere definite le “aggiunte” effettuate a posteriori: ad esempio, il racconto di Lucrezia e della cacciata del re da parte di Bruto ha forti elementi che lo accomunano alla tradizione greca sulla tirannia e sulla sua fine.
Accanto a ciò, però, vi sono nuclei antichi che sembrano essere più schiettamente latini e risalire direttamente all’epoca a cavallo tra VI e V secolo a.C. Il tema della “crisi religiosa” del regno dell’ultimo Tarquinio e della migliore capacità augurale di Bruto è uno di questi. Come già detto in altre occasioni, l’ignoranza sui fatti di quell’epoca (ignoranza condivisa con gli stessi storici romani) rende più importante non tanto l’impossibile ricostruzione dei fatti, quanto la loro comprensione a livello di “memoria culturale”; ovvero, cosa rappresentava per i Romani la fine della monarchia? Non solo la cacciata di un tiranno, ma anche un inevitabile cambio giustificato dalla rottura della pace degli dèi, provocata dall’insipienza dei Tarquini.
Nel mio romanzo Romana Virtus ho cercato di restituire l’aspetto religioso e sacrale della transizione dalla monarchia alla repubblica, che spesso è stato dimenticato a favore dell’aspetto strettamente politico (la cacciata di un tiranno e l’instaurazione di un nuovo regime) della faccenda.

La libertà conquistata è però immediatamente minacciata dal ritorno di Tarquinio, il quale chiede alle ricche città dell’Etruria che esse l’aiutino ad essere ristabilito sul trono di Roma. Il potente Porsenna, signore di Chiusi, arma un grande esercito composto da Etruschi e Latini e marcia sulla città.
Tre giovani Romani sono chiamati alla difesa della patria in pericolo: il patrizio Orazio, discendente di un eroe leggendario; il giovane Muzio, che dalla tirannia di Tarquinio ha subito torti dolorosi; la fanciulla Clelia, determinata ad avere un ruolo nella difesa della città.
La difesa della libertas susciterà la virtus?
Pagine: 383
Data di uscita: 9 giugno 2024
Prezzo ebook: 4,99 €
Prezzo cartaceo: 14,99 €
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