
Nell’ambito degli studi sulla civiltà romana il termine mos maiorum ricorre con grande frequenza e nei campi di ricerca più diversi. La ragione di ciò è che il mos maiorum costituisce uno dei pilastri fondamentali per la comprensione profonda della cultura romana e senza di esso sfuggono allo storico specialista, come al volenteroso dilettante, i caratteri essenziali, gli elementi costitutivi e connotativi di quella cultura. Questo di Hans Rech, che vede la sua versione italiana settanta anni dopo la pubblicazione tedesca, è il primo studio monografico che indaga e approfondisce il significato e la valenza del mos maiorum e ci aiuta a comprendere il senso profondo del concetto di tradizione. In questo mondo globalizzato non è il richiamo alle proprie tradizioni che ostacola il dialogo con l’altro, bensì l’indifferenza per la propria identità. Il saggio di Rech ci ricorda soprattutto questo.
Pagine: 142
Editore: Settimo Sigillo
Formato: Cartaceo
Anno di uscita: 2006
La storia editoriale in lingua italiana di questo saggio è curiosa ed illumina, da un certo punto di vista, i nostri tempi attuali (scrivo questo nell’aprile del 2024). L’opera originale di Hans Rech, studioso tedesco e cattolico sostanzialmente sconosciuto in area italica, è del 1936; la traduzione, frutto di un “faticoso lavoro” e della “pazienza sollecita” dello stesso editore, come vien detto nella prefazione del curatore Vittorio Vernole, è del 2006. Dopo aver puntualizzato che una traduzione approssimativa ma efficace di mos maiorum è “tradizione” la prefazione circostanzia, in modo insolitamente esplicito per questo genere di opere, che il recupero dell’opera di Rech, vecchia di quasi settant’anni, è stato voluto perché “la civiltà occidentale moderna sembra non aver più bisogno della tradizione”. Concetto di tradizione che, si aggiunge, è inestricabilmente legato a quello di identità, che porta ad improbabili “tradizioni ricostruite” e false.
La traduzione del libro di Rech, dunque, non è soltanto il recupero di un’opera unica per l’argomento trattato – neanche lo sviluppo degli studi antropologici ha visto un approfondimento del concetto romano di mos maiorum/tradizione – ma anche un modo per far comprendere al lettore che:
“Non il richiamo alle proprie tradizioni è di ostacolo al dialogo con l’altro, bensì l’indifferenza per la propria identità. Il saggio di Rech ci ricorda soprattutto questo.”

Tali considerazioni, nei primi anni 2000, non potevano che fare riferimento al concetto di “globalizzazione”, allora parola nuova, e, soprattutto, al mondo post-11 settembre, caratterizzato secondo molti da uno “scontro di civiltà”. Nel nostro 2024, però, esse assumono secondo me una nuova valenza: senza entrare in dettagli – la recensione del testo di Rech, prima o poi, dovrà pur aver inizio! – non c’è dubbio che la questione delle “identità” (siano esse etniche, religiose, nazionali, sessuali ecc.) ha assunto oggi un’importanza anche maggiore di quanto non fosse vent’anni: la parola “politicamente corretto”, oggi pregnante, fa capolino anche nella premessa di Vernole scritta quasi vent’anni fa.
Passiamo dunque finalmente al libro vero e proprio. Un grande pregio del lavoro di Rech è il senso di “completezza” che esso restituisce nonostante la brevità del testo (140 pagine): nel primo capitolo viene sviscerato il concetto di mos maiorum; nel secondo viene studiato come la consapevolezza del mos maiorum influenzasse diversi ambiti della vita romana, dalla sfera religiosa a quella militare, da quella politica a quella giuridica ecc.; il terzo e ultimo capitolo (a mio parere il più profondo dell’opera) insegue le tracce del mos maiorum nella storia di Roma, in particolare nel periodo tardo-repubblica e poi alto-imperiale.

Il mos maiorum trova la sua più facile definizione in ambito giuridico, in contrapposizione alle leges. Quest’ultime sono, ovviamente, scritte, laddove il mos maiorum non è altro che la tradizione e l’osservanza della tradizione stessa, che può anche essere inconsapevole, in quanto azioni e pensieri “tradizionali” divennero ben presto consuetudine di fare le cose in un certo modo. Il mos maiorum, tuttavia, precede le leggi scritte, dunque ne è il fondamento perché le leggi, in qualche modo, cristallizzano ciò che il mos maiorum già avrebbe dovuto imporre.
Perché il mos maiorum non è soltanto consuetudine; è anzitutto il “modo di vivere” a cui singoli, gruppi e intere collettività si conformano spontaneamente, perché mos è il costume che origina i mores, cioè la moralità cui bisogna adeguarsi nei rapporti sociali, civici, familiari ecc. In particolare, mos maiorum è l’insieme delle tradizioni – cioè dei comportamenti abituali – tenuti dai “padri”, cioè dagli antenati. La loro fondatezza e legittimità riposa su questo fatto – la loro antichità – ma anche, ovviamente, sul successo delle armi romane e sulla stabilità dell’ordinamento politico in età repubblicana. Furono i costumi dei padri a determinare la grandezza di Roma; dunque, tali costumi vanno preservati ad ogni costo.
Il mos maiorum è un concetto vivo: esso non è soltanto ammirazione del passato, ma anche giudizio sul presente (e sui comportamenti devianti da quelli tradizionali) e, attivamente, guida per ogni azione che si voglia intraprendere. In non pochi casi di età storica, uomini politici si appellarono ai costumi dei padri o da essi si fecero guidare, anche rinnegando le leges scritte. Ad esempio è noto, grazie a Sallustio che lo riporta, il dibattito circa la sorte da riservare ai complici della congiura di Catilina.
Più difficile è stabilire quando i Romani acquisirono consapevolezza dell’esistenza di un mos maiorum: la letteratura latina ha inizio qualche secolo dopo la nascita della repubblica. Esso però sembra già essere riconosciuto nel III secolo a.C. (al tempo delle guerre puniche) e diventa un fattore primario nel II secolo, cioè lo stesso periodo in cui Polibio osserva i primi germi di decadenza nella società romana. La generazione di Scipione Emiliano è quella che presagisce ciò che sta per accadere: le guerre civili e la definitiva instaurazione di un nuovo – ma al tempo stesso antico e tradizionale – ordine.

Il secondo capitolo dettaglia l’applicazione del mos maiorum in ogni ambito della vita romana. È un capitolo denso di citazioni di storia repubblicana. Al di là di campi prevedibili – la pietas verso gli dèi, lo scrupolo nei riti, il rispetto degli auspici, la disciplina dell’esercito, la non iterazione delle cariche, la condanna a morte per gli aspiranti alla tirannia ecc. ecc. – l’autore scende nei dettagli anche nell’analisi del ruolo del mos maiorum nelle tradizioni e storie delle famiglie nobili, nell’esempio che esso forniva ai giovani e nella vita privata e familiare. Si tratta degli exempla maiorum, l’esempio degli antenati. In sostanza, i Romani avevano compreso che non c’è modo migliore di spronare un pubblico ad essere virtuoso che raccontando storie di virtù.
Infine, Rech ripercorre la storia del concetto di mos maiorum e l’utilizzo che ne fecero le varie personalità politiche. L’epoca più viva è quella, ovviamente, della fine della repubblica. Come dicevo, questo è il capitolo più brillante perché ciò che si è studiato viene applicato per gettare una nuova luce sui fatti storici. Le due figure cardinali e antitetiche sono quelle di Cesare e Ottaviano Augusto. Il primo è un vero rivoluzionario radicale perché agisce, spessissimo, in spregio al costume degli antenati; guida di Cesare è la Fortuna personale. Fu proprio questo atteggiamento di fondo ad armare le mani dei cesaricidi.

Ben diverso è il caso di Ottaviano Augusto. È vero, Ottaviano fondò quella che era di fatto una monarchia: tuttavia, egli restaurò la società tradizionale romana, cioè la società aristocratica del II secolo a.C.; recuperò riti e culti dimenticati nel corso delle guerre civili; tentò di moralizzare i costumi privati. Ancor di più, straordinariamente, Augusto stesso divenne un maior, cioè un creatore di tradizioni imperiali: ad esempio, rifiutando onori divini in vita. Augusto quindi creò l’impero e diede ad esso alcuni fondamenti che poi sarebbero stati rispettati – più o meno, ovviamente – dai suoi successori.
Per concludere, è un libro che consiglio. L’unico vero limite è che l’analisi dell’autore è tutta rivolta alle fonti letterarie, che sono quindi un riflesso di ciò che pensava la classe alta di Roma; mute rimangono le voci delle classi basse. L’analisi dell’età imperiale post-augustea, inoltre, è molto sbrigativa. Rimane comunque un libro molto interessante: conciso, chiaro e ricco di citazioni a piè di pagina.

Roma, 509 a.C. Alla notizia del suicidio della nobile matrona Lucrezia, violentata da Sesto, figlio del re Tarquinio, il popolo di Roma guidato da Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio insorge e caccia il proprio sovrano.
È la Repubblica;
La libertà conquistata è però immediatamente minacciata dal ritorno di Tarquinio, il quale chiede alle ricche città dell’Etruria che esse l’aiutino ad essere ristabilito sul trono di Roma. Il potente Porsenna, signore di Chiusi, arma un grande esercito composto da Etruschi e Latini e marcia sulla città.
Tre giovani Romani sono chiamati alla difesa della patria in pericolo: il patrizio Orazio, discendente di un eroe leggendario; il giovane Muzio, che dalla tirannia di Tarquinio ha subito torti dolorosi; la fanciulla Clelia, determinata ad avere un ruolo nella difesa della città.
La difesa della libertas susciterà la virtus?
Pagine: 383
Data di uscita: 9 giugno 2024
Prezzo ebook: 4,99 € in prenotazione a 2,99 € fino alla data di uscita
Prezzo cartaceo: 14,99 €
Disponibile in Kindle Unlimited di Amazon
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