Il libro rievoca la vita e le imprese leggendarie di Annibale, il condottiero cartaginese che nel corso della seconda guerra punica (218-201 a.C.) inflisse ai Romani una serie di disastrose sconfitte (la più devastante nella battaglia di Canne, 216 a.C.). A piegare Annibale, sul suolo africano, nella battaglia di Zama, fu poi Scipione, che della lezione del Barcide aveva sagacemente fatto tesoro. Ridimensionata Cartagine, Roma si avviò verso il predominio sul Mediterraneo. Una lettura coinvolgente, da cui emerge la figura di un generale tra i più grandi di ogni tempo.


Pagine: 176
Formato: Cartaceo, ebook
Editore: Il Mulino
Anno di uscita: 2018
La biografia di un condottiero e nemico straordinario
Lo confesso: un libro che nasce come adattamento di interventi svoltisi nel corso di una trasmissione radiofonica raramente incontra il mio interesse. Il primo motivo, ovviamente, è che l’ascolto della suddetta trasmissione avrebbe, probabilmente, un minor costo economico; il secondo è che il formato audio non ha la stessa “velocità” né “densità” di informazioni della parola scritta. Forse, sono miei pregiudizi, che raramente sinora sono stati smentiti (sia comunque chiaro che della trasmissione in questione, la famosa Alle otto della sera di Radio Due ho ascoltato e apprezzato centinaia di puntate).
Non è affatto questo il caso del libro di cui parlo oggi. Anzitutto, il nome dell’autore: Giovanni Brizzi è tra i massimi esperti italiani (e mondiali) della storia di Roma nel periodo delle guerre puniche e, in particolare, della figura di Annibale Barca; autorevolezza che ho già avuto modo di provare in altri saggi come il magnifico Scipione e Annibale, 70 d.C. e Io, Annibale. La relazione, se così possiamo dire, tra studioso e figura storica è confessata con grande emozione dallo stesso Brizzi nella premessa del libro, in cui rievoca le vicende editoriali dello stesso:
Se è vero che, per me, Annibale resta – per così dire – una sorta di ideale tiranno da cui mi è (e mi sarà sempre…) impossibile staccarmi, si tratta però di un tiranno amato e fecondo; ed è vero che, studiando le sue gesta e persino identificandomi con lui, ho potuto raggiungere alcuni ormai radicati convincimenti, preziosi per lo storico.
Chi è, anzitutto, Annibale? Una memoria storica prima e una storiografia poi che gli sono state lungamente ostili hanno visto nel condottiero punico quasi null’altro che il devastatore dell’Italia antica: la famosa stele del santuario di Era Lacinia, che enumerava le 400 città d’Italia conquistate; i censimenti dei cittadini romani, che attestano perdite di vite umane nell’ordine delle centinaia di migliaia di uomini. Tali dati non sono falsi, ma sono anzi confermati da Brizzi, che azzarda un paragone significativo:

Si tratta di una guerra che è spaventosa anche per la sua portata, oltre che per la sua estensione: le distruzioni e le sofferenze patite, per esempio, dall’Italia meridionale nei quindici anni in cui Annibale vi soggiorna, dal 217 al 203, sono veramente atroci, inenarrabili, tali da poter essere paragonate, secondo alcuni studiosi, soltanto a certi momenti del secondo conflitto mondiale, addirittura, secondo me, all’invasione tedesca dell’Unione Sovietica.
Tutto questo trova eco nel famosissimo ritratto che lo storico Tito Livio fa di Annibale in esordio del libro XXI della Storia di Roma. Virtù straordinarie convivono accanto ad una perfidia plus quam punica (perfido più di un punico!) e ad una inhumana crudelitas che porta il cartaginese a non tenere nulla in considerazione: né verità, né patti, né religione.
II “vero” Annibale
Annibale non è solo questo. Brizzi ricostruisce gli aspetti più originali del condottiero. Il suo genio militare, già ampiamente trattato da molti altri storici (fra cui lo stesso Brizzi nelle opere che ho citato sopra), è cosa nota: la traversata delle Alpi, l’imboscata del Trasimeno, la manovra di Canne. Meno noto, invece, è il fatto che Annibale rappresentasse un personaggio straordinario anche per l’ambiente punico-fenicio della propria madrepatria. Ai costumi tradizionali – carattere austero, atteggiamento fatalistica, rigore quasi “protestante” – che gli provennero senza dubbio dalle origini puniche, egli unì un’importante componente di educazione ellenica, per meriti di capaci educatori e dell’esperienza sul campo. Fu l’assorbimento dei valori ellenici che permise ad Annibale di divenire un condottiero a tutto tondo, in grado di guidare un esercito multietnico composto da numidi, libici, iberici, celti e italici e renderlo uno strumento letale che fece scempio delle legioni di Roma. Questo non fu soltanto frutta della disciplina e del carisma di un singolo: fu anche un attento studio di ciò che muove le masse. Annibale, sembra ormai chiaro, riecheggiò consapevolmente il mito di Eracle, che in ambiente punico era noto come Melqart. Eracle: l’unico vero mito comune di tutti i popoli del Mediterraneo.

Anche la sua complessiva visione strategica rivela il genio non comune di Annibale: intento di Annibale era quello di sconfiggere Roma separandola dagli alleati italici. Fu proprio il fallimento di questa strategia (e non, si badi bene, il fatto di averla perseguita), che segnò la fine di Annibale: le città del Lazio e di più antica integrazione rimasero fedeli a Roma. A tradire furono gli italici di più recente conquista e le città greche del meridione d’Italia. Tali fatti ebbero conseguenze incalcolabili sulla storia di Roma. La tesi storiografica che vede nella seconda guerra punica il prodromo della fine della piccola proprietà terriera e, quindi, della repubblica stessa nel I secolo a.C. è una tesi ormai non più così comunemente accettata: ma rimane indubbiamente suggestiva e, credo anch’io, con molto fondo di verità. Nel rispondere allo storico Polibio, che ad Annibale assegna il ruolo di katechon (personaggio storico che arresta il naturale evolversi dei processi storici), così scrive Brizzi:
Io lo vedrei invece in un ruolo diametralmente opposto: Annibale è per me proprio colui che, con la sua azione in Italia, accelera enormemente processi sociali, forse latenti, ma che sarebbero stati, senza il suo intervento nella penisola, lentissimi. Se mi si passa la metafora, è l’altissima febbre che, quasi attraverso una pubertà dolorosa e brevissima, strappa il popolo romano alla sua infanzia e lo proietta verso una giovinezza tormentata e violenta. Con i secoli dell’impero verrà la maturità, e sarà una maturità splendida; ma questa – come si dice a volte alla fine di un film – è un’altra storia.
Se il dato economico e sociale dell’Italia del III-II secolo a.C. non può essere da noi pienamente conosciuto, tali considerazioni sembrano particolarmente azzeccate sul piano morale: la paura dell’invasione dell’Italia e, quindi, dell’esistenza di nemici in grado di intraprenderla, fu spesso motore delle azioni romane negli anni che vanno dal 202 a.C. fino al 146 a.C. (caduta di Corinto e di Cartagine stessa). Oltre a questo, Annibale modificò per sempre la mentalità del ceto dirigente romano: l’antica “cavalleria” (come scrive esplicitamente Brizzi) fu sostituita da un atteggiamento realista e spregiudicato che spianò la strada, dal punto visto morale, alla crisi della repubblica e alla comparsa dei generali (da Silla a Pompeo, da Cesare a Marco Antonio) del I secolo a.C.

Conclusioni
Il libro è fortemente consigliato a chiunque, anche neofita e per nulla conoscitore della biografia di Annibale, sia interessato all’argomento. Gli eventi sono difatti narrati in ordine cronologico, non ci sono note che appesantiscono e gli accenni “accademici” sono, per l’appunto, accenni. Vi sono inoltre alcune pagine e capitoli che rivelano che siamo di fronte ad un autore e un’opera di caratura superiore: un primo esempio è il cenno indiretto che ad Annibale viene fatto nell’Eneide di Virgilio nel libro quarto, in occasione della morte di Didone e che Brizzi sviscera in dettaglio; un secondo esempio è il capitolo “Immagini di guerra” che è, al tempo stesso, un’analisi della guerra antica dal punto di vista “psicologico” nelle diverse tradizioni (greca, romana e punico-greca dell’armata di Annibale) e della figura, forse creata ad hoc da Polibio, di Annibale monomáchos.
In definitiva, un libro essenziale nel restituire ad Annibale, sconfitto dalla storia, il giusto ruolo che ebbe e la visione particolare, frutto del crocevia di culture che era il Mediterraneo dell’epoca, che egli portava. Concludo con il giudizio di Jerôme Carcopino su Annibale, su cui Brizzi si dice sostanzialmente d’accordo:
Tra i condottieri dalla curiosità infinita e dalla universale cultura. Pur se non ebbe per maestro un Aristotele, come toccò ad Alessandro, somiglia a quei capi vittoriosi che furono anche scrittori o letterati, come Giulio Cesare, Federico II, o Bonaparte e che, per l’ampiezza degli orizzonti, l’eleganza del gusto raffinato dalle letture, per i loro contatti, le riflessioni e la sicurezza del giudizio, hanno saputo trasformarsi dall’oggi al domani, se necessario, in diplomatici e in uomini di Stato.
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