“Il mistero di Scapa Flow” di Alexandre Korganoff

di Stefano Basilico


Isole Orcadi, notte del 13-14 ottobre 1939

Un episodio molto conosciuto, l’opportunità di ristudiarlo e ripercorrerlo: l’emozione dell’acquisizione di una copia della prima edizione italiana, ormai antica di oltre mezzo secolo, di un autorevole testo in materia. L’affondamento della corazzata inglese HMS Royal Oak, silurata dall’U-boot U-47 nell’ancoraggio di Scapa Flow: una vicenda che a distanza di oltre otto decenni non ha perso l’alone di una componente di mistero, che trascolora nella leggenda.   

L’impresa del Kapitänleutnant Günther Prien, letteralmente un ‹‹unicum›› nella storia della guerra sottomarina, si colloca in quella fase della “guerra crepuscolare” dell’autunno del 1939 che si connota come una estrema appendice della guerra navale combattuta nella Prima Guerra Mondiale. Quella medesima “guerra crepuscolare” che vedrà idealmente il suo epilogo due mesi dopo sulla sponda opposta dell’Atlantico, in corrispondenza dell’estuario del Rio de La Plata (17 dicembre 1939): con il rogo della KMS Admiral Graf Spee, dopo che la corazzata tascabile aveva fatto rivivere le imprese dei “corsari” della Marina Imperiale Tedesca, dall’incrociatore SMS Emden di Karl von Müller alla Divisione Navale d’Oriente guidata dai Panzerkreuzern gemelli SMS Scharnhorst e SMS Gneisenau.

La vicenda – personale e umana, ancor prima che militare – di Prien rappresenta un paradigma della condizione della Germania all’indomani del Trattato di Versailles: una spaventosa crisi sociale ed economica, esacerbata dalla iniquità di una “pace cartaginese” imposta dalle Nazioni dell’Intesa e ben simboleggiata dalla applicazione di una assurda “clausola di colpevolezza” (art. 231) unilateralmente attribuita al Secondo Impero Tedesco.

Quel Günther Prien adolescente, orfano di padre, che sognava il mare per evadere dalle ristrettezze della natia Lipsia: appeso su una parete della sua cameretta, come ad aprire infiniti orizzonti, il ritratto di quel Vasco de Gama che aveva doppiato il Capo di Buona Speranza. La benedizione della madre, che non ne volle ostacolare il cammino e le aspirazioni; il periodo iniziale di crescita ed addestramento prima alla Scuola di Marineria di Finkerwärder e poi sulle unità della marina mercantile. Poi, dopo la nuova crisi del 1929 che lo vide appiedato malgrado avesse ottenuto il brevetto di capitano di lungo corso (e viceversa impegnato negli estenuanti lavori di prosciugamento delle paludi di Vogtsberg), la risposta al bando di arruolamento della rinascente marina militare tedesca.

Poi, la scelta definitiva: gli U-boote, la Scuola di Kiel. Infine l’appuntamento con la storia, alle Isole Orcadi; un arcipelago all’estremità dei mari settentrionali, sullo sfondo di un orizzonte spesso grigio e caliginoso, a delimitare un mare interno. Uno specchio d’acqua che evocava fatali ricordi per la antica Kaiserliche Marine: ad accompagnare idealmente Prien, in quella notte senza luna, il ricordo del sacrificio dell’Oberleutnant zur See Hans Joachim Emsmann (affondato con il suo U-116 il 28 ottobre 1918 mentre tentava di violare l’ancoraggio in un estremo atto di sfida alla Royal Navy), nonché quello della figura dell’ammiraglio Ludwig von Reuter, che aveva comandato l’autoaffondamento delle unità della Hochseeflotte, trattenute unilateralmente “in ostaggio” dagli Inglesi dopo la cessazione delle ostilità, rivendicando l’onore della Marina Imperiale e di una flotta invitta (21 giugno 1919).

La narrazione di Alexandre Korganoff ci porta indietro nel tempo. Da un lato emerge il rigore della trattazione storica con l’accesso alle fonti, anche se – tenendo conto del fatto che il libro era stato scritto trent’anni dopo gli avvenimenti descritti – l’Autore aveva dovuto misurarsi con la limitata accessibilità e riservatezza di documenti ancora secretati; paradigmatico, a tale riguardo, il tema delle reticenze – soprattutto da parte britannica – sulla presenza o meno in rada dell’incrociatore da battaglia HMS Repulse nella notte dell’attacco, e del suo supposto danneggiamento. A tale riguardo, la tesi espressa da Korganoff appare di una linearità del tutto coerente: in primo luogo, non è credibile che dei sommergibilisti esperti scambiassero la piccola e antiquata portaerei HMS Pegasus con il ben più poderoso battlecruiser, a cominciare dalle macroscopiche differenze dei profili delle due unità; in seconda istanza, all’atto di tentare di riguadagnare l’uscita dalla rada per fare ritorno a Kiel, l’U-47 aveva ancora una dotazione di 5 siluri disponibili: se Prien non decise di provare a utilizzarli, dopo aver silurato la HMS Royal Oak, è perché non c’erano altri obiettivi degni di un attacco.

Per contro, la narrazione scava nelle profondità della psicologia dell’equipaggio, dal comandante ai suoi marinai, restituendo il clima che si viveva a bordo dei sommergibili in quell’epoca. Un ambiente piccolo, una comunità coesa di individui che si trovavano forzatamente a condividere le loro quotidianità: dalle scaramanzie alle riservatezze sugli ordini e missioni in atto, dalle nostalgie personali alla consapevolezza del fatto che l’incolumità di tutti dipendeva dall’impegno e lucidità di ognuno.

Günther Prien all’epoca era già uno degli assi del sommergibilismo tedesco: non può quindi stupire che all’atto di individuare un comandante a cui proporre una missione così peculiare a Wilhelmshaven avessero pensato a lui. Una miscela di ardimento e astuzia, freddezza e generosità: in più, le doti di umanità e di cameratismo che ne fecero un idolo per gli uomini del suo U-47. Una missione che non rispondeva solo a motivazioni storiche, o “romantiche”: al contrario, l’impresa di violare quella che era considerata la Gibilterra dei mari più settentrionali, il covo stesso della Home Fleet, rispondeva a un preciso disegno strategico. La munitissima base di Scapa Flow nelle Isole Orcadi, così come era già successo nella Prima Guerra Mondiale, continuava infatti a rappresentare la chiave della dottrina navale della Royal Navy nelle acque metropolitane, elemento essenziale per il controllo del Mare di Nord e dei canali di uscita delle unità della marina tedesca dalle loro basi, per l’accesso in Oceano Atlantico. Infine, poter provare che quell’ancoraggio naturale era tutt’altro che inaccessibile alla minaccia nemica (una preoccupazione costante dell’Ammiragliato britannico, sempre alle prese con la necessità di ostruirne selettivamente gli accessi nell’arco dei decenni), avrebbe comportato lo spostamento delle grandi unità inglesi verso altri porti, più vulnerabili.

Dopo la rapida decisione da parte del comandante di accettare l’incarico, la partenza del battello da Kiel fu stabilita in data 8 ottobre: per poter arrivare a Scapa Flow il successivo giorno 13, in corrispondenza di una notte con marea favorevole e senza luna. Dall’U-47 era stato scaricato gran parte del materiale normalmente imbarcato, in previsione di una crociera che sarebbe stata comunque breve. A dissipare l’iniziale sconcerto dell’equipaggio per questa inaspettata situazione, la comunicazione di Prien che rese partecipi i suoi uomini degli obiettivi della missione, una volta in sicurezza e al sicuro da intercettazioni.     

Dopo una navigazione con rotta nord-ovest, l’U-47 poté raggiungere le Isole Orcadi secondo il piano prestabilito nella serata del 13 ottobre; era ormai passata la mezzanotte, quando il battello – dopo aver superato gli sbarramenti del passaggio di Kirk Sound, avendo anche rischiato di rimanere bloccato o che qualche ostacolo danneggiasse le eliche – riuscì ad accedere alla rada di Scapa Flow.

Nella luce fioca dell’aurora boreale un breve, quasi irreale aggirarsi – navigando in superficie! – laddove esattamente 20 anni prima aveva avuto luogo il sacrificio estremo della Flotta d’Alto Mare, vero e proprio Götterdämmerung della squadra da battaglia del Kaiser Guglielmo II.

La rada apparve dapprima inspiegabilmente vuota di navi: malgrado i rapporti dei giorni precedenti attestassero la presenza di numerose unità pesanti alla fonda, l’area verso le isole di Fara, Cava e Flotta – tradizionale zona di ancoraggio per navi da battaglia e portaerei – era deserta. Quasi a riproporre un arcano sortilegio, una beffarda analogia con quanto era successo in occasione dell’incursione dell’U-18, ancora nella fase iniziale della Prima Guerra Mondiale; in data 23 novembre 1914 il battello della Marina Imperiale guidato dal Kapitänleutnant Heinrich von Hennig era infatti riuscito a penetrare nell’ancoraggio, ma le speranze del suo comandante di poter infliggere un altro duro colpo alla Home Fleet (dopo che il 22 settembre l’U-9 guidato da Otto Weddigen aveva silurato ed affondato in rapida successione gli incrociatori corazzati HMS Aboukir, HMS Cressy e HMS Hogue nelle acque del Mare del Nord) erano state irrimediabilmente frustrate dalla precedente uscita delle navi inglesi da Scapa Flow.  

Prien non si diede per vinto e comandò un ulteriore giro di perlustrazione. D’improvviso, in un’insenatura nelle acque più prossime a Pomona, poco prima della una del mattino venne avvistata una grande sagoma scura, prontamente identificata come una nave da battaglia della classe Revenge. Era infatti la corazzata HMS Royal Oak, all’ancora, immobile e silenziosa come una belva placidamente addormentata nella sua tana: un’unità imponente da 33.500 tonnellate di stazza lorda, armamento principale 8 pezzi da 381 mm in torri binate; veterana della Battaglia dello Skagerrak, era stata successivamente sottoposta a lavori di ammodernamento nel periodo post-bellico. Alle sue spalle, alla fonda qualche miglio più verso terra, fu possibile vedere la sagoma della piccola e antiquata portaerei HMS Pegasus (7000 tonnellate).

Dopo il caricamento dei tubi e il primo lancio, malgrado l’attesa non si verificò alcuna esplosione, solo una colonna d’acqua accompagnata da un’eco ovattata non in grado di scuotere il silenzio che gravava su Scapa Flow: come se uno scudo invisibile continuasse a proteggere la corazzata. Pur nell’avanzare della notte, il sommergibile si riportò in posizione utile ritentare l’attacco, con i tubi ricaricati; dopo circa 20 minuti il secondo lancio, con le lancette a scandire i secondi e poi i minuti: uno, due, tre siluri… Infine, un boato a scuotere i silenzi spettrali della rada, altissimi bagliori d’incendi a spezzare l’oscurità; poi la fuga al massimo della velocità consentita sotto le sciabolate di riflettori di ricerca e nel ribollire dell’acqua sotto l’azione delle bombe di profondità rilasciate dai cacciatorpediniere.

Dopo aver riguadagnato il mare aperto, passando sempre per il Kirk Sound, il sommergibile puntò a sud in direzione della Germania. Quando il comandante risalì dal boccaporto dopo un breve riposo che lo aveva ritemprato dalla spossatezza e dalla tensione accumulata, fu accolto dall’omaggio tributatogli dal suo equipaggio: dipinta in vernice bianca sulla torretta, campeggiava la figura di un toro che sbuffa. Günther Prien, “Il Toro di Scapa Flow”, potrà fare ritorno a Kiel con il sommergibile intatto e in perfetta efficienza; gli Inglesi, per parte loro, annunciarono pubblicamente e senza reticenze la perdita della HMS Royal Oak, sventrata dai siluri dell’U-47 durante l’incursione. Successivamente, quell’immagine del toro che sbuffa diventerà il simbolo dell’intera 7a flottiglia degli U-boote.

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«Auf einem Seemannsgrab, da blühen keine Rosen»
“Sulla tomba del marinaio non fioriscono le rose”

così recita un antico inno della Marina Tedesca.

“Il Toro di Scapa Flow” non potrà sfuggire a questo destino, che lo accomuna ad altri uomini di mare: Christopher “Kit” Cradock (Coronel, 1° novembre 1914), Maximilian von Spee (Isole Falkland, 8 dicembre 1914), Horace Hood (Skagerrak, 31 maggio 1916), William Makeig-Jones (Atlantico settentrionale, 17 settembre 1939), Carlo Cattaneo (Capo Matapan, 29 marzo 1941), Lancelot Holland (Stretto di Danimarca, 24 maggio 1941), Tom Phillips (Mare della Malesia, 10 dicembre 1941), Erich Bey (Capo Nord, 26 dicembre 1943).

Nel marzo del 1941 il sommergibile U-47, colpito dalle cariche di profondità del cacciatorpediniere HMS Wolverine, scenderà negli abissi dell’Atlantico: l’estrema dimora di Prien e del suo equipaggio è segnata da un incrocio di coordinate geografiche, sulla superficie dell’oceano.


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